Mi voglio prendere la libertà di compiere una deriva lungo i meandri della mia memoria per rimasticare il nome di Francesca Alinovi senza seguire una logica accademica e scientifica se non quella del vagare tra i suoi testi e del lasciarmi calamitare da certe tematiche che sento affini a questo 2022, mescolando reperti e testimonianze, dirette su Twitch e chiacchiere da bar, libri e notebook non miei.
Il punto di partenza, o forse il punto di eterno ritorno, ontologico, intimo e sovversivo, è il saggio L’arte mia: “Ognuno, oggi, ha l’arte sua, e ognuno ha l’arte che si merita. […] dopo l’arte universale, o l’Arte con la A maiuscola, è giunta ora la volta dell’arte life size, dell’arte a misura d’uomo proporzionata alla sua taglia individuale: un’arte che ciascuno può (e deve) fabbricarsi da sé e per sé, in armonia con le proprie possibilità creative. È questa, l’arte del MIO, l’arte che ciascuno liberamente produce o si sceglie (non c’è differenza sostanziale tra il fare e lo scegliere) […]”[1]. L’incipit di questo testo, timbrato da un titolo slogan, si lascia alle spalle la dottrina modernista, rigorosa, seria e silenziosa, per celebrare fragorosamente la morte dell’arte e la sua resurrezione, abbracciando l’avvento dell’era post-moderna come “un’età del MIO e dell’Io” che “non […] più uniti e indivisi (la mitica ricerca dell’identità come di una cosa, dall’id latino: ‘cosalità’) […] spaziano nel tempo, grazie ai loro prolungamenti elettronici, e si dilatano nello spazio, grazie alle loro espansioni oggettuali”[2]. La via da seguire è nell’atteggiamento, nell’essere autenticamente parte della vibrazione del tempo contemporaneo (“Esigo elettroshocks e climax di lavori irritanti e sublimi. […] la libertà artistica attuale non significa ‘senza arte né parte’, ma artisticità non convenzionale: in pratica, arte da inventare e reinventare continuamente”[3]) e quindi in armonia con l’altro e la collettività (“In ogni caso attenzione! Manifestare la propria arte è un’arte difficile e rischiosa. Il MIO di ciascun individuo ha senso e valore solo se è sintonizzato con il mio di tutti gli altri, se comunica cioè con il tutto”[4]): l’artista post-moderno, atomizzato e irradiato lungo un globo elettrificato, può fare e rifare tutto, con qualsiasi mezzo e forma e, anzi, nessuna definizione o ismo può rendere giustizia e circoscrivere l’espansione del MIO. Tuttalpiù, “ogni artista meriterebbe la propria etichetta”[5], così come potrebbe accadere per ogni opera (“Si può fare anche una sola opera nella vita, una e non una di più. Ogni lavoro è una tendenza”[6]).
Nella sua lettura, Alinovi vive un’utopia, propria di quei tempi, in cui si esaltano le infinite possibilità sia per chi fa arte, quindi per gli artisti, sia di chi la sceglie, come i curatori, i critici o il pubblico, dando all’arte la possibilità di essere il prolungamento di ciascun individuo, una protesi, voluta, a completamento della propria personalità. Lei stessa dichiara di avanzare come un “radar”[7] che capta le onde e sceglie gli artisti per simpatia (nel senso etimologico di “sentire assieme”), perché, venute meno le regole dello stile formale che definiscono il buongusto (universale o corrente), i nuovi parametri di azione diventano gli “stati di sensibilità, [le] captazioni sottili di flussi elettrici, [la] sintonia di emozioni”[8].
Se attualmente molti curatori di musei scelgono le opere da esporre per senso di colpa, abbrutiti dalla minaccia della cancel culture e illuminati nella ricerca di nuove narrazioni, più inclusive e ibride, quello che muoveva l’Arte MIA era la ricerca della felicità: sotto la lente deformante del kitsch Alinovi vagava tra le definizioni dell’arte colta per sovvertirla, avvalendosi di quel cattivo gusto, peccaminoso e stupido, che togliesse l’arte dal suo piedistallo, rendendola (finalmente!) godibile, sinestetica e accessibile. Il kitsch è “una specie di pornografia applicata all’arte”, una “vittoria del piacere sui valori morali e intellettuali”[9].
