Un vuoto nella retina compensato dal sistema oculare. Una correzione di realtà inconsapevolmente prodotta dal sistema nervoso. Come l’“unisci i puntini” dei disegni sulla settimana enigmistica, dove il vero gioco è immaginare, dall’osservazione del vuoto lasciato dalle tracce numeriche, cosa potrà mai venire fuori dallo spazio bianco su cui paiono fluttuare i segni neri. La pratica di Paul Thorel non è dissimile dallo sforzo compositivo dell’enigmista, è declinata in una forma apparentemente priva di linea e contraddistinta dall’uso di una tecnica prima che fosse elaborata.
La produzione del prolifico e delicato autore è stata contraddistinta da uno sguardo mobile e immersivo, caratterizzato dall’attrazione per l’alterazione dell’immagine attraverso la scomposizione e la rarefazione, ispirata in origine dalle interferenze accidentali che disturbavano la nitidezza dell’immagine televisiva. La percezione che prende il posto dello sguardo e lascia spazio all’apparizione – come ha affermato – diventa il suo strumento di lavoro, capace di anticipare le soluzioni affermatesi successivamente con la fotografia digitale e la post-produzione.
“Blind Spot” non è una personale di Thorel ma rientra nel programma espositivo della Fondazione omonima nata nel 2014 per archiviare la sua ampia collezione: composta da più di cento opere di artisti italiani e internazionali tra l’antico, il moderno e il contemporaneo e dalle oltre milleseicento opere a sua firma. Dopo la morte dell’artista nel 2020, l’impegno del board è quello di attivare l’eredità di Thorel nel campo dell’immagine digitale, promuovere il suo lavoro e le opere da lui scrupolosamente selezionate.
Il titolo della mostra, ospitata fino al 30 maggio negli spazi di quello che era stato lo studio di Thorel, si riferisce all’ipotesi del fisico francese Edme Mariotte circa l’esistenza di un punto cieco nell’occhio umano compensato dall’elaborazione del cervello delle informazioni provenienti dalle aree circostanti la retina per colmare percettivamente quel buco. Le opere scelte dalla collezione dalla curatrice Sara Dolfi Agostini sono associate per suggerire all’occhio di colmare ogni volta il millimetro di vuoto di senso lasciato da ciascun lavoro e mette in dialogo la serie Cairo Crowds (2011) di Thorel con Little Sambo Goes to War (2007) di Shezad Dawood; Untitled (Salto arte) (1975) di Sigmar Polke e Stranieri Ovunque (2005) di Claire Fontaine.
La compensazione del primo spazio è data dalla compenetrazione di Il Guerriero (1993) di Thorel e Little Sambo Goes to War di Dawood, due versioni dello stesso soggetto che in comune sembrano avere poco più della cromia. E invece, Thorel dissolve l’immagine del potere riecheggiando gli urli dei papi di baconiana memoria, mentre la smorfia del piccolo Sambo di Dawood riprende l’idea di un dolore interiore che trasfigura il fisico, ma si trasforma in una nuvoletta di fumo tratteggiata. Uno sbuffo umano o di fucile? Difficile intuirlo nell’oscurità del tratteggio di una figura volutamente fusa con lo sfondo, un essere nero come la notte e impegnato in chissà quale guerra di cui è all’oscuro.
Nelle sue prime opere, Thorel si avventura nelle mitologie e nei simbolismi senza tuttavia essere influenzato dai frastuoni dell’attualità e dalle propaggini della propaganda ideologica ma cede, qualche decade dopo, al fascino delle immagini di un Medio Oriente filtrato dai video amatoriali trasmessi su YouTube. La folla manifestante durante la Primavera Araba si staglia sfumata ma riconoscibile nella seria Cairo Crowds (2011) e riflette un sentimento di spaesamento che non è dato solo dal trattamento dell’immagine ma dal sentimento di essa. Una folla che suggerisce l’idea del flusso, del movimento di fluidi come delle onde elettroniche. Paesaggi formati da sabbie e nevi di corpi ormai dissolti, monchi di una struttura nell’impeto di un dinamismo desiderato.
Un dinamismo e una sovrapposizione che almeno tecnicamente ci si aspetterebbe di trovare nei lavori di Sigmar Polke, ma non in quello presente in mostra. Un lavoro meno allusivo e più documentativo, seppur sempre carico di suggestioni, che però anziché sembrare fuori da qualsiasi contesto, recupera una dimensione sociopolitica precisa. Un atto di rivolta durante l’inaugurazione della mostra “Je/Nous” presso il Musée d’Ixelles nel maggio 1975, che vede Polke ed alcuni amici uniti in una manifestazione artistica in sostegno di POUR (écrire la liberté), rivista belga di estrema sinistra temporaneamente censurata. Il lavoro si compone di sei pannelli che attraverso segni grafici, litografie, polaroid, poster e oggetti, evocano la forza del collettivo. Una narrazione per frammenti di immagini, una versione diversa di pixel e linee per comporre lo stato delle cose. Un tassello di significato che unisce la volontà di non mostrare le folle arabe di Thorel a quella di raccontare chiaramente un accadimento per Polke.
A restituire il senso di tutto il “contrasto simultaneo” presente in mostra, il doppio neon del duo composto da James Thornhill e Fulvia Carnevale, la cancelleria Claire e la Fontaine duchampiana. Stranieri Ovunque (2005) è una coppia di scritte luminose imperfette, scomposte, di dimensioni dissimili, con disordinati fili a vista e con evidenti differenze portanti. Allo stesso tempo, quella sostanza diventa celebrazione di una estraneità che fornisce una chiara chiave di lettura della necessità di riempire quei punti ciechi a seconda del modo di ciascuno di percepire l’inconsistente impressione della visione. Paul Thorel, che a fine carriera userà cromie meravigliose, è sempre stato daltonico.