L’idealismo infranto di Jacob Wren di

di 3 Aprile 2024

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Cinico, testardo, autoriflessivo sino allo spasmo, prolifico e polifonico, immaginifico eppure terribilmente lucido. Questo è, per me, Jacob Wren.
“Scrivendo cerco di sorprendermi costantemente, di tenermi all’erta, con l’idea che se io sono coinvolto e sorpreso lo sarà anche il lettore”1. Una citazione che è elemento cardine non solo per la scrittura di Wren ma per l’intera rubrica di cui questo testo costituisce l’ultimo tassello. Cercherò di procedere come lui, scrivendo e performando questo momento come “un’improvvisazione strutturata”2. Se, infatti, in Wren l’inizio di un progetto deriva sempre da un’idea di ciò che accadrà, durante il processo si lascia andare verso lo stupore, verso l’emotività di essere il più possibile autentico, perché l’autenticità è un sentimento.

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Jacob Wren realizza opere letterarie, performance collaborative e mostre. I suoi libri includono Polyamorous Love Song, Rich and Poor e Authenticity is a Feeling. Come co-direttore artistico del gruppo interdisciplinare PME-ART ha co-creato performance come: En français comme en anglais, it’s easy to criticize, Individualism Was A Mistake, The DJ Who Gave Too Much Information, Every Song I’ve Ever Written e Adventures can be found anywhere, même dans la répétition. PME-ART ha anche presentato la conferenza online Vulnerable Paradoxes e la relativa pubblicazione gratuita in PDF In response to Vulnerable Paradoxes. È co-fondatore dell’orchestra The Air Contains Honey, che attualmente sta lavorando al primo album. La sua presenza su Internet è spesso definita da una predilezione per le citazioni.

Questa è la biografia breve in ABOUT ME sul blog di Wren dal titolo A Radical Cut in the Texture of Reality3, attivo dal 2005. Confermo pienamente la sua predilezione verso le citazioni. Seguirlo su IG è puro piacere e risorsa. La sua presenza online è travolgente ed è, infatti, dove mi sono perduta più volte alla ricerca di una qualche sistematizzazione. Esiste addirittura una pagina Tumblr (a dire il vero non molto aggiornata) intitolata Dear Jacob Wren4. Lui stesso ammette: “La dipendenza dai social media stava diventando un problema reale. (…) Rimango ipnotizzato dallo schermo così intensamente che non riesco nemmeno ad alzarmi per andare in bagno (al momento sto scrivendo su un taccuino in un caffè per essere il più lontano possibile dal mio computer)”5.

Il 22 dicembre 2022 scrive sul blog che la sua biografia un tempo conteneva anche: “Viaggia a livello internazionale con una frequenza allarmante”. Ma non è più così. Come confermato in una e-mail, non viaggia dal febbraio del 2020 e, da quando le maglie della pandemia si sono allentate, riflette molto sul come riprendere e come farlo in maniera più sostenibile (non credo sia un pensiero che in molti abbiano preso sul serio, purtroppo, nonostante le evidenze schiaccianti del modo assolutamente compulsivo, malato, anti-ecologico e anti-umano di cui il nostro modo di muoverci è caratterizzato) e mi ha anticipato che con il collettivo PME-ART stanno ragionando (come molte altre compagnie) a far realizzare i loro spettacoli a performer locali, evitando lunghi viaggi intercontinentali6.

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Prima di addentrarmi su Wren scrittore è bene soffermarsi su Wren co-direttore di PME-ART a cui è dedicato l’ultimo libro sia in ordine cronologico di pubblicazione sia nella mia pianificazione di studio (che, ovviamente, segue l’ordine temporale delle cose e mai riesce a crearne un altro). (AH, Nota Bene lettore – e probabilmente lo hai già fatto – l’uso delle parentesi tonde in questo testo è una diretta emulazione di Wren, come lo è la divisione dei paragrafi attraverso quattro adorabili crocette, e come, ancora, l’uso massiccio di citazioni; scusate l’inciso disturbante subito dopo un altro inciso ma era necessario e no, non mi andava di metterlo in nota, che poi non è detto che andiate a leggerla e, comunque, le note sono tediose anche per chi le fa).