Le peregrinazioni di Alinovi sul kitsch spaziano dall’“oggetto banale” di Alessandro Mendini e Studio Alchymia al Pattern and Decoration americano e, ogni volta, si manifestano come degli elisir esilaranti, degli antidoti infiammabili d’ironia che si oppongono alle logiche di un’industria culturale sempre più invadente, cercando in qualche modo di tenere cucito insieme il binomio arte-vita, così forte alla fine degli anni settanta e così fragile già all’alba degli ottanta: “Attualmente la critica d’arte si configura sempre più come ‘marketing’ e campagna pubblicitaria di prodotti già confezionati. Personalmente mi sentirei molto annoiata a dovermi limitare a fare l’agente pubblicitario di questo o quel pacchetto preconfezionato […]. D’altra parte non ho neppure l’intenzione di mettermi io stessa a confezionare dei prodotti (altrimenti avrei fatto la magliaia). Ho scelto questo mestiere perché non andava verso il senso comune. Ecco, a me piace non aver buon senso”[10].
Quando nel 2016 Alessandro Mendini mi racconta di Studio Alchymia individua un impianto teorico affidato “al gergo visivo dell’oggetto della banalità, che porta in sé il concetto che il design estetico, il bel design italiano, a quell’epoca fosse da criticare perché aveva condotto alla prima stagione dell’uso della plastica o all’eccesso di consumismo, per cui. si voleva contrastare queste cose a favore di una normalizzazione del bello, vista su specie antropologica più che su specie dell’estetica […] C’era la necessità che l’oggetto si caricasse di segni romanzo che lo trasformassero in una attività descrittiva, cioè una romanzatura dell’oggetto tramite la decorazione […].Questo voleva dire accettare il kitsch, trovare nel kitsch delle regole di una nuova estetica”[11].
Al tempo, oltre a Jean Baudrillard[12], era emerso Abraham Moles, sociologo dell’Università di Strasburgo e autore di Le kitsch. L’art du bonheur (Il kitsch. L’arte della felicità), un testo arrivato in Italia nel 1979 con la prefazione proprio di Alessandro Mendini e che Alinovi utilizza spesso come base delle sue formulazioni storico-critiche. Ma anche oggi il kitsch è un nodo cruciale nella definizione del contemporaneo. Ne fa fede la foresta di opinioni e reazioni, affilate o provinciali, entusiaste o nichiliste, all’antologia Kitsch uscita nel 2020 (Riga 41), che ripropone, tra gli altri, proprio Baudrillard e Moles[13], oltre a un questionario rivolto a ventisette filosofi, critici e artisti contemporanei che si interrogano sul senso del kitsch nell’età corrente. Tra i pareri e i commenti nei quali mi sono imbattuta, dentro e fuori l’antologia, ricordo in particolare quello di Francesco Bonami: “Si può dire con un margine molto basso di errore che il Kitsch di oggi sia presente nei social quando degenerazione privata, massificazione intellettuale, inautenticità personale, ripetitività, simulazione, contraffazione e dilettantismo la fanno da padroni. […] Che c’è di male a mettere un nano da giardino vicino a un Caravaggio se questa combinazione aiuta lo sprovveduto a entrare nel museo per farsi il selfie, elevando il nano al Caravaggio. Davanti a questa brutalità comunicativa nemmeno il direttore o direttrice di museo più educati del mondo oseranno mai dire ‘mamma mia come è kitsch!’, rischierebbero di finire nella gogna dei social”[14]. Oppure di essere rapinati in una retata del Fronte di liberazione nani da giardino[15].
