L’interesse che Francesca Alinovi nutrì per le sperimentazioni linguistiche del teatro di ricerca, a cavallo tra la fine degli anni settanta e i primi ottanta, le consentì di cogliere le trasformazioni in atto nel mondo dell’arte alle prese con la corporeità come materia d’espressione primaria, terreno privilegiato d’incontro tra diversi linguaggi, nesso di concatenamento per il formarsi di un esteso spazio di “sperimentazione inter-estetica”. Fu con quella sua peculiare attitudine di studiosa nutrita dalla relazione diretta con artisti, opere, materie, luoghi che Alinovi, viaggiatrice tra i mutamenti di paradigma (fino all’autoironia), si pose a caccia del presente della ricerca teatrale con istinto acceso sulle connessioni tra ambienti. Le sue scritture dedicate al teatro o intrecciate con le ricerche performative, gli interventi a convegni e tavole rotonde, le frequentazioni di festival e rassegne testimoniano una presenza, niente affatto marginale, al dibattito nato in Italia a ridosso delle più avanzate esperienze sceniche in quella piega d’anni.
A provocare l’applicazione di Alinovi alla ricerca scenica di quel momento sono all’inizio le prassi che vedono teatro, arti visive e ricerca poetica e sonora, per diverse ragioni, tutte convergere verso l’evidenza situata e incarnata della “forma d’arte ‘viva’ per eccellenza”, la performance: manifestatasi “fin dall’inizio come abolizione delle barriere di confine, terra di nessuno e di tutti, violazione della proprietà e del diritto”a Performance, dunque, come il campo per esercitare, ognuno alla propria frontiera, un’indefinita perdita dei propri limiti d’azione nella “contaminazione polimorfa” che rendeva, agli occhi di Alinovi, impossibile restare autoassolti dentro circuiti separati.
Se nel corso degli anni settanta le arti visive avevano dimostrato di muovere verso “il loro crescente dissolversi nella spettacolarizzazione”, tattica capace di dare massimo rilievo alla dimensione esperienziale del comportamento, uscendo ‘dal quadro’ e incontrando il linguaggio performativo, parallelamente – benché in direzione opposta – l'”artisticizzazione dello spettacolo” aveva condotto il teatro sperimentale a formulare tentativi di uscita dal quadro/arco scenico in chiave antirappresentativa, una volta sgretolato l’edificio logocentrico in favore della componente sensoriale dell’esperienza scenica, in virtù della preminenza accordata alla materialità degli suoi elementi (luci, scene, costumi, suono, voce).
Spettacolarizzazione dell’arte e artisticizzazione dello spettacolo sono i cardini intorno a cui ruota il testo “Dopo il tableau mourant”, che Alinovi firma a due mani con Renato Barilli, destinato al primo numero di Il Patalogo, uscito nel marzo 1979, progetto editoriale della casa editrice Ubulibri (fondata da Franco Quadri). Gli ideatori e coordinatori di Il Patalogo, Giovanni Buttafava e Franco Quadri, lo immaginarono come un enciclopedico “annuario” della stagione artistica appena trascorsa, capace di porsi anche come strumento critico per intercettare tendenze e cambiamenti nel mondo dello spettacolo, censendo eventi, festival, rassegne. L’articolo, lungo e argomentato, appare nella sezione Teatro/Tendenze/Arte, dando ampio spazio all’incrocio tra teatro e arti visive a ridosso delle prime due edizioni della Settimana Internazionale della Performance di Bologna, in particolare della seconda, dal titolo Teatro della post-a-vanguardia, poesia sonora, gestuale e di animazione plastica (1-6 giugno 1978), curata per la parte teatrale proprio da Franco Quadri.
La performance, con il suo “carattere indistinto e multiforme”, dimostra di istituzionalizzarsi innestandosi in simultanea su istanze persino tra loro opposte: la ricerca del massimo grado di verità nell’accadere corporeo (“vita vera”) convive con la tensione verso la massima artificialità attraverso un ostentato ricorso alle convenzioni del teatro ma svuotate delle “forme evolute dell’intreccio e dell’azione”, in opere complessivamente tese allo smontaggio della macchina rappresentativa a vantaggio della dimensione spaziale, tattile, relazionale dell’esperienza sensibile.
