Francesca Alinovi ORA! di

di 20 Febbraio 2024

Originariamente pubblicato su Dune Journal vol.003 n.002

Keith Haring graffisce una strada di New York con i gessetti, 1982.

Nella mia carriera di studiosa e di critica militante ho avuto diverse occasioni di scrivere su Francesca Alinovi: condividiamo (seppur appartenenti a generazioni differenti) non solo il percorso di formazione, ma anche la metodologia: la fenomenologia degli stili. Anche in questa ultima occasione, per la giornata di studio a lei dedicata al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, ho compreso quanto la sua scrittura, le sue indagini, le sue intuizioni mi siano affini, riconoscendole una marcata sensibilità critica nel tradurre il proprio presente.
A guardare con più attenzione, e ricordando sempre che Francesca Alinovi non è ancora pienamente riconosciuta a livello internazionale[i], la sua figura viene periodicamente ricordata perché in grado di rappresentare un preciso modo di comporre scrittura critica di altissimo livello e di riconoscere elementi stilistici di un’avanguardia in potenza. Alla luce di questo, appare immediatamente comprensibile perché, sul finire degli anni settanta, in una New York tanto creativa quanto degradata e pericolosa, Francesca Alinovi non abbia solo intravisto un modo unico di intendere scrittura, pittura, superficie e azione, ma sia stata anche in grado di collegare molteplici elementi dello stile apparentemente distanti, comprendendone il potenziale futuro.
Traendo parte del proprio metodo d’indagine dai postulati estetici di Luciano Anceschi[ii] (e dalla fenomenologia degli stili teorizzata da Renato Barilli e a cui la studiosa sarà professionalmente debitrice per buona parte del proprio percorso), Alinovi imbastisce nuove letture interpretative partendo dalla strada (si direbbe oggi), o, per essere più precisi, dal fenomeno praticando una “rilevazione di sistema”[iii] in grado di mettere in campo diverse discipline e contesti. Ambiti quindi inizialmente lontani che, collegati e confrontati tra loro, nonostante le evidenti diversità e le distanze culturali, giungono a circostanziare una nuova analisi critica. È ciò che Alinovi decide di fare coniugando la sua esperienza di docente e di critica d’arte militante con i viaggi newyorkesi nei quali assorbire l’energia underground di una cultura sempre più totalizzante. Certamente la città si presentava allora aggredita, violata, devastata in zone ad alta densità abitativa, come dimostrano le opere fotografiche realizzate da Gordon Matta-Clark nel Bronx: storicamente caratterizzato da una crescita complessa, il distretto a nord-est di Manhattan subiva una delle più drammatiche trasformazioni sociali e speculazioni edilizie della seconda metà del Novecento[iv]. Nel 1973 Matta-Clark, spinto dalla curiosità per la cultura hip-hop fiorita in quell’enclave conflittuale, realizza un corpus fotografico documentando i primi graffiti e intervenendo poi a mano sulle immagini stampate in grande formato in bianco e nero.

Nella primavera del ’72 ha cominciato a infrangersi su New York un’ondata di graffiti che, partiti dai muri e dalle palizzate dei ghetti, hanno finito per impadronirsi delle metropolitane e degli autobus, dei camion e degli ascensori, dei corridoi e dei monumenti, coprendoli interamente di grafismi rudimentali o sofisticati, il cui contenuto non è né politico, né pornografico: non sono che dei nomi, dei soprannomi tratti dai fumetti underground: duke sprit superkool koolkiller ace vipere spider eddie kola, ecc., seguiti dal numero della loro strada […] oppure da un numero in cifre romane, indice di filiazione o di dinastia […], secondo che il nome, l’appellativo totemico è ripreso da nuovi graffitisti. Tutto questo è fatto con il Magic Marker o con la bombola spray, che permette delle iscrizioni alte un metro o più su tutta la lunghezza d’un vagone. I giovani s’introducono di notte nei depositi degli autobus o della metropolitana, e fino all’interno delle vetture, e si scatenano graficamente. L’indomani, tutti questi convogli attraversano Manhattan nei due sensi. Si cancellano le scritte (è difficile), si arrestano i graffitisti, li si mette in prigione, si proibisce la vendita dei marker e delle bombolette: non serve a nulla, essi ne fabbricano artigianalmente e ricominciano tutte le notti.[v]