Certo, guardando al kitsch, dal post-moderno ai post sui social il passo è breve. “Le nuove essenze sono diventate le apparenze”[16] scriveva Alinovi già nel 1982. Ma forse il discorso si può allargare. Il punto di riferimento iniziale è adesso il libro La fotografia. Illusione o rivelazione?, scritto a quattro mani con Claudio Marra e che, in tempi non sospetti (il libro è del 1981), inserisce la fotografia all’interno del sistema più ampio della storia dell’arte, in dialogo con la filosofia, la letteratura e con la cultura in generale, andando ad analizzare la poetica di singoli autori distinti secondo un binomio critico attualissimo, cioè l’illusione e la rivelazione. Nella prima parte, in cui Alinovi affronta il tema dell’illusione, si mette in luce il processo di costruzione dell’immagine, la finzione, la fuga dalla realtà, dal tempo contingente e da sé stessi; nella seconda, di Marra, sulla rivelazione, si guarda invece al qui e ora, all’automatismo meccanico del mezzo fotografico, al disvelamento epifanico, al rapporto col reale. Due facce della stessa medaglia perché ontologicamente proprie della fotografia e che non richiedono al lettore alcuna rigidità mentale nonostante la ripartizione netta del libro.
Nelle sue premesse, Alinovi rileva come la fotografia sia stata presentata al mondo come una tecnologia infallibile, perché, a differenza della pittura, è necessariamente legata al suo referente reale, tanto da creare il “curioso risultato che qualsiasi cosa fotografata, indipendentemente dalla sua realtà, diventi immediatamente vera per il fatto stesso di essere stata fotografata!”[17].
“La foto, nata come scienza, favorisce così il proliferare dell’illusione. […] Anche perché le illusioni, grazie alla fotografia, sono entrate inestricabilmente a far parte della nostra realtà. La fotografia non solo ha moltiplicato le immagini del reale, ma ha realizzato l’immaginazione collettiva, visualizzando l’invisibile, materializzando l’immateriale”[18]. Qui entra in gioco uno degli aspetti più intriganti di questo saggio di Alinovi, la quale, per dimostrare le proprie tesi, racconta con vivacità il dietro le quinte dell’immagine finale, svelando l’inganno “realizzato ‘ad arte’ dal fotografo”[19], ma, così facendo, ci parla indirettamente della nostra attuale attitudine davanti e dietro l’obbiettivo. C’è una realtà-postrealtà ⁄ nonrealtà-neorealtà che le persone creano più o meno consciamente con la fotocamera grazie al mostruoso doppio informe che ognuno culla dentro di sé, ogni volta viziato dal vagare nell’immaginario delle possibilità inespresse in questa vita o irrigidito dalla prigione di un percepito pubblico[20].
Cavalcando la storia della fotografia, dall’Ottocento agli autori a lei contemporanei, Alinovi racconta per esempio l’avventurosa creazione del fotomontaggio Dawn and Sunset del pittorialista Henry Peach Robinson o le fissazioni estetiche di Adelaide Ristori nel voler essere fotografata alla maniera di Maria Stuarda da Disdéri, fino ad arrivare alle metamorfosi performanti di Luigi Ontani nei suoi tableau vivant o alle opere classiche, aggressive e provocatorie insieme di Robert Mapplethorpe, autore semisconosciuto al pubblico italiano del 1981, di cui è messa in luce la capacità sia di captare “una travolgente carica erotica”[21], sia “di metamorfizzarsi di volta in volta dietro la camera per entrare in giusta sintonia con i soggetti da fotografare”[22]. Tuttavia, se qui la fotografia appare con ‘a lato’ il racconto del contesto, del making of tecnico, semantico e psicologico di un’immagine, oggi le due realtà, del pre e del post, si sono alleate in un’unica, perenne narrazione di pose. E non ci sono solo le testimonianze messe in campo dall’autore ma ci sono anche quelle degli utenti del web, che rafforzano o contraddicono la ‘storia ufficiale’. Basta seguire, del resto, un tag. Eppure, dietro il braccio alzato di un selfie, la fotografia è ancora percepita come una testimonianza vera: il focus si è solo spostato (pesantemente) dall’esistente all’esistenza stessa, passando dall’impersonale alla soggettiva, tanto che oramai ci sentiamo in obbligo di fare una foto ogniqualvolta assistiamo a un evento importante della nostra vita, col curioso risultato che qualsiasi cosa fotografata, indipendentemente dalla sua realtà, diventi immediatamente vera per il fatto stesso di essere [solo se è] stata fotografata! O, per dirla con un claim del web, “pics or didn’t happen”.