La convergenza tra teatro e arti visive si può cogliere nell’accostamento tra la performance Expansion in Space di Marina Abramovié e Ulay, presentata a documenta nel 1977, e due lavori del Carrozzone, gruppo fiorentino di sperimentazione teatrale animato da Marion D’Amburgo, Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, che si erano affacciati sulla scena dei primi anni settanta dichiarandosi orfani di padri per scelta. Ombra diurna. Possibilità di una assenza (1977) e Rapporto confidenziale (1978) sono le opere a cui, con ogni evidenza, Alinovi-Barilli fanno cenno senza nominarle: sono lavori segnati dal desiderio di superare gli artifici di finzione e rappresentazione – già abbandonati gli spettacoli degli esordi intesi come cosmogonie percettive fatte di ombre, maschere e costumi fuori dal tempo – per scartare verso esercizi di deterritorializzazione del teatro ben oltre la destituzione del regime mimetico, a vantaggio di una rifondazione “ambientale” dell’avventura performativa.
In Expansion in Space, al centro di un parcheggio sotterraneo a Kassel, Abramovié e Ulay – in un continuum con le loro esplorazioni performative di quegli anni votate a estenuanti prove di endurance psicofisica – nudi, di schiena, si lanciano ripetutamente contro due pilastri di legno alti quattro metri posti di fronte, fino a produrne lo spostamento: lividi e abrasioni testimoniano “la penosa fatica e l’autenticità dell’esperienza”. Anche Ombra diurna ha luogo in uno spazio non convenzionale, un ex pastificio in via degli Ausoni, nel quartiere di San Lorenzo a Roma: è uno degli accadimenti di La città del teatro. Iniziative di ii (16-23 dicembre 1977), che vede l’abbandono temporaneo del Beat 72 per “aggredire mentalmente la città”, attraverso “una serie di edificazioni di spazi senza radice, accompagnata da un’irradiazione polimorfica di atti mentali”, azioni in luoghi distanti fatte di “convergenze metadisciplinari” capaci di amalgamare, nell’attraversamento urbano, quotidianità e immaginazione collettiva, lungo una nervatura performativa fatta di ombre, universi notturni, apparizioni devianti. I sei piani della palazzina ché accolgono Ombra diurna sono percorsi al buio dal pubblico fino all’immenso stanzone dell’ultimo piano. Li Marion D’Amburgo, nuda, a terra al centro dello spazio, proietta una diapositiva che la ritrae ugualmente nuda ma in piedi nello stesso luogo illuminato a giorno, mentre a intervalli regolari grida “My shadow”.
Ma il momento più significativo è quando Marion e Alga Fox cominciano a prendersi a spallate in uno scoppio di rabbia nient’affatto liberatorio, lanciandosi con veemenza contro la parete di fronte, fino a demolirla. D’impeto Tiezzi, petto nudo e testa rasata, si getta a corpo morto sulle due ricoperte da calcinacci, e prende parola contro il pubblico: “Vergogna schifosi… Basta, non vi basta?”.