Le parole di Jean Baudrillard e le immagini di Gordon Matta-Clark ci aiutano, a distanza di quasi mezzo secolo, a immaginare come Francesca Alinovi abbia osservato e vissuto quelle strade lasciate a loro stesse[vi], riconoscendone il forte impatto visivo sul panorama urbano, ma anche intuendone il più ampiovinteresse culturale. Ciò che Baudrillard definisce come urbano[vii] è, anche per Alinovi, contemporaneamente uno spazio neutro e uno spazio iper-segnico; un luogo in cui avviene la crescente segregazione dei ghetti e, allo stesso tempo, lo spazio immenso di nuovi codici, di nuove pratiche pronte a dare vita a quell’idea di arte totale molto cara alle avanguardie storiche di inizio Novecento.

L’arte del futuro spia con grandi occhi scuri spalancati sul centro dalla periferia, mescolata coi detriti e le macerie della città degradata, confusa tra i ghetti delle minoranze razziali, nutrita dal sangue caldo della negritudine in via di espansione. […] gli artisti si sono rituffati sulla realtà e sul sociale. O meglio, sui detriti della realtà e sulle macerie del sociale, rovine, spazzatura, decomposizione. Compiacimento di una regressione neoprimitiva verso lo spazio dell’incolto e dell’affastellamento caotico […] L’attuale arte d’avanguardia, più che sotterranea, è arte di frontiera; sia perché sorge, letteralmente, lungo le zone situate ai margini geografici di Manhattan (Lower East Side […] e South Bronx), sia perché, anche metaforicamente, si pone entro uno spazio intermedio tra cultura e natura, massa ed élite, bianco e nero (alludo al colore di pelle), aggressività e ironia, immondizie e raffinatezze squisite.[viii]

Dalla semplice tag con pennarelli e bombolette spray di cui parla Jean Baudrillard, si passa in breve tempo a interventi più strutturati su treni, muri, banchine della metropolitana. Le tags, i throw ups e i masterpieces[ix] sono ovunque, in un contest artistico espanso e veloce fra crew provenienti dalle frontiere della città: Francesca Alinovi non si limita a osservare alcuni di questi writer, fermandosi a quei pochi che stanno già tentando la via ufficiale delle gallerie d’arte. Alinovi si spinge oltre, in luoghi, per il tempo, molto pericolosi, e da vera antropologa del presente decide di cercare tutti questi giovani artisti di strada, di avvicinarli, e di costruire con alcuni di loro una relazione professionale e personale.

All’origine del movimento sono sempre giovani negri o portoricani. I graffiti sono peculiari di New York. Nelle altre città con forti minoranze etniche, si trovano molti muri dipinti, opere improvvisate e collettive di contenuto etnopolitico, ma pochi graffiti. Una cosa è sicura: gli uni e gli altri sono nati dopo la repressione delle grandi sommosse urbane degli anni 1966-1970. Offensiva selvaggia come le sommosse, ma d’un altro tipo, che ha mutato di contenuto e di terreno. Nuovo tipo d’intervento sulla città, non più come luogo del potere economico e politico, ma come spazio ⁄ tempo del potere terroristico dei media, dei segni e della cultura dominante.[x]

Siamo di fronte a una vera e propria invasione di un nuovo alfabeto espanso, pronto a lasciare la strada (e tornarci “a proprio rischio e pericolo”) per invadere i luoghi della cultura visuale del tempo; Francesca Alinovi intuisce e comprende, e la storia dell’arte contemporanea lo ha ampiamente dimostrato, come questa onda dal sottosuolo salga in superficie con una forza prepotente e travolga esteticamente i termini stilistici, grafici, visivi della comunicazione di massa pensata fino ad allora.
I writer da allora non sono più spariti, creando con la loro iniziale forza spontanea e illegale un grande attacco al decoro d’ordinanza di qualsiasi città occidentale, contrapponendosi poi, nel corso dei decenni, all’idea di città ordinata e pulita con una carica vitalistica mai riscontrata in altri contesti. Il dato più importante riscontrabile in questa parte della ricerca di Francesca Alinovi sta nell’aver riconosciuto una propulsione avanguardista, tipicamente artistica, portando questa ‘forza del sottosuolo’ alla stregua delle altre correnti visuali accettate dal sistema del contemporaneo.