Innanzitutto, questi due mondi – la scrittura e la performance – se inizialmente erano separati e lo scrivere “romanzi” rappresentò per Wren una forma di fuga dalla sua vita da performer, nel tempo si è reso conto che in entrambe le pratiche il suo modo di procedere è divenuto simile.
 La scrittura di Authenticy Is a Feeling avviene lungo il corso di quattro anni e l’occasione è il ventesimo anniversario del collettivo PME-ART (1998–2018), infatti il sottotitolo è My Life in PME-ART. Se, quindi, in apparenza questo libro potrebbe ritenersi un resoconto storico dei venti anni di attività del collettivo e un saggio di teoria su teatro e performance, nel corso della lettura diviene lampante come questa pubblicazione sia qualcosa di molto diverso. L’idea iniziale deriva da questa riflessione: “All’inizio devo aver pensato a come si scrive di solito di performance; spesso in modo arido, accademico o teorico, e mi sono chiesto come poter scrivere un tipo di teoria della performance che potesse anche essere influenzato dalla tradizione dell’auto-fiction; una teoria della performance che fosse quindi anche dolorosamente personale, conflittuale e immediata”7. Grazie a questo intento iniziale, è un libro intenso, pieno di digressioni personali, di storia del teatro, di riflessioni su teatro e arte, di critica e autocritica sul suo ruolo all’interno del collettivo essendo lui il co-direttore (come è lui a scriverne il libro che ne ripercorre la storia), e in cui, appunto, “le due parti separate della mia ‘doppia vita’ si uniscono (…) come in una sorta di incidente d’auto”8.

PME è un acronimo di nulla e di tutto. Ne parla, finalmente, solo alla fine del libro. PME ha una sua preistoria, prima che lui ne facesse parte, quando c’erano solo Sylvie Lachance e Richard Ducharme, oggi, rispettivamente, co-direttrice e direttore amministrativo.
Possiamo, comunque, tranquillamente prendere per buona la versione sul sito: “PME-ART — which refers, among other things, to Pretty Much Everything9. Per molti anni è stato solamente PME e, a un certo punto, si è aggiunto “–ART”. Questa addizione avviene quando il collettivo diviene interdisciplinare e pian piano, dal mondo unicamente teatrale si avvicina a quello delle arti visive dove trova molta più libertà di azione e comprensione anche se le continue problematiche avute in tanti anni nel teatro ora si trasformano in diverse e nuove dinamiche tipiche di quello dell’arte.

Il libro stesso, infatti, è: “un viaggio che parte dal tentativo di creare un nuovo tipo di teatro contemporaneo (diverso da tutti quelli che avevo visto prima) per arrivare, vent’anni dopo, a sedersi intorno a un tavolo in una galleria d’arte, incarnando un tipo di teatro così lontano dal teatro che spesso sospetto non sia più riconoscibile come tale”.
Oppure: 
“In un certo senso questo libro è iniziato con la mia disillusione (o pre-disillusione) nei confronti del teatro e sta finendo con la mia disillusione nei confronti dell’arte visiva”
10.

Wren incontra Sylvie Lachance a venticinque anni, a Montréal, in Québec. Lavorava nel mondo della performance già da sette anni (sì, ha iniziato a diciassette anni) ma nella scena di Toronto, dove è nato e cresciuto. Questo incontro segna non solo l’inizio della collaborazione ma anche il suo trasferimento nel Canada francofono, a Montréal appunto.
 Questo dettaglio è molto importante. Wren non sa il francese (ancora oggi) e, come da sua stessa ammissione, ha una mente monolinguista e ha sempre letto prevalentemente libri tradotti in inglese, quindi non nella loro lingua originale e, sin dagli inizi di PME, ha avuto a che fare con performer e testi francesi. Poiché quasi tutte le performance di PME si fondano su un alto contenuto di improvvisazione e sul concetto di essere se stessi durante una performance in cui performare diviene trasformare il personaggio in se stessi (praticamente il contrario di quello che si insegna nelle accademie di recitazione) questo capire parzialmente o per nulla il francese è un dichiarato, continuo e autoinflitto stato di disagio che crea, come tutti gli stati fuori dalla zona di comfort, un diverso tipo di sguardo sulle cose.