Rapporto confidenziale ha luogo a Bologna durante la seconda Settimana Internazionale della Performance: Il Carrozzone occupa diversi ambienti della ex Sidercomit, in via di demolizione nella zona fiera, articolando, in simultanea, una “somma di esperienze esistenziali e di lavoro” tra il piazzale antistante e la terrazza del terzo piano. Al primo, con neon e cubi di ghiaccio a fare da parete divisoria, Marion e Pier Luigi Tazzi, seduti di spalle, si controllano da due monitor; la seconda stanza ospita una vera e propria copia della Memory Box di Vito Acconci del 1972. Nello stesso ambiente, da dietro una parete di vetro, Tiezzi proietta immagini dei lavori del gruppo, emettendo, con due microfoni, dati informativi e stati d’animo, propagati nella stanza attigua vuota e illuminata di rosso. D’improvviso Tiezzi inizia a lanciare sassate fino sfondare la parete che lo separa dall’opera di Acconci, per poi concludere l’azione scagliando sassi e calcinacci contro il pubblico, “visibilmente irritato dalla indubbia antiartisticità provocatoria inerente all’atto stesso dell’abbattere, correndo il rischio di scatenare una rissa”, Alinovi continuerà a seguire e studiare il lavoro del Carrozzone, di quei radicali catalizzatori della contemporaneità che da lì a poco si sarebbero auto-nominati Magazzini Criminali, punto di riferimento sintomatico per cogliere l’esaurirsi della tensione analitica che caratterizza la postavanguardia. Tensione – a detta dei protagonisti – maturata proprio con quei lavori alla ricerca di una corporeità non mediata, in consonanza con la body art e mescolata con istanze concettuali focalizzate sulla transitorietà dell’esperienza performativa come atto consapevole di sottrazione alle logiche del mercato, fino allo spettacolo
Punto di rottura (1979), in cui il linguaggio teatrale si contamina con i “procedimenti dei mass media (cinema, televisione, disco music, sport, concerto rock)”, in collisione con la dimensione urbana e i suoi “luoghi-sintomi” (aeroporto, metropolitana, supermercato), un modo per restituire scenicamente la malattia del quotidiano.
Verso il “teatro-suono”
La sezione teatrale della seconda Settimana, curata da Quadri, coglie in pieno e riarticola i segnali di cambiamento già percepiti nell’ultima edizione della rassegna Incontro/Nuove tendenze di Salerno (1-14 luglio 1976), che trovarono un puntuale inquadramento teorico negli eventi di Cosenza Postavanguardia/Intervento didattico (8-15 novembre 1976), manifestazioni entrambe volute e animate da Giuseppe Bartolucci, critico teatrale, saggista, inventore di contesti e festival concepiti come dispositivi di scrittura scenica e critica, fortemente impegnato in un percorso di produzione teorica non accademica, contaminata sin dai primi anni settanta dal dialogo con critici d’arte come Germano Celant e Achille Bonito Oliva, e poi con Alinovi, non a caso. Durante quelle rassegne, Bartolucci vuole marcare una nuova linea di ricerca (superata la stagione del teatro-immagine) con l’impiego del termine postavanguardia, che prende quota grazie a un “manipolo di giovani arrabbiati”: è un orizzonte aperto dal Carrozzone, dalle incursioni urbane del Beat 72 di Simone Carella, in alleanza con La Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi. “Morte ai padri” è il motto condiviso in cui risuona la sconfessione radicale del recente passato per un azzeramento del linguaggio scenico attraverso misurazioni astratto-geometriche, votate a uno scompiglio “patologico” dell’ordine delle cose. È su questa lunghezza d’onda che Quadri invita a Bologna Il Carrozzone, Simone Carella, Gianni Colosimo, Taroni-Cividin, il duo Dal Bosco – Varesco (molto caro ad Alinovi), artefici di una serie di “esperienze teatrali molto giovani e per nulla considerate dalla critica accreditata”.
Ma la seconda Settimana si muove, nella sezione curata da Arrigo Lora Totino, sotto la spinta dei maggiori rappresentanti internazionali della poesia sonora e fonetica. Henri Chopin, François Dufrêne, Maurice Lemaitre, Jean-Paul Curtay, Max Texier,
Adriano Spatola, Gregorio Scalise, Demetrio Stratos, Valentino Zeichen, Cesare Viviani, Cristina Roncati sono lì a testimoniare la performatività della poesia, non più alimento esclusivo di una presunta élite cul-turale, ma corpo-voce, atto di presenza per transiti relazionali, impronta vocale del performer-poeta. Quel rapporto fiorente tra teatro, poesia e ricerca acusti-
co-musicale colpisce Alinovi tanto che se ne fa interprete, sollecitata dalla tensione a sperimentare osmosi tecnologiche tra “corpo umano” e “macchina”, in una “simbiosi non opprimente e alienante, ma paritetica e eccitante”, pensando al tape bow violin
di Laurie Anderson e all’uso del microfono di Julia Heyward.