Ma c’è di più, e cioè l’inevitabile surplus tecnologico. Nel XXI secolo la macchina fotografica è diventata un tutt’uno con gli schermi dei dispositivi digitali collegati a internet: la fotografia oggi condensa su di sé non soltanto la realtà fenomenica e la realtà fotografica, ma anche la cornice affettiva delle connessioni sui social, dei commenti e delle emoji. Una devianza che in qualche modo Alinovi aveva già annusato nell’aria, da una parte ponendo acutamente l’accento sull’aggettivo personal dei personal computer, in un testo dal titolo già di per sé significante, “Affetti artificiali”[23]; e dall’altra quando, parlando del graffitismo nascente nel Bronx e nell’East Village, in uno dei suoi testi più illuminanti, teorizza uno “slang del Duemila” che “si inventa la lingua dell’affetto, dell’arte e del complotto”[24], capace di ridefinire le regole della lingua americana, “la lingua standard universale”, esprimendosi “per immagini parole rimanipolate da individualità che affiorano dal magma del massificato con solitari gesti d’affezione”[25].
Dal mondo analogico delle illusioni siamo entrati, oggi, nel mondo digitale delle fiabe viziate di “enfatia”[26], dove l’eroe o l’eroina vive nelle varie piattaforme internet brandizzando, taggando e raccontando il proprio mondo e il proprio sapere, condividendo o manipolando le immagini e creando così altri mondi, o bolle, dove non è più possibile distinguere reale e immaginario, vero o falso, ma dove ognuno ha la sua dignità e convinzione su ciò in cui sia giusto credere. Esiste un credo per tutti, anche per i terrapiattisti.
All’arte di frontiera[27] e alle tag dei writer e dei graffitisti americani o all’arte life-size e kitsch dell’Arte MIA, oggi si può contrapporre la pratica del selfie, ma anche le attività del pro-am (= amatore con standard da professionista)[28] e del prosumer (= producer + consumer)[29]: ne emerge un nuovo ibrido sociale, un homo ludens di Johan Huizinga[30] condensato nel citizen artist di Allon Schoener[31] e resuscitato come un avatar (o come uno zombie) dal web, che rompe di fatto e globalmente gli schemi dell’esperienza artistica già rotti dalle avanguardie e neoavanguardie del Novecento.
Da qui, è impossibile non essere risucchiati dalla memestetica. La parola, efficacissima, dà il titolo al libro di Valentina Tanni, docente, curatrice e ricercatrice specializzata in pratiche ed estetiche legate all’avvento di internet[32]. Ripartendo dalla centralità della fotografia nell’epoca attuale (“Conosciamo gran parte di quello che conosciamo attraverso delle testimonianze fotografiche: fotografiamo non soltanto per immortalare un evento ma anche per prendere appunti, per la lista della spesa, e via dicendo. Fotografiamo, cioè, continuamente anche perché non costa niente, non c’è più il rotolino analogico”[33]), Tanni definisce come “schizofrenico”[34] il rapporto che ci lega alle immagini: sappiamo benissimo che sono false perché noi stessi le manomettiamo costantemente (basta pensare, banalmente, ai filtri di Instagram) ma continuiamo a comportarci come se fossero vere, oscillando compulsivamente e ogni giorno tra il polo della diffidenza e quello del credo. La sostanza, insomma, non è cambiata molto rispetto al Novecento, ma la frequenza (e il contesto) sì, creando non poche tendenze (e malattie) altamente contagiose. Una di queste, che naviga beatamente la corrente del web con la stessa spregiudicatezza del citazionismo postmodernista, è il meme, oggetto digitale mutante, spesso “dal carattere ludico”[35], che viene ripetutamente condiviso e reinterpretato “con scioltezza e abilità”[36] da utenti il più delle volte inconsapevoli di quello che è il mondo dell’arte, ma capaci di generare di fatto una narrazione che è anche “un nuovo modo di costruire collettivamente l’immaginario, la fusione organica e disordinata di fonti e di influenze”[37].