Non a caso la performance En francais comme en anglais, it’s easy to criticize (1998–2002) ruota attorno alle attività della critica e della traduzione. 
In PME-ART si sono succeduti diversi performer lungo il corso degli anni e hanno preso parte in moltissimi festival, prevalentemente europei. 
A parte in un primissimo e quasi unico caso in cui un testo a lui commissionato per una pièce teatrale in Norvegia, è poi divenuto un libro (Unrehearsed Beauty, 1998) e Families Are Formed Through Copulation (2005–2006) costituisce la prima parte del libro omonimo pubblicato nel 2007 (“People, stop having children. / And I want to be perfectly clear on this next point: the problem is not the children. The problem is adults”)11, tutte le altre performance sono caratterizzate da tematiche chiave che sono dal gruppo analizzate e discusse e sulle quali il loro essere prevalentemente in disaccordo costituisce la spina dorsale della performance. Anche all’interno di un registro più o meno deciso a priori l’improvvisazione sul palco, assieme al tema dell’ospitalità e apertura verso il pubblico al fine di sorprendersi e sorprendere, è il cuore del collettivo.

Tra le performance più affini alle mie corde (e che mi rammarico di non aver visto) ci sono The DJ Who Gave Too Much Information (HOSPITALITY 5) (2011–), Every Song I’ve Ever Written (2012–) e Adventures can be found anywhere, même dans la mélancolie (2014–).

Si potrebbe semplicemente dire che in The DJ Who Gave Too Much Information, Jacob Wren, Caroline Dubois e Claudia Fancello raccontano storie e fanno ascoltare la loro collezione di vinili. Non è così semplice. I tre si alternano al giradischi, espongono la copertina del disco scelto e raccontano una storia (che può essere sull’album o sul suo autore come sui ricordi che quel brano suscita o altro ancora); durante il racconto di uno dei tre performer gli altri due si attivano a creare connessioni con quella storia, ossia provano a trovare un filo. L’ascolto del disco non è mai completo, creando nel pubblico una frustrazione continua e una voglia impellente di ascoltare altre storie e brani. Come sappiamo poi le storie si evolvono, cambiano anche solo nella loro inserzione in una sequenza diversa (“stories want to be shared and in the process distorted and transformed”)12. Di questa performance c’è anche la versione Bring Your Own Record/Listening Party in cui è il pubblico a prendere la guida.

Every Song I’ve Ever Written (2012–), invece, è l’unica in cui Wren è totalmente protagonista. Come dice espressamente il titolo si tratta di tutte le canzoni scritte da Wren in un periodo della sua vita in cui voleva fare il cantautore (il suo rapporto con la musica è molto forte, i suoi gusti simili ai miei, le sue riflessioni e i suoi consigli di ascolto sparsi come polvere di stelle in tutti i suoi libri). Si tratta di ben cinquantotto canzoni scritte tra i quattordici e i ventinove anni. 
Il lavoro si declina in quattro modi differenti: un sito dove si possono ascoltare e scaricare le canzoni ma anche caricare una propria cover version del brano scelto; una performance da solista in cui Wren suona tutte le canzoni in ordine cronologico (dura circa cinque ore); una serata Karaoke dove potete ben immaginare cosa accade (soprattutto perché nessuno conosce quelle canzoni); una Band Night in cui cinque band locali (la performance è andata in tour internazionalmente) eseguono ciascuna una canzone e, alla fine del concerto, Wren le intervista.

Infine, Adventures can be found anywhere, même dans la mélancolie (2014–). Una performance eseguita sino a ora solamente in gallerie d’arte e il cui tema è la riscrittura. 
Nel 2014 il gruppo ha riscritto Book of Disquiet di Fernando Pessoa mentre nel 2022 Reborn: Journals & Notebooks 1947-1963 di Susan Sontag. In entrambi i casi, lungo il periodo di apertura della mostra, PME-ART in una stanza riscriveva le pagine del libro, ciascun membro la sua. A fine scrittura l’autore della nuova pagina la poneva sopra un leggio inquadrato dall’alto, di modo tale che il testo venisse proiettato mentre veniva letto ad alta voce. Poi prendeva la pagina sotto la propria, lasciata precedentemente da un suo collega, e la riponeva su una mensola che pian piano si colorava delle pagine riscritte. Al finissage della mostra hanno creato il Monster Book, ossia spillato ogni pagina “nuova” a quelle del libro originale – dopo averla riletta ad alta voce.