La figura che più di tutte folgora Alinovi è tuttavia Demetrio Stratos, per quel suo sperimentare la voce oltre la voce, quel suo prodursi in modulazioni vocali in cui il corpo si scopre strumento musicale di potenza prodigiosa oltre la soglia dell’umano. A un mese dalla morte prematura di Stratos (13 giugno 1979), in un testo inviato all’attenzione dell’allora direttore del quotidiano Il Giorno, Alinovi non si da pace di come i giornali e le televisioni, nel rendergli omaggio, lo ricordino esclusivamente come frontman degli Area, omettendo “la sua prerogativa più straordinaria, quella per cui egli merita il sicuro titolo di fuoriclasse, di protagonista della scena degli ultimi anni, sperimentatore del suono vocale grazie a prodigiose doti di performer “fonetico”. Nell’esplorazione senza riserve di quella sua vocalità proteiforme (fino alla soglia dei 7000 hertz) occorre riconoscere, per Alinovi, una tensione senza eguali verso le più segrete possibilità del corpo. In quelle righe, cariche di dolore e rabbia, tenute insieme con la perizia scientifica che le era propria, si scioglie nello struggimento di una consapevolezza: nessuna documentazione visiva e sonora è in grado di cogliere l’eccezionalità di quelle sue prestazioni “vitali”, alle quali “bisognava ‘esserci”.
È nel testo “Performance, musica e altro”, pubblicato per il catalogo della rassegna sperimentale PER/FOR/MANCE al teatro Affratellamento di Firenze (1-6 marzo 1980)28, che Alinovi mette in luce la centralità assunta dal suono nella sperimentazione performativa e teatrale di quegli anni: a suo dire, “il suono ha compiuto un’irruzione prepotente nel campo dell’arte”, determinando la fine di rituali performativi “consumati in un clima di religioso silenzio e di vuoto pneumatico”. Le interferenze tra regime della vista e musica elettronica, rock e new wave testimoniano, secondo lei, uno spostamento radicale dal teatro-immagine al “teatro-suono”. Non più solo colonna sonora, il suono, “il materiale artistico più fluido, mobile e dinamico che si conosca”, diventa strumento d’attivazione del sensorio funzionale a un’arte “polisensoriale, sinestetica, indefinitamente espansa”, ora con l’inclusione di motivi commerciali, ora mostrando un volto iper-raffinato (lezione appresa da Franco Bolelli). In questo quadro il versante dionisiaco della Body Music di Charlemagne Palestine convive con quello apollineo di La Monte Young, Philip Glass e Steve Reich, con le sperimentazioni tecnologiche della new e no wave e le innovazioni del punk, le une e le altre di ambito newyorkese. Senza dimenticare la scena punk-rock bolognese di Gaznevada e Skiantos. Nondimeno c’è il riconoscimento del mondo del clubbing, con la sua domanda di stati d’eccesso come esercizio di sovvertimento e che trasforma le discoteche in “set cinematografici: palcoscenici su cui si può ballare, guardare, meditare, ascoltare, in un ibrido incontro tra arte e design”. Alinovi coglie con lucidità l’importanza della scena musicale per gli spettacoli del Carrozzone o di Dal Bosco – Varesco, alle prese con assemblaggi di frammenti verbali e di disco music, per produrre un’irradiazione centrifuga della percezione.