Dipingere oggi […] non significa far pittura, ma usare, se si crede, tra i mille strumenti disponibili, anche il pennello, il colore, la matita. […] la pittura di oggi è una specie di bodyart infinitamente mediata che innesta su oggetti fisici quozienti elevatissimi di sensualità e di intelletto. I concetti, o il Verbo, si sono davvero fatti carne assumendo l’aspetto di brandelli soffici di pelle colorata che, per comodità, chiamiamo col termine convenzionale di pittura.[xi]

In anticipo su molti colleghi Alinovi avverte non solo la forza propulsiva e massiccia del lettering (anche in termini di quantità e occupazione, spesso non autorizzata, di superficie), ma provvede a confermare quanto già affermato nel suo testo per la mostra Pittura-Ambiente, curata da Renato Barilli e la stessa Alinovi presso palazzo Reale a Milano nel 1979, nel quale afferma che il ritorno della pittura non era l’ennesima occasione del primato di un medium artistico su di un altro, ma l’affermazione di un nuovo modo di intendere gesto, colore, superficie, tempo e modalità di intervento[xii]. E, senza chiaramente tralasciare le nuove generazioni di operatori culturali intenti a dipingere, quei giovani di strada rappresentano la vera forza d’urto contro un rientro pittorico smaccatamente commerciale.

Pittura non è uno stato fisico della materia usata, ma una condizione percettiva dell’osservatore: percepire per flussi cromatici, per onde sensibili e colorate, per pellicole dermatologiche adesive sature di intensità. Oggi, poi, si dipinge solo perché si sa che la funzione storica della pittura, come strumento tecnico privilegiato dell’espressione, è finita.[xiii]

Quando Francesca Alinovi incontra e dialoga con molti dei giovani operatori culturali urbani, la prepotenza linguistica e invasiva della disciplina ha già in parte raggiunto il sistema artistico newyorkese, ma la capacità di attraversare i linguaggi, di surfare[xiv]4 attitudini, tecniche, luoghi e contesti, fa comprendere alla nostra come le frontiere siano già state superate. Nell’articolo intitolato “Arte di frontiera” per Flash Art afferma: “Oggi, qualsiasi bambino del Bronx conosce l’esistenza dei computers e apprende tutto quel che c’è da apprendere attraverso la televisione e i mass-media”[xv], confermando quanto il flusso fra elemento materiale e culturale, fra piano alto e piano basso della produzione di immaginario, fosse divenuto l’elemento sostanziale in grado di rappresentare una precisa generazione. Francesca Alinovi, figlia di un postmoderno oramai accertato, definisce il proprio agire e il proprio scrivere attraverso omologie linguistiche e culturali tipiche della fenomenologia, confermando le intuizioni del massmediologo Marshall McLuhan.
È in questo intenso passaggio di consegne che Francesca Alinovi riconosce il potere simbolico dei graffiti[xvi]; si tratta per lo più di transitare tra i confini, tra i riferimenti sempre meno strutturati e sempre più rubati da contesti e contenuti differenti, in cui la contaminazione estetica proclami una nuova avanguardia. Alinovi empatizza con queste “penne nere e visi pallidi” perché in grado di produrre un vero e proprio allargamento sensoriale fuori dal corpo dell’artista e fuori anche dai luoghi di azione ⁄ negazione delle più sperimentali processualità estetiche. La strada, la città e le sue più svariate comunità si trovano, loro malgrado, costrette e relazionarsi in uno scontro visivo in cui le pratiche non autorizzate si mescolano al sistema.

