Pubblicato originariamente su Flash Art Italia n. 183 Aprile 1994
L’indagine sul linguaggio che Gianfranco Baruchello conduce sin dalla fine degli anni Cinquanta, è stata ed è la ricerca di modalità operative per l’arte, da non confondere con repentini e puntuali distacchi da mode e stili precedentemente collaudati. La reazione all’informale condusse l’arte verso una forte riduzione linguistica attraverso un sempre più radicale processo di azzeramento e un consequenziale ritorno a dati elementari. Il monocromo, il supporto ricondotto a spazialità sostanzialmente recuperata, lo schermo vuoto, la bidimensionalità della superficie pittorica, furono alcuni degli elementi attraverso i quali gli anni Sessanta, costruirono le proprie basi operative. In questo clima di riconsiderazione dei mezzi e della funzione dell’arte (in cui confluivano il neodada, il nouveau realisme, la nuova figurazione, l’arte gestaltica), la scelta di Baruchello, si orientò immediatamente verso una riconquista dello spazio pittorico non più concepibile, dunque, come territorio nel quale deporre prepotenti e incontrollate gestualità espressive, ma come pagina da riconsegnare all’analisi e al linguaggio. Parallelamente agivano, alle basi di questa ricerca, altri elementi che Baruchello intravedeva come potenzialità per il superamento di una configurazione storicamente definita delle modalità per la ricerca artistica. È proprio in questo territorio che sono andati confluendo una differenziata molteplicità di elementi, la cui analisi e riconsiderazione possono evidenziare il percorso di una ricerca ancora viva e attuale. Al di là di una convergenza con ricerche all’interno delle quali Baruchello si è trovato storicamente ad operare, si delinea nel lavoro di questo artista una sempre presente necessità di situarsi al di fuori, oltre le sistematizzazioni teoriche che hanno ricostruito il percorso dell’arte di questi ultimi tre decenni. La sua profonda consapevolezza del presente, il bisogno di calarsi nell’attualità e di nutrirsi di essa, l’amicizia con Duchamp, il contatto prolungato con Guattari, Lyotard e Jouffroy, la passione per la letteratura e l’interesse per la psicoanalisi (Lacan), il desiderio di sperimentare qualsiasi tecnica e mezzo artistico per ricongiungere le diversità operative sul piano della processualità (“Posso fare un film come faccio un quadro… quello che mi interessa è il montaggio”) sono tutti elementi che hanno interagito per Baruchello alla base di un’operatività artistica che ha prodotto innumerevoli dipinti ma, e sullo stesso piano, anche libri, video, film, azioni.
Lo spazio che interessa Baruchello è uno spazio mentale in cui è il pensiero a tracciare la propria scrittura. Duchamp aveva parlato di arte non “retinica” e Baruchello, quando conosce Duchamp nel 1963, fu d’accordo sul fatto di lavorare per una pittura non “retinica”. Ciò non significava oltrepassare la specificità della pittura su un piano meramente concettuale. Per Baruchello la pittura è un’operazione complessa e con una propria autonomia linguistica. Si trattava, dunque, di trasformare lo spazio dello pittura nel “tableau” di Wittgenstein, ovvero in un territorio entro il quale disseminare i segni di un pensiero che enuncia se stesso attraverso chiare e definite “visibilità”. In questo senso i dipinti di Baruchello, sin dai primi anni Sessanta, sono degli ampi territori entro i quali in uno spazio bianco (per lo più su lastra di alluminio ma anche su tela o altro supporto), piatto, restituito alla sua neutralità, si situa un’enorme quantità di piccole immagini (piccole solo perché “possano entrarne di più” come dice lo stesso artista), rigorosamente definite, che dichiarano la loro presenza senza rimandare ad altro oltre se stesse. Le immagini, “minima visibilità” sono entità autonome, non elementi subordinati ad un discorso, ad un racconto o ad una logica consequenzialità “proprio come non sono racconto una pagina di Burroughs, una poesia di Sanguineti o un happening di Kaprow”. Che le immagini non abbiano la funzione di rappresentare, trova ulteriore conferma nell’ampia presenza di parole, frasi, nomi, nei dipinti. Le parole e le immagini si assimilano tra loro senza ricercare soluzioni di specularità. Non rimandano le une alle altre o ambedue ad un discorso, sono l’essere del linguaggio sottratto a qualsiasi sistematizzazione e articolazione.