Baluginii metropolitani
A partire dalla seconda Settimana bolognese, le interlocuzioni che Alinovi intrattiene con artisti, operatori culturali e critici della scena teatrale si diffondono in convegni, incontri e attraverso scritture di vario tipo, con un’evidente intensificazione fino alla morte. È il caso della tavola rotonda all’interno della rassegna Ultimi segnali a Varese (1981)34, del convegno
Passaggi oltre al teatro Alpha Erre di Roma (1982)35, del seminario Il teatro della società dello spettacolo a Palermo (1982)36 e dell’incontro Sulle rovine del postmoderno? all’Accademia di Brera a Milano (1983). Ma il più plastico riscontro dei contatti tra Alinovi e gli ambienti teatrali sperimentali si coglie nella relazione con Giuseppe Bartolucci. Di questo rapporto è traccia evidente la pubblicazione da parte di Alinovi di un reportage da New York e del saggio Natura impossibile del postmoderno, rispettivamente negli ultimi due numeri di Teatroltre, la rivista ideata da Giuseppe Bartolucci e da lui curata tra il 1971 e il 1983. Il secondo testo era già apparso nel volume Paesaggio metropolitano, co-curato da Bartolucci per Feltrinelli (1982), che contiene, insieme ad altri contributi, anche la traccia editoriale del convegno Arte e metropoli nella società post-moderna, inserito nella mega-rassegna Paesaggio metropolitano.
Nuova performance – Nuova spettacolarità, da lui progettata per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (1981). È il momento in cui la scena sperimentale si esercita a formulare una via teatrale italiana al postmoderno che sta prendendo piede nel dibattito internazionale, attraverso espressioni come nuova spettacolarità o spettacolarità metropolitana, usate anche da Alinovi. Se il dibattito del convegno romano, per qualcuno, ebbe la pecca di essere “rarefatto al di sopra di qualsiasi riferimento possibile al concreto dello spettacolo”, troppo subordinato alle riflessioni sul “concetto di ‘post-moderno’, per la presenza di un folto drappello di attenti osservatori degli sviluppi del pensiero di Lyotard e Baudrillard, resta chiaro che si trattò del tentativo di guardare a un nuovo teatro capace di condurre inedite esplorazioni a ridosso dello sfavillio superficiale della contemporaneità metropolitana.
“Natura impossibile del postmoderno” è, con ogni probabilità, la versione scritta del discorso che Alinovi tenne al convegno di Roma. È un contributo dall’accento teorico che tradisce l’urgenza di fare i conti con le mutazioni in atto nei saperi, in particolare quelli invalidati dalla crescente telediffusione.
Alinovi riscontra l’affermarsi paradossale di un platonismo rovesciato, “occulto”, un orizzonte culturale che soppianta l’esperienza delle cose con idee simulacrali che vestono di patina pellicolare la verticalità della realtà. È una lettura che, per esplicita ammissione, contrae un debito con le teorie del sociologo statunitense Daniel Bell: al suo The Coming of Post-Industrial Society Alinovi più volte ricorre per analizzare la nuova società catturata nelle maglie della proliferante economia dell’informazione. Se “la vita dell’intelletto ha subito un potenziamento tale da viaggiare a velocità ultrasoniche sui binari intrecciati dei networks siderei”, l’attrazione per la falsità delle apparenze ricusa ogni esperienza empirica.
Il postmodernismo per Alinovi è “un fenomeno anti-naturalistico per eccellenza”, deprivato dello spessore mnestico delle esperienze, anche di quelle artistiche, ridotte a paradossali “atti di reminiscenza”, sempre alle prese con conoscenze anteriori,
“qualcosa che non si sa bene dove o quando si è visto o conosciuto, ma che preesiste […] nella nostra mente”. Se il mondo delle cose tangibili è soppiantato dall'”universo mutevole delle loro relazioni impalpabili”, la natura, quindi anche il corpo, perde di centralità – questo è il nodo per Alinovi – a vantaggio delle falsificazioni del maquillage o della decorazione. Sono concetti già espressi con trasparenza discorsiva in “La performance vestita” (1981), testo in cui Alinovi coglie le trasformazioni ‘dermatologiche’ prodotte dall’avvento delle molteplici superfici di mediazione, riscontrando nella performance “una dilatazione epidermica della sua pelle superficiale: una pelle non più naturale (come quella già ampiamente illustrata e vivisezionata negli anni scorsi), bensì del tutto artificiale. Una pelle fatta di immagini fotografiche, filmiche, televisive (talvolta fabbricate addirittura dal computer), oltre che di abiti di stoffa e di abiti culturali”. L’imporsi di questa pelle “sintetica”, contrapposta alla nuda verità del performer degli anni settanta, coincide con l’affermarsi di una “performance vestita”, pellicolare, truccata, catturata nelle reti di “un’estensione medianica pluridimensionale”; la carne del performer si mostra occultata dietro la proiezione simulacrale di sé, falsa copia simulata in caroselli di monitor, amplificatori, proiezioni.