I kids hanno elaborato un inintercettabile gergo linguistico subdolo e criptico, barbaro e futuribile. Un gergo dalla forza insidiosa, che disarticola la lingua convenzionale conosciuta e spezza le linee di associazione pattuite dai regolamenti della comunicazione ufficiale. È questo lo slang del Duemila, il gergo privato e indecifrabile coniato da gruppi eccentrici di cultura che legittimano le loro violazioni di minoranza sulla proprietà largamente garantita di una consolidata lingua di maggioranza: la lingua dei mass-media […]. Assicurato lo scorrimento fluido e facile del linguaggio funzionale universale, lo slang si inventa la lingua dell’affetto, dell’arte e del complotto.[xvii]

La codifica di un nuovo linguaggio, il continuo cammino verso un limite irraggiungibile, la ricerca di una frontiera nella quale i dispositivi artistici si possano finalmente mescolare, dando vita a una sinergia materiale ⁄ culturale, fanno di Alinovi una condensazione perfetta di ricerca scientifica, militanza critica e curatela espositiva in tempi distanti dalla nostra attualità. Lei stessa difendeva con passione la sua natura scientifica con l’aspetto più militante del suo ruolo di critica, eliminando anche qui delle barriere che invece nelle nostre istituzioni, sia accademiche che museali, sono ora sempre più marcate. Negli anni in cui Francesca Alinovi raccontava di questa nuova frontiera, la pittura superava lo spazio della cornice, si espandeva nell’ambiente, si smaterializzava nelle visioni futuristiche in cui un’unica piattaforma avrebbe condiviso e contaminato tutti gli stili e tutti i linguaggi, sapendo però interagire con un luogo sociale, antropologico, culturale. Questa visione premonitrice permette ad Alinovi di vedere oltre la superficie, di andare dove non si dovrebbe andare, di incontrare, parlare e quindi di capire tutti quei kids, che, armati solo delle loro lettere e del loro stile in veloce cambiamento, stanno addestrando una nuova generazione di autori, sconvolgendo le sorti di tutte le metropoli occidentali. Non mi stancherò mai di ribadire quanto in questa parte della sua ricerca risieda l’aspetto più internazionale, più intuitivo, più avanzato della sua breve ma fondamentale vita critica: la sua ostinata idea di un rapporto vivo e ‘performativo’ con le nuove proposte artistiche, il dovere continuo di suggerire, di forzare la lettura, di indicare coraggiosamente e senza timore, assumendosi la responsabilità delle proprie affermazioni. Il periodo era indubbiamente perfetto: da un lato la volontà di cercare e affondare le proprie conoscenze in meandri dell’artisticità ancora in divenire e, dall’altro lato, la noia dichiarata verso la fredda esperienza del concettuale anni sessanta.
“Arte di frontiera” e “Lo slang del Duemila”, pubblicati entrambi su Flash Art, il primo nel 1982, il secondo nel 1983, erano ancora da farsi, ma Alinovi aveva già compreso come quella spinta espansa di cultura disseminata e di nuovi codici linguistici ed estetici avrebbe modificato aspetto e senso dello spazio e del tempo vissuto. Non solo New York quindi, anche se la metropoli americana permette alla studiosa di fornirci le coordinate di una nuova idea di città in continua trasformazione, in cui le zone più degradate e lasciate ai margini stanno creando la fusione di natura e cultura già professata come radice della condizione postmoderna. Ecco che l’ultimo rientro a Bologna porta Alinovi a ipotizzare una mostra da proporre all’allora direttore della Galleria d’Arte Moderna della città, con cui far conoscere questa nuova forza visiva così invasiva e affascinante. Dagli archivi della GAM riemerge una lettera datata 28 settembre 1982, indirizzata al direttore Franco Solmi:

[…] mi permetto di inviarle un mio progetto di mostra, a cui penso da molto tempo (dovrei dire meglio: a cui sono molto affezionata!) […]. Tale progetto si riferisce alla nuova situazione “giovane” americana, quella, tanto per intenderci, legata al graffitismo che tanto successo sta avendo a livello teorico e di idee e che non è ancora stata commercializzata (anche se, c’è da giurarlo, lo sarà prestissimo). Si tratta insomma della cosiddetta “arte di frontiera”, […] una specie di pittura, cioè, a metà tra l’arte e l’illustrazione, il quadro e il graffito, lo spontaneismo e la citazione dotta, la sensibilità occidentale e quella terzomondista.
Gli artisti a cui penso (e che sono grosso modo quelli elencati nei miei articoli: Keith Haring, Kenny Scharf, Ronnie Cutrone, Donald Baechler, John Ahearn, Houston Ladda più i graffitisti propriamente detti come Futura 2000, Fred dei Fabulous Five, Crash, ed eventualmente altri), sono tutti giovanissimi, per il momento facilmente accessibili, corteggiatissimi da direttori di museo e da mercanti […]. Insomma credo che il momento sia buono per mettere in mostra una situazione inedita che farà tanto e tanto parlare.[xviii]