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The Monster Book.
Penso che più o meno sarebbe per me la giusta definizione del primo libro che ho letto di Jacob Wren, Polyamorous Love Song (2014) e che ho riletto da poco una seconda volta, tanto per fare chiarezza. 
Niente, nessuna chiarezza.

Dunque, sin qui ho citato tre libri di Wren: Unrehearsed Beauty (1998), Families Are Formed Through Copulation (2007) e Authenticity Is a Feeling. My Life in PME-ART (2018). 
Ad eccezione di If our wealth is criminal then let’s play with the criminal joy of pirates, (2015), raccolta di due racconti e un saggio realizzata in occasione di un evento per scrittori indie canadesi13, rimangono tre romanzi. 
La bizzarria è che di questi tre l’unico che non riporta esplicitamente in copertina la specifica “a novel by Jacob Wren” è quello, invece, che può essere ascritto più propriamente al genere. Rich and Poor (2016) è infatti probabilmente l’unico libro con uno svolgimento lineare, con soli due personaggi ben delineati (seppure sprovvisti di nomi), con un titolo volutamente semplice e che rispecchia il contenuto, e con un crescendo finale che porta a divorarlo talmente la voglia di sapere come va a finire sale progressivamente. Decisamente vi consiglio di leggerlo.

C’è poi Revenge Fantasies of the Politically Dispossessed (2010), con in copertina un’opera di goldiechiari. Questo libro, seppur, in effetti, un romanzo, con tanto di personaggi e temi centrali, un suo chiaro inizio e un assai aperto ma non ottimistico epilogo, introduce temi e tecniche chiave che poi esplodono in Polyamorous. C’è una triade, anzi una coppia molto innamorata, troppo. C’è un terzo incomodo (Wren stesso?) ma c’è soprattutto una comunità che si riunisce regolarmente per discutere di politica, per capire non tanto come cambiare attraverso l’azione ma come analizzare e sviscerare tutti insieme sino all’osso diversi temi (non vi ricorda, appunto, il metodo performativo sopra descritto?) e, soprattutto, la debolezza della Sinistra. I vari personaggi, inizialmente ben definiti, a un certo punto si confondono. Molte sono le riflessioni (e i consigli) sull’arte e la politica. L’amore idilliaco e passionale, insieme al terzo incomodo, tornano alla fine, in cui l’autore si rivolge al lettore, in un tentativo tardivo di perdono.

Ecco che la triade diviene poli. Le teorie sull’arte e la politica divengono estreme. La realtà si confonde con il sogno, il quale a sua volta si vivifica di un’immaginazione talmente fervida da volermi far comprare un biglietto per Montréal e avere una lunghissima chiacchierata con Wren su come sia stato umanamente anche solo concepibile come idea un libro del genere. Mi è davvero impossibile tracciare un resoconto. Posso solo improvvisare per flash mnemonici e onirici (questo libro stimola l’attività onirica, ne sono certa) e cercare di capire con voi, ma tenetemi per mano, per favore. 
Prima di tutto, un titolo così accattivante: Polyamorous Love Song. L’idea, come Wren dice nel libro e in diverse interviste, parte dal concetto che tutte le canzoni d’amore sono di base monogame. Si struggono per una persona. Ma se fossero, invece, poliamorose? Come caratterizzerebbero la nostra crescita sociale e comportamentale? Questa riflessione si abbina a un’altra che Wren fa non ricordo più dove ma sostanzialmente di come, ad esempio, un film, la memoria del film va a soprapporsi se non a sostituirsi a quella reale (come non pensare al The Third Memory di Pierre Huyghe del 1999).