Si è parlato per la pittura di Baruchello di “processo di affabulazione”, di “linguaggio di radici simboliche”, di “circuiti semantici”. Ognuna di queste affermazioni è accettabile ma solo in parte, poiché tutte rimandano ad un concetto di rappresentatività che invece Baruchello mette continuamente in crisi. La collocazione delle immagini nel dipinto è il raccogliere tante informazioni, quanto più è possibile e dai settori più diversi, attraverso il filtro della mente: i mass media (radio, televisione, giornali), il sogno, l’ambiente circostante, una telefonata o una discussione, una propria opera e la biografia personale, i fatti del giorno. Ma le opere di Baruchello non registrano semplicemente la molteplicità di informazioni prelevate. Egli infatti produce degli “apici comunicazionali”, sovraccarica i suoi dipinti o i film di informazioni, per mettere in atto un processo di destabilizzazione e decentralizzazione dei sistemi dai quali attinge le notizie e i dati. I quadri di Baruchello non tentano di produrre dei sistemi di pensiero alternativi né si accontentano di divenire una metafora del reale. Ciò che viene fatto vacillare è proprio la possibilità di rappresentare qualcos’altro partendo dalle immagini disseminate nello spazio dei suoi dipinti. Le immagini, segni linguisticamente autonomi, enunciano la complessità, come condizione da cui partire per decifrare il reale. Procedere, dunque, attraverso la saturazione di ogni sistema linguistico (la pittura, il cinema o la scrittura), per raggiungere la soglia, il limite di uno specifico ambito artistico, è la formula usata da Baruchello per evidenziare la complessità, non per rappresentarla. Come diceva Henry Martin nel 1982: “Il quadro” di Baruchello “è un universo di rapporti e riferimenti”. L’assenza di centralità, l’impossibilità di tematizzare l’enorme quantità di informazioni messe in campo da Baruchello, determinano inoltre lo spostamento dall’artista come fonte creativa a cui ricondurre la referenzialità dell’opera, all’artista come regista di operazioni che sottrae se stesso e disintegra la sua soggettività nella complessità enunciata dall’opera.
II progetto è quello di recuperare e non eliminare le contraddizioni, ovvero gli spazi del contrasto per riscoprire nuove relazioni tra le cose. Usa, dunque, come utensili per il suo lavoro, le immagini del fumetto, una pellicola cinematografica destinata al macero (per il film La Verifica Incerta, 1964, in collaborazione con Alberto Grifi), la fotocopia e l’oggetto-scatola allestita con quanto l’artista ha raccolto e conservato nel corso del tempo. Le scatole di Baruchello son anch’esse dei luoghi di raccolta di una molteplicità differenziata di elementi. Gli elementi trovati o realizzati sono avvicinati casualmente, o per una condizione temporale che ne ha accomunato il prelievo, e restituiti al circuito dinamico di informazioni che possono dare. Fa intervenire, dunque, anche la casualità per impaginare gli elementi recuperati, fatto che interessò John Cage che nel 1965 invitò Baruchello a presentare il film La Verifica Incerta al MoMA di New York e al Guggenheim Museum nel febbraio dell’anno seguente. L’intervento dell’aleatorietà incontra però l’alta definizione con cui sono realizzate le immagini, la cura del dettaglio, elementi che non lasciano spazio alla confusione dell’interpretazione o ad una lettura soggettiva da parte della fruizione. L’immagine viene posta nel quadro, insieme a tante altre, in tutta la sua realistica apparenza. A chi osserva, resta il compito di stabilire altre relazioni, interferenze più o meno personali, partendo da quelle immagini-entità rigorosamente definite. La necessità di realismo significa, come dice lo stesso artista, “tornare, dopo la lezione delle avanguardie, alla figurazione delle cose reali”. E tale realismo si sostanzia nel processo di realizzazione dell’immagine, nella sua definizione, anche se si tratta di una giacca rossa da cui emergono con forza i vasi sanguigni (come nelle opere della mostra “Il Faraone dei Sentimenti”, galleria Milano, Milano, del 1987).
