“M’interessa riscontrare fino a che punto è possibile ricordare ciò che si è visto attraverso il tatto. Io penso di poter ricordare più attraverso la mano che attraverso l’occhio”. Sono queste le parole con cui Hidetoshi Nagasawa spiega la sua opera Toccata (1972), videotape prodotto da Luciano Giaccari, in cui tocca lentamente il corpo di una donna nuda; quando a un certo punto la donna scompare, il ricordo di quel corpo è rivissuto toccando con la mano sporca di carbone una stoffa negli stessi punti in cui era stato accarezzato il corpo.
La dichiarazione di Nagasawa sintetizza efficacemente l’importanza che l’artista assegna alla dimensione sensibile e alla capacità di lettura tattile, considerandole più precise della percezione visiva. Tutta la sua opera è permeata da questo rapporto inscindibile tra fisicità e materia, dove il gesto si trasforma in una forma di memoria sui materiali. È un dualismo che torna in varie declinazioni come rapporto tra una sfera visibile e invisibile, tra pieno e vuoto, tra cultura occidentale e cultura orientale.
La mostra “Hidetoshi Nagasawa: 1969 – 2018”, curata da Giorgio Verzotti e presentata dalla galleria Building, offre una selezione accurata di circa 40 opere che permettono di ripercorrere l’attività dell’artista spaziando dagli anni Settanta fino al 2018, anno della sua scomparsa.
Una delle più belle opere esposte Oro di Ofir (1971) è una forma primaria di scultura, esito di un atto minimo ed essenziale: prendere in mano l’oro, esercitare su di esso una pressione, lasciare solidificare l’immagine prodotta dai punti di contatto tra materia e mano. L’impronta diventa così la matrice dell’opera. È l’emblema di un processo artistico che richiede sempre una presenza fisica per riflettere sull’assenza. Il risultato sono opere sospese nel tempo, che si presentano come il ricordo di un rapporto, prima di tutto con i materiali, ma anche con la storia e le proprie origini
In Colonna (1972) Nagasawa ripensa all’elemento architettonico verticale portante, ne sovverte la funzione e l’immagine: undici blocchi di marmo con diverse sfumature e colorazioni si snodano sul pavimento suggerendo un possibile movimento. Sono frammenti provenienti da luoghi e funzioni differenti, ma si combinano perfettamente tra loro creando l’illusione di essere stati originariamente un unico blocco di marmo.
La Barca (1980-81), realizzata in marmo e riempita di terra con un albero al suo interno, è un chiaro rimando al viaggio, tema particolarmente ricorrente nelle opere di Nagasawa. L’artista, infatti, giunse in Italia dal Giappone in un memorabile viaggio in bicicletta, attraversando diverse nazioni, prima di stabilirsi a Milano nel 1967, dove sviluppò affinità e sincere amicizie con artisti quali Luciano Fabro, Mario Nigro e Antonio Trotta. Ma Barca è un’opera che parla anche di ricerca e scoperta: se la presenza del marmo suggerisce una possibile stabilità delle radici e dei legami con le origini, l’elemento della terra richiama un rapporto con la natura e il ciclo della vita, offrendo una possibilità di rigenerazione – ribadita dall’albero – che si manifesta nei momenti di transizione e nell’incontro con culture altre.
La mostra include anche numerosi lavori su carta, supporto con cui l’artista si misura, ancora, con un fare squisitamente scultoreo. Insieme al gusto per i materiali, emerge una componente progettuale forte: matita e china su carta interagiscono con frammenti di rame e con il loro inevitabile processo di invecchiamento, creando opere in cui le variazioni intrinseche del materiale conferiscono un carattere sempre mutevole.
Lontano dal rigore e dalla severità dell’arte concettuale che caratterizza gran parte della ricerca artistica degli anni Settanta, il lavoro di Nagasawa riporta l’attenzione sulla preziosità dei materiali, sulle loro trasformazioni e sul piacere della lavorazione, oltre che su una ritrovata eleganza delle forme. Sembra rivendicare la tradizione del linguaggio scultoreo, trovando in quegli anni una comunanza di intenti e di pensiero in una figura a lui molto vicina, come Luciano Fabro. Osservando le opere si nota il possibile debito che le generazioni successive di artisti hanno avuto nei confronti di questa produzione. Se è vero che Fabro è stato un punto di riferimento fondamentale per molti giovani formatisi a partire dagli anni Ottanta – basti pensare alla sua classe a Brera e al suo ruolo alla Casa degli Artisti, fondata insieme allo stesso Nagasawa e alla storica dell’arte Jole De Sanna – non si deve dimenticare la costante presenza di Nagasawa, il cui lavoro è stato presumibilmente altrettanto influente e pervasivo.
La mostra presentata da Building ha dunque il merito di riscoprire (finalmente!) il lavoro di estrema qualità di un artista fino ad oggi troppo poco considerato e non sufficientemente rappresentato nei vari spazi istituzionali e gallerie. Dobbiamo tutti sperare che sia l’inizio di una ritrovata attenzione.