“Di giorno uccelli fantastici volavano nella foresta pietrificata e coccodrilli tempestati di gioielli scintillavano come salamandre araldiche” – J.G. Ballard, Foresta di cristallo.
L’asfalto ballardiano ha una corsia autostradale che sconfina repentinamente in periferie metropolitane (Milano), in quartieri della provincia italiana (Faenza), formulando una nuova jungla zoomorfa, un bestiario di refusi urbani innestati in una non possibile, ma probabile paleontologia animale. Lo scarto è incarnato in un sound che, come nella Los Angeles degli Anni Novanta, dove il rap e la rivolta sociale, descritta da Brian Cross, si irradia nell’ Hip Hop della “Citta di quarzo” di Mike Davis, e nella stessa Foresta di Cristallo, di James Graham Ballard. Questo asfalto si interrompe nei cieli cupi, dove si stracciano tramonti infuocati che sono i forni fittili e le incandescenze pervasive nei crogiuoli delle fonderie, ed è proprio in queste aeree che si forgiano le opere di Marco Ceroni. Un condensato di una fanta e futuribile visionarietà, una zona dove le alterazioni, le aberrazioni, i frammenti distopici sono gli spazi per la creazione di GMG, il brand dei gioielli bronzei, patinati con lucide e opache dorature, immaginati per giganteschi mostri che, metodicamente si ribellano al sistema, e rappano in rave fra le gang della strada, come una storia cyberpunk.
La strada è stata la crescita e l’adolescenza di Marco Ceroni ed è la cifra che ritroviamo in ogni sua opera. Un’opera che conosce perfettamente la morfologia dei materiali, la loro alchimia ed è destinata a stabilire il forte legame che unisce vita e estetica. GMC è un brand che non esiste, ma che è stato ideato da Marco Ceroni per rappresentare questa necessaria parure formata da un anello (con le cubiche iniziali GMG: Gioielli Mostri Giganti), una collana con morbida catena e un decorato Grillz ad alveare, dove “violenza e preziosità” sono una dichiarata scelta. Gioielli che si fanno scultura e monumentalizzano e idealizzano, nel loro formato XXL, una contro cultura musicale e sociale. Da Via Privata Oslavia, sede della Fonderia Battaglia a Milano, per ogni altra via periferica percorribile fra realtà e sogno. Lacoste, è proprio ciò che il vissuto asfalto ha restituito alla visionarietà dell’artista, ed è la porzione monca di un rettile, la coda del coccodrillo reso naturalmente camouflage, dove ogni squama di ceramica ha conosciuto la singola modellazione. Una condizione nata in un viaggio, dove lungo la carreggiata, un abbandonato copertone esploso ha fatto incontrare nell’immaginario dell’artista, il movimento bloccato e sinuoso del coccodrillo.
Una non rigenerabile coda, è una scultura fra la palude e la jungla d’asfalto come se, letterariamente la parnasiana Shibuja descritta da William Gibson, avesse protetto e ora restituito questo reperto, per la sua capacià di essere ancora un luogo futurista. La residenza nel Museo Carlo Zauli, ha contribuito a realizzare queste opere che confermano l’effetto featuring, dove il senso partecipativo, installa quella crew di specializzazione e di unita collaborazione fra apprendimento e compiute realizzazioni. Infatti anche SLAG ha conosciuto la residenza al MCZ, e l’industriale carena modificata del Booster (MBK), ha una carica di mancata classificazione, nonostante la dentata immagine che ammicca turbolenza per uno evidente zoomorfismo. SLAG si forma per quella peculiare riattivazione che Marco Ceroni attua nella sua pratica, evidenziando quel senso dell’ibrido, un cilck che è proprio il cortocircuito voluto. Gli scooter appartengono all’idea di adolescenza, di esperienza, di tribù, e di libertà mai evasa, e SLAG rappresenta proprio nella sua modificazione, il magnifico trofeo di quella stagione.
VROOM VROOM, nell’onomatopeico titolo di questa mostra c’è la volontà di avere la matrice marinettiana, per restituire l’accelerazione sonora di questo frenetico intonarumori metropolitano, che ci porta direttamente nel prediletto asfalto ballardiano, senza indugi, senza soste e fino all’ultimo respiro.