Per altro verso, tali presupposti erano anche presenti quando Baruchello, nel 1968, creava, insieme alla moglie Agnese, la società finanziaria Artiflex che, attraverso una regolare pubblicità sulle riviste Marcatré e Quindici, si proponeva con lo slogan: “Artiflex mercifica tutto su scala industriale”. Per non essere assorbito e subordinato dal circuito dell’industria, dal sistema economico capitalista, l’artista stesso dichiarava che non si poteva che “mimare i termini dell’industria, fare finta di essere un’industria”. Così Artiflex, senza mai fare il nome di Baruchello, progettava le proprie operazioni: il teatro-pacco (dietro annuncio sul giornale e pubblicazione di un apposito tagliando da spedire ad Artiflex con la propria richiesta, veniva inviato a casa un teatro-pacco contenente le cose più diverse); l’inaugurazione della società, a Roma, presso la galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, durante la quale una signorina, alla cassa, vendeva monete da L. 5 a L. 10 e monete da L. 10 a L. 5. Il proponimento di far proprie le dinamiche del sistema socio-economico deriva dalla medesima intenzione di realizzare immagini per i dipinti, utilizzando le tecniche e le strategie per la maggiore efficacia e funzionalità dell’immagine, peculiari di territori come la pubblicità, il fumetto, i cartoon. Baruchello usa così, per le sue immagini, i colori, il tratto, la grafica del fumetto, per trasgredire e ironizzare, contemporaneamente, sulla pretesa di inventare e creare proprie immagini. Le strategie che determinano nella realtà mass-mediologica modalità particolari per concepire e offrire la propria diffusione, interagiscono in Baruchello, con la propria e altrui mitologia, la conoscenza del presente, l’impegno etico e politico.
Quando tra il 1968 e il 1969 Baruchello gira quattro film a colori, lo smembramento di un tacchino congelato di produzione americana, con accompagnamento musicale di marce e inni nazionali (Costretto a scomparire), una favola sui bambini, i neri e gli spettatori con sottofondo di registrazioni nella giungla del Vietnam (Perforce), le scene di un nero e di un bianco legati in attesa di essere fucilati su musiche di Frank Zappa (Complemento di colpa), un piatto di spaghetti che brucia in riva al mare (Norme per olocausti), sono immagini realistiche, spogliate di ogni elemento superfluo, che dichiarano la rabbia e il malumore di quegli anni.
Se le immagini sono definite e realistiche, per apparire in tutta la loro più cruda essenzialità, Baruchello ha anche operato nel senso opposto, ma con determinazione, sul versante di una perdita di qualità dell’immagine. Per far ciò, dagli anni Settanta, sperimenta l’uso della fotocopia e della fotocopia della fotocopia, su immagini prelevate sia dai media a stampa (già sottoposte a passaggi fotolitografici), sia dai suoi disegni o dipinti. Si trattava di lavorare sulla perdita di qualità “come elemento accelerante e scatenante della acquisizione di significati diversi da quelli originali” (Baruchello). In La Stazione del
Conte Goluchowsky, un libro del 1978, ottenuto dall’accostamento testo-fotocopia delle foto, si attua un’operazione di forzatura dei significati, attraverso la minor leggibilità e l’ironia della didascalia posta ad accompagnamento delle immagini fotocopiate. La ricerca di significati diversi non è il ricercare simbologie nascoste o contenuti invisibili.
Baruchello cerca, tra gli interstizi prodotti dalle sue operazioni, tra i passaggi che effettua dall’uno all’altro mezzo artistico usato, di evidenziare la sostanzialità di una forza del pensiero non assopibile in una formalizzazione esteriore. Per questo i quadri di Baruchello, come anche i libri, i film o gli oggetti, attendono di essere colti come enunciati di una pratica del pensiero che non distingue una fase teorica ed una oggettiva, ma riassorbe ogni diversificazione di questo genere, nel procedimento con il quale le opere sono concepite e prodotte.