La citazione, la manipolazione, la condivisione e quindi la partecipazione attiva degli utenti nella ri-formulazione dei significati e dei significanti di un meme è fondamentale. E allora, se la felicità promessa dal kitsch ci è scivolata sulle dita, è lecito domandarci cosa accadrebbe se i curatori dei musei scegliessero gli artisti non per senso di colpa, ma per disattivare la monotonia del mercato, magari grazie a un malsano colpo di risata dal retrogusto punk, oppure grazie alla stessa ironia che il più delle volte genera il ‘fraseggio’ e la vitalità di un meme.
Come Alinovi prima di lei, Tanni nel suo testo si assume l’ingrato compito di andare controcorrente, cercando di capire e definire i parametri di una nuova estetica che, di fatto, è tenuta fuori dall’involucro elitario e neoliberale dell’arte contemporanea. Io stessa, durante la stesura di questo testo, confrontandomi con amici artisti ho fatto molta fatica a parlare di questi argomenti senza scomodare le categorie di “arte alta” e di “arte bassa”, come se produrre un’arte di massa e a basso costo come i meme debba necessariamente essere incasellato nella seconda categoria per essere preso in considerazione. Mi viene in mente, a questo proposito, la mostra “Registrazione di frequenze” (1980), nella quale Alinovi espose artisti appartenenti al sistema dell’arte, come Luigi Ontani, insieme ad autori del fumetto, come Andrea Pazienza: “È noto che il contesto semantizza l’opera tanto quanto le sue qualità intrinseche di segno o di materia. E allora, perché non invertire, o incrociare, le reciproche destinazioni? Perché non esporre, appunto, i fumetti nel museo e a loro volta pubblicare le pitture su Frigidaire? Credo che oggi, per tutti, non si tratti altro che di transitare per brevi momenti su territori di frontiera, scorrere avventurosamente lungo avamposti instabili, per attimi d’incontro, di scambio, di contaminazione”[38].
Tra il post-modernismo e il post-internet le assonanze non sono poche e mi domando quanti e quali altri lidi potrei toccare se ricominciassi questa deriva da capo, partendo da un altro testo di Alinovi. Tuttavia, piuttosto che guardarmi indietro, e poiché c’è sempre un futuro che ritorna nelle ere del post, preferisco lasciare il canale aperto sull’ignoto e sfiorare un affaccio, a posteriori, sulla futuribilità di certi suoi progetti di mostre (come “Arte di frontiera”[39] o “Pittura distratta”[40]) o di certe sue incursioni nella fantascienza che, tra “paranoia e paranormalità”[41], hanno definito quel retro-futuro così caratterizzante la sua scrittura e il suo orizzonte critico[42] (e che, arrivati a questo punto, catapulta noi sul precipizio dell’intelligenza artificiale e dell’autorialità). “Ogni momento artistico è provvisorio e totale come il messaggio abbandonato in una bottiglia cosmica: un’identità naufraga che ondeggia dispersa, e che non è un Io, è mille Io che fluttuano senza radici. L’arte MIA è paradossalmente l’arte delle identità fluttuanti e dissolte. […] Ognuno emette la propria onda solitaria di SOS spaziale: io sono qui in questo istante, e poi sarò là, o non ci sarò, fuoruscendo da questo tempo e da questo spazio […]”[43].