In occasione della XIX edizione del festival di Fotografia Europea, incentrata sul concept La natura ama nascondersi, Collezione Maramotti presenta la prima mostra personale istituzionale italiana di Silvia Rosi, dal titolo Disintegrata.
Specificamente concepita per la Collezione, l’esposizione include venti nuove opere fotografiche, alcune immagini in movimento e un nucleo di fotografie d’archivio raccolte dall’artista in Italia – e principalmente in Emilia-Romagna – tra il 2023 e il 2024. Coadiuvata dal lavoro di Mistura Allison, Theophilus Imani e Ifeoma Nneka Emelurumonye, Rosi ha percorso il territorio per raccogliere centinaia di fotografie ordinarie, scatti di album di famiglia che raccontano la quotidianità di chi, giunto dall’Africa prima del Duemila, ritraeva sé e la propria vita in contesti diversi. La mostra rappresenta il punto di partenza di un più ampio progetto di Rosi: l’attivazione di una rete italiana di cittadini afrodiscendenti – una prolifica operazione di community building– e la formazione di un archivio familiare delle diaspore afrodiscendenti in Italia, con la volontà di approfondire nuove possibilità di trasmissione della conoscenza visiva attraverso immagini vernacolari.
Queste fotografie svolgono complesse funzioni sociali, diventando strumenti, per i soggetti e gli osservatori, per affermare o indagare questioni di identità personale, appartenenza familiare, identificazione di genere, status di classe, affinità nazionale o appartenenza a comunità, a volte in conformità con le norme sociali, a volte in contrasto con esse. Le immagini vernacolari giocano un ruolo significativo nella creazione della rappresentazione di noi stessi e di come vorremmo essere visti; forniscono un mezzo per confrontarsi con, o per sfidare, gli stereotipi sulle persone afrodiscendenti, offrendo un ritratto alternativo sull’identità degli individui, così come di ciò che potrebbero diventare.
La produzione di immagini da parte della diaspora africana in Italia è ed è stata costante, ma in qualche modo risulta difficile da rintracciare: l’archivio iconografico collettivo che unisce queste comunità esiste in potenza, ma appare ancora instabile, disseminato, dis-integrato. È solo uscendo dalla cerchia familiare in cui ha avuto origine, attraverso un riconoscimento esterno, che un’immagine può essere ascritta al dominio del vernacolare. L’esposizione di Rosi si muove nella relazione tra dimensione privata e pubblica della fotografia, tra immagine trovata e realizzata in studio, giocando sugli slittamenti di lettura e di significato generati dai diversi contesti di fruizione. Ispirata dalla pratica di artiste come Cindy Sherman e Gillian Wearing, così come dall’esperienza fotografica in studio dell’Africa occidentale (Seydou Keïta, Malik Sidibé e soprattutto Samuel Fosso), Rosi sceglie l’autoritratto come stratagemma primario per portare alla luce i diversi aspetti che convivono in ogni individuo, trasformando storie personali in racconti collettivi.
I comodini di famiglia, un casco asciugacapelli, tessuti africani dai pattern geometrici, valigie, parrucche, gli abiti della madre sono alcuni degli accessori narranti inseriti nei set delle figure stra-ordinarie incarnate dall’artista; tanto quanto, con intenzioni differenti, le automobili anni ’70, la natura collinare, le strade della città, i piccioni e le architetture di una piazza divengono comprimari a tratti inconsapevoli dell’autorappresentazione quotidiana.
In un percorso che si snoda attraverso svariati spazi creativi, dall’album di famiglia come luogo intimo di emergenza del passato al paesaggio abitato da corpi neri, la mostra esplora, restituisce e mette in scena, con umorismo, un immaginario dell’idea di “italianità” nel nostro territorio contemporaneo.