Sono sempre le sue parole a intrecciarsi con quanto scrivo: la conferma di quanto la sua ricerca sul graffiti writing sia stata unica e originale. Una costante e appassionata curiosità la spinge a scoprire una linea precisa di demarcazione, la stessa che poi lei avrebbe infranto e superato, un margine di frontiera che esiste nel gesto dell’artista come nello spazio pubblico, una zona franca in cui far collimare il paesaggio urbano, quello industriale, lo spazio pubblico e la natura, intesa come pratica di riappropriazione dei luoghi deputati. La sua “arte di frontiera” si muove, delicata quanto aggressiva, attraverso le lettere dei writer e ambientazioni eterogenee in cui i linguaggi artistici si contaminano e si alimentano. Nel 2008 sono stata incaricata dall’allora direttore del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna di digitalizzare l’archivio video della GAM e fra i tanti supporti obsoleti ho recuperato un reperto inaspettato e fino ad allora mai più visto, da cui si evince che nei giorni precedenti l’apertura della mostra da lei tanto desiderata arrivarono in parte le opere pronte per essere allestite, ma soprattutto arrivarono quei giovanissimi graffiti artists a realizzare le opere direttamente sul terrazzo del museo.
La mostra Arte di frontiera. New York Graffiti[xix] inaugura nel marzo del 1984 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna alla presenza del direttore Franco Solmi, di tutto il comitato direttivo (composto da Renato Barilli, Flavio Caroli, Anna Maria Matteucci, Concetto Pozzati, Tommaso Trini e Italo Zannier), degli artisti arrivati direttamente dalla frontiera nordamericana del Bronx, ma senza Francesca Alinovi. Alinovi non c’era più, dal 12 giugno del 1983, e probabilmente, benché si siano recuperati appunti, suggestioni, documentazione dei suoi viaggi americani, con lei presente la mostra sarebbe stata diversa. Resta però una delle prime in Europa su un fenomeno non ancora del tutto conosciuto, almeno in questo continente.[xx]

Oggi quando tutto sembra possibile, bisogna volere l’impossibile. Inoltre, dal momento che tutto sembra così facile, bisogna esigere un’arte difficile. L’arte difficile è l’arte inventata a proprio rischio e pericolo […].
In qualità di critico io mi sento oggi molto critica di fronte all’inflazione di prodotti mediocri e acqua e sapone. E nello stesso tempo mi espongo volentieri alle altrui critiche. […] L’apparente facilità di un’arte manuale (nel doppio significato di “fatta a mano” e “da manuale”), colorata, sfatta e arbitraria ha dato l’illusione che chiunque, recuperando tavolozza e pennello, potesse mettersi a imbrattare una tela, resuscitando vecchie accademie e non, ed esibendo una propria imperizia imperitura.[xxi]

Quest’illusione denunciata da Francesca Alinovi è stata alimentata periodicamente dal sistema artistico, attribuendo alle nuove necessità sociali, collettive, comunitarie pratiche che oggi sono ‘determinate’ da ben altri intenti, visioni e prospettive. Ecco allora materializzarsi sulla pelle delle città un’arte da manuale, colorata, sfatta, arbitraria, agita da chiunque (pittori, writer, decoratori, illustratori, imbianchini ecc.) si arroghi il diritto di imbrattare un muro, e poi anche una tela. Imbrattare è il termine utilizzato da Alinovi: volontariamente lo recupero riferendolo a molti festival, eventi, rigenerazioni urbane così amate da tante amministrazioni pubbliche di questi tempi. Purtroppo le derive di queste pratiche sono ora davanti ai nostri occhi, ma non perché l’arte urbana non sia ancora oggi gravida di intenti e attitudini sperimentali ma perché l’opportunismo culturale e politico l’ha resa a volte il fantasma di sé stessa. Ciò che certamente non voleva Alinovi quando spesso ripeteva che la cosa che le piaceva di più era che i graffiti un giorno ci fossero e il giorno dopo non più, rimarcandone quindi il carattere effimero, estemporaneo e niente affatto sistematico.[xxii]

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Fabiola Naldi