Il cinema e il film sono molto presenti in questo libro. Un personaggio chiave è Filmmaker A. Nel 2002 viene invitata al New York Film Festival, la stessa edizione alla quale Abbas Kiarostami non poté prendere parte perché gli fu negato di entrare negli Stati Uniti. Questo evento la sconvolge e si ritrova a vagare per le strade della città ragionando su come poter realizzare film più veri e riflettendo su Close-Up (1990) di Kiarostami. Ha un’idea che diviene esplosiva e la rende famosa, creando seguaci in tutto il mondo: non si girano più i film; si fa in modo che la propria stessa vita diventi una sceneggiatura e, semplicemente, si agisce, riprendendo la vita ma senza il filtro della telecamera. Ad estrema applicazione del mentore Filmmaker A c’è un gruppo, The Centre for Productive Compromise, che di base usa il sesso libero come sceneggiatura. Per evitare estreme scene di gelosia si sono inventati una droga, insieme a quella che ha il potere di far ricordare i numeri di telefono ma, come effetto collaterale, anche quello delle persone con le quali si sta avendo un rapporto sessuale. C’è anche il Mascot Front, un gruppo di attivisti politici estremi che indossano pelose maschere da mascotte e c’è un artista visivo che un giorno le vede dalla sua finestra correre, armate, inseguite da uomini in divisa: prima un orso, poi un coniglio, poi un cono gelato, una tartaruga e un canguro. Durante questa visione surreale un colpo di pistola lo ferisce per sbaglio. Da quel momento diventa un’ossessione e ovviamente vuole farci un’opera d’arte ma finisce rapito dalle mascotte e da queste legato a un termosifone in una loro sede. Poi c’è l’amico dell’artista, l’artista vero, con molto potenziale che se ne esce con frasi illuminanti tipo: “Tu, i tuoi amici, l’intera cultura mondiale degli artisti e dei bohémien, è come se aveste una strana sorta di malattia. Tutto ciò che volete è che la gente vi guardi, che guardi ciò che fate e pensi che siete speciali e talentuosi. Lo desiderate così tanto da pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in quelli di noi che non lo fanno (…) Credimi, non ho bisogno di lettere di ammiratori che mi dicano che i miei pensieri hanno valore. Sono sicuro di me… La mia vita ha il suo percorso… I miei pensieri sono la giusta e unica ricompensa” 14. Ma poi si e ci tradisce: diventa scrittore. E la sua compagna anche è scrittrice e sta scrivendo A Dream for the Future and a Dream for Now, titolo che si scopre poi essere lo stesso di altri libri scritti da diversi autori. Ma mentre quest’ultimi sembrano avere a che fare con un nuovo tipo di religione politica, il principale riguarda una società segreta scomparsa subito dopo la Grande Guerra e riapparsa nei tardi anni Quaranta a New York (ho un flash con Che la festa cominci di Gabriele Ammaniti del 2009). Lo scopo è di organizzare orge a larga scala per assassinare imprenditori e politici di Destra attraverso un’infezione virale a trasmissione sessuale che non infetta, invece, tutti gli altri. Nel capitolo apparentemente meno confuso di tutto il libro, Wren nei panni di Wren si sta facendo tagliare i capelli da un barbiere a Berlino e si immagina un altro barbiere, emigrato a causa delle leggi razziali dalla Germania a New York… Beh, è lui l’inventore del virus, come credo l’inventore della nuova religione politica. STOP. Lo so, è tanto. Ma aggiungo che tutto quello che ho scritto non è affatto in una sequenza che rispetta quella del testo di Wren nel quale, poi, ci sono talmente tanti io narranti da far venire il mal di testa.

Ma è onestamente un capolavoro e la cosa incredibile è che nasce dalla mente e dalle mani di un autore che si autodefinisce cinico ma, in fondo, non è il cinismo “sempre e solo una sorta di idealismo infranto?”15. 
 Appunto, Wren. Non bisogna combattere contro i mulini a vento ma semplicemente, quotidianamente, desiderare qualcosa di diverso. Il desiderio. “Ma non il desiderio che è solo l’altra faccia dell’insicurezza: il desiderio come disperazione. Un vero desiderio, il desiderio di vivere e di essere vivi, di trovare un valore o un significato o una convinzione che possa riempire in modo convincente e dare un senso al nostro breve tempo su questo pianeta dimenticato da Dio”16.

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