Nel 1973 Baruchello va a vivere in campagna e fonda l’Agricola Cornelia S.p.A., una società che si costituisce con il preciso scopo di “occupare e coltivare la terra”. Se Duchamp aveva posto un orinatoio in un museo, non era allora possibile raccogliere patate o barbabietole come readymade? L’interrogativo non si è risolto per Baruchello nel lavoro materiale, che dal 1973 al 1981, ha svolto su circa dieci ettari di terra. Determina uno scarto, apre una contraddizione intorno al problema dell’utilità o dell’inutilità dell’arte, affiancando l’arte all’agricoltura, proprio nell’epoca in cui il postmoderno annichiliva la ricerca di una funzione e sottolineava l’importanza dell’effimero e del gratuito.
Baruchello vuole invece tornare al problema della funzione dell’arte e lo fa distaccandosene, apparentemente, recuperando la vita all’interno dell’arte o, meglio, ponendo arte e vita sullo stesso piano, in simbiosi. La convinzione di produrre destabilizzazione all’interno delle coordinate tradizionali del sistema dell’arte, oltre ad aver prodotto la Artiflex; l’Agricola Cornelia o alcuni film, conduce Baruchello, nel 1982, a spingersi all’interno di un’operazione di équipe per lavorare su mezzi elettronici per la visione. Viene a crearsi così il gruppo “Altrementi” (Baruchello con Guido Lombardi e Anna Layolo) che fino ad ora ha prodotto più di dieci video, in cui l’artista pone in gioco la centralità del suo stesso ruolo, confondendosi in un lavoro interattivo di équipe.
L’artista, quale Acrobata clandestino (titolo di un’opera che Baruchello presenta all’edizione del 1988 della Biennale di Venezia), compie operazioni pericolose, fa il “cascatore dei filosofi”, come ha affermato recentemente lo stesso artista, vive sulle soglie, negli spazi dell'”infrasottile” di Duchamp, che si delineano al di là del già acquisito e sistematizzato. La soglia (motivo sul quale Baruchello si concentra in un video del 1993), è per l’artista lo spazio neutro, che sfugge al processo entropico che l’energia, proveniente da qualsiasi ambito, attraversa. Il disequilibrio, la perdita di centralità e stabilità, se sono motivi presenti in tutti i suoi lavori, dalla pittura ai film, divengono gli elementi ai quali Baruchello rivolge le sue riflessioni più recenti. La “struttura dissipativa” di cui parla Ilya Prigogine si ricongiunge allora alla nozione di “spreco” di Bataille e Baruchello riconduce la propria indagine sull’immagine e sulla sua produzione, all’analisi del mutamento e delle trasformazioni, anche in senso biologico, dove è la memoria ad assumere il ruolo di un’energia dell’ordine e del disordine, dell’accumulo e dello spreco, del disequilibrio e del mutamento. Lo spazio mentale viene allora nuovamente a coincidere con lo spazio fisico e la sintesi complessa viene ad essere ritrovata nello spazio aperto di un giardino, un grande prato adiacente alla sua casa, nei pressi di Roma. Il giardino è lo spazio delle relazioni e delle analogie: la crescita di un albero, la sua potatura e la raccolta dei frutti, la bonifica di un bosco, e la riapertura di una strada invasa dalla vegetazione, interagiscono con una scultura alta cinque metri, costruita con tecnica aeronautica e posizionata nel giardino, con il prodursi, in quello spazio aperto, di una pratica del pensiero che rifiuta ogni confinamento, con una produzione di immagini colte nel momento della loro stessa formazione (la crescita dell’erba, la nascita di un fiore, la potatura di un albero). Tutto in questo spazio può ritrovare connessioni radicali: l’albero di Mondrian e lo spirituale di Kandinsky, il realismo di Léger, il rigore di Malevic, l’infrasottile di Duchamp e le assimilazioni sostanziali di Magritte. Per la mente e per la nature (come diceva Gregory Bateson), vengono rintracciate identiche coordinate di produzione e funzione. E da ciò, Baruchello parte per realizzare i suoi più recenti libri, immagini, video e film, conducendo queste operazioni con il proponimento di provocare nuovi corto circuiti di dati, ulteriori raccolte di informazioni, collisioni con elementi provenienti dal reale, dai fatti e dalle dinamiche in cui l’attualità si evidenzia, per consegnare il tutto ad una indagine sulla complessità, come nozione da porre a fondamento (Edgar Morin) della conoscenza e dell’analisi stessa delle cose.