Muovendo da questo nucleo teorico, Alinovi guarda a quel teatro che “non è più performance in senso stretto tanto si è arricchito di spettacolarità”, per evidenziare come, con tiro incrociato, i gruppi teatrali, ognuno una vera “banda di avventurieri”, stiano dimostrando di sapersi rivolgere al meraviglioso urbano gettandosi a pieno nell'”avventura”, disposti ad affrontare “le giungle dei media, i deserti delle immagini, le metropoli dei suoni, le acque della memoria, senza mai citare né rivaleggiare ma inventando sempre, a costo di ogni rischio, la propria storia attraverso la perlustrazione sfrontata delle più inaccessibili frontiere culturali”. In “Il teatro dell’avventura” (1982) Alinovi ripercorre le sperimentazioni di Magazzini Criminali, La Gaia Scienza, Padiglione Italia, Dal Bosco – Varesco, Taroni-Cividin, Gianni Colosimo, Falso Movimento, Marchingegno, e il neonato gruppo Raffaello Sanzios: formazioni artistiche che oppongono resistenza agli scenari corrosi da una cultura (quella televisiva, in primis) che sta alimentando – peccato mortale per Alinovi – una “sedentarietà percettiva”, sedotta da una professionalizzazione pseudo-colta e priva di capacità inventive. Diverse sono le tattiche: appropriarsi degli impulsi elettronici sugli schermi, impiegati per operare uno “sfrutta-mento colonialista” dei mezzi tecnologici; disporsi a “raggi laser”, “esalazioni maligne”, “virus pestilenziali”, per far detonare, con il domestico, energie represse e alimentare facoltà sensoriali ubiquitarie; disarmare la tecnologia con una accesa corporeità; osare la povertà dei materiali per suggerire un mimetismo ecologico con la natura urbana; sperimentare inedite commistioni con il cinema, e finanche con il repertorio lirico; ordire formati performativi che sappiano tenere insieme improvvisazione e progetto.
È un’avventura che implica la piena consapevolezza del proprio “personaggio culturale”,dell’immagine che si dà di sé, tutt’uno con i modelli di comportamento che si incarnano (come d’altra parte era per la stessa Alinovi). Esemplificativo è lo spregio per l’autocompiacimento con cui la Raffaello Sanzio, non ancora Societas, si definisce “il gruppo nevralgico dell’ultimo tempo”, formazione appena uscita dall’adolescenza e già alle prese con quelle che Alinovi chiama “catastrofi di atmosfere agricolo-contadine redente dalla pura forza biologica”. È proprio Alinovi a invitare il gruppo a Bologna a presentare i primi lavori, non ancora intercettati dai circuiti teatrali: all’Accademia di belle arti Persia-Mondo 1 a 1, in cui si compone uno “scontro di animalità e tecnologia”, e al teatro La Soffitta Popolo Zuppo, da cui emerge dirompente un'”accettazione normalizzata dell’abominevole”. Romeo Castellucci non cessa di manifestare, ancora oggi, la forza trainante che Alinovi significò per un’intera generazione di artisti, figura metodica e dalla personalità onnivora, guidata da una luce radiante. È lei per prima a riconoscere la Raffaello Sanzio come un gruppo di campioni del “teatro dell’avventura”.
Un ricordo in luogo di una conclusione
È fuor di dubbio che questa trama di incontri e relazioni meriterebbe di essere approfondita. Vale qui come un primo nucleo di ricostruzioni che andrebbero ulteriormente investite di interesse, anche do-cumentale, per rendere ragione del ruolo che Alinovi giocò, nella sua pur breve interlocuzione, con quella scena della ricerca teatrale italiana che si esercitava a fare teatro come se fosse musica, come se fosse cinema, come se fosse arti visive.
Inseguendola attraverso i suoi testi, depositi di quella tensione a voler essere sempre in anticipo sul futuro, emerge una scrittura densa, che si scolpisce nel suo comporsi fino a farsi tridimensionale e che trova alimento in un’intuizione acuta dei fenomeni (artistici e non solo), a sua volta capace di prefigurazione nella rilettura del passatos ma ben piantata contro ogni forma di scialbo spontaneismo”°. Il suo è un linguaggio esigente, costellato di innesti specia-listici, sollecitato da inglesismi e neo-coniazioni, impastato in una carica argomentativa fortemente persuasiva, talvolta apodittica. E se la parola rara tecnicizza senza intellettualizzare, la connessione tra le parti del discorso s’addensa, d’improvviso, in rilievi metodologici che lasciano trapelare un pensiero generativo, forgiato dallo studio solerte ma in combutta con l’accadere.
Mentre mi dedicavo a ricostruire i rapporti che Alinovi coltivò con le figure e gli ambienti del teatro sperimentale nello snodo d’anni 1977-1983, il mio pensiero è corso a Marion D’Amburgo, che, come un teso filo di corrente, ha marcatamente innervato gli immaginari e i discorsi teatrali degli anni settanta e il gorgo inquieto del decennio successivo, e con la quale e ha preso avvio negli anni recenti uno scambio di riflessioni fruttuoso proprio sugli esordi del Carrozzone. Ma, interpellata su Francesca, Marion non ha voluto parlare, come a non voler scalfire la vividezza del loro incontro, mi è parso poi. A distanza di qualche giorno, mi ha consegnato delle parole, che condivido qui con il suo permesso. Le pubblico per l’eloquenza affettiva, per la forza che hanno di testimoniare come Marion si sentì in qualche modo riconosciuta, toccata da un comune modo di guardare. Un pensiero che sbozza a tinte tenui la figura di Alinovi, campionessa nel fare la spola tra rigore scientifico e promiscuità con le pratiche.
In un caldo pomeriggio di giugno sedevo al margine sinistro di uno scomodo divano a righe gialle e guardavo la finestra di fronte, arrivò per telefono la notizia della tragica morte di Francesca, non potei fare a i meno di alzare le braccia e dalla gola uscì un suono simile allo stridore di un gabbiano, il resto del corpo impietrì, rimasi seduta senza forza per ore e qualcosa cambiò profondamente nella mia vita. Purtroppo non ho tempo e energie per ricostruire la frequentazione con Francesca, che insieme a Renato Barilli e Roberto Daolio curò tutte le fasi della partecipazione della compagnia alla Settimana Internazionale della Performance. La contaminazione tra le varie arti fu oggetto di un fitto scambio. Tornò dall’America magrissima, pavesata in una livrea nera e un’adorabile cresta battagliera al sommo della testa, sprizzava passione e intelligenza, pareva che il fragile uccellino del paradiso avesse ingerito grani di pepe nero.
Se penso a Francesca vedo il filo di una lampadina a incandescenza, irraggiamento di fotoni generato dal surriscaldamento di un elemento metallico. I media pasturarono indecorosamente sulla vita della fragile creatura schiaffata sulle prime pagine come emblema della trasgressione. Penso al corpo di Francesca come un castone – orribilmente sfigurato da 47 colpi di coltello – che custodiva una intensa femminilità e per il tramite della carne trovava le ali per dispiegare una passione intellettuale unica.