Incontro Vicente Baeza (Cile, 1992) per la prima volta sul lago di Como, mentre coordino la residenza per giovani artisti CSAV – Artists’ Research Laboratory. Lui è uno dei quindici selezionati per passare un mese di inquieta, irriverente sperimentazione sotto la guida dell’artista britannica Hilary Lloyd. Tra i primi tentativi di dare un senso comune a quella convivenza fuori dal tempo, c’è la creazione di una performance costante, iterativa, che duplica all’infinito le giornate trascorse nella villa settecentesca bucolicamente affacciata sul lago. All’interno di questa messa in scena che scardina l’andamento delle giornate lavorative, Vicente sceglie di interpretare non sé stesso, ma una delle opere di Jimmie Durham al tempo esposte nel parco della Fondazione: un’ Apecar azzurra schiacciata dal peso di un enorme masso. È una scelta spiazzante, che l’artista persegue con una dedizione esilarante e insondabile, seconda forse solo al momento in cui – durante una festa – troppo tardi ci rendiamo conto che sta coprendo di dentifricio gli occhi di tutte le statue sparse nel parco (sarà impossibile poi ripulire un materiale così antico e così poroso). Per quanto lui stesso abbia definito queste azioni “una serie di pietre lanciate in ogni direzione”, la percezione esterna era che ci fosse una straordinaria coerenza nella decostruzione urbanistica attuata da queste operazioni. Era come se i confini sociali, architettonici, perfino personali dello spazio che avevo imparato a conoscere nei precedenti quattro anni si piegassero sotto la spinta canzonatoria di quelle proto-performance: una forma di vita sicuramente comunitaria, sicuramente civilizzata, eppure in qualche modo ignota. La conversazione che segue è il tentativo di ricostruire i confini di questa forma, la sua intenzione, il suo tentativo mai pacificato di ricondurre un corpo a un territorio, e viceversa.
Valentina Avanzini: Nel tuo lavoro, i corpi di città sembrano trasformarsi in corpi di persona, mentre il corpo umano diventa un’architettura. Se la scelta dei materiali cade spesso su membrane che segnano il passaggio tra spazio intimo e spazio pubblico (tapparelle, materassi e cartoni come quelli che si vedono a volte per strada), gli interventi meccanici a cui li sottoponi li trasformano in automi capaci di comporsi da soli. Si delinea così l’utopia di una città depersonalizzata, completamente automatizzata e, allo stesso tempo, il bisogno carnale di una riconnessione con il vivente: qual è tra questi estremi la tua esperienza e il tuo lavoro nelle città che abiti?
Vicente Baeza: Vorrei parlarti di un esercizio che ho fatto quando ero ancora uno studente all’Accademia di Arte, in Cile. Ai tempi – era la fine del mio percorso di studi – mi sentivo perso, non riuscivo più a riconoscermi nel mio lavoro. Quando avevo ormai perso ogni speranza, durante l’ultimo semestre, ho cambiato insegnante. Alicia (la nuova professoressa), a seguito di una conversazione che avevamo iniziato, mi chiese di fare, per il giorno successivo, un “esercizio di territorio”. Qualsiasi cosa significasse per me. Quello che mi ritrovai a fare, in modo spontaneo, senza pensarci troppo, fu di dormire davanti alla porta della casa dove vivevo ai tempi con i miei genitori. In pratica, esattamente sul limitare in cui terminava la casa dei miei genitori e iniziava lo spazio pubblico. Fu un momento fondamentale per la mia pratica artistica, me ne sono reso conto abbastanza in fretta: era un’azione generata dal disperato bisogno di appartenere, di amare e di essere felice. Fare arte, per me, doveva iniziare da lì: una specie di membrana tra il dentro e il fuori, aderente alla vita.
VA: Vorrei insistere sull’idea di intimità in relazione a un concetto politico come quello di città. Tra le immagini che meglio descrivono questo passaggio tra soglie, penso ci sia quella degli strati di manifesti strappati e annunci funerari che si scorgono ogni tanto sui muri di certe città del sud Italia. Ma anche la scelta di utilizzare materiali immediatamente associati ai complessi rifugi dei senzatetto: tra i più liberi e più fragili abitanti delle metropoli contemporanee. E, infine, la prima immagine che ho di te: tu che ricopri di dentifricio le statue antiche disseminate nel parco della Fondazione Antonio Ratti. Di nuovo, un’ironica sfida ai confini dell’architettura data. Mi fa pensare al tuo lavoro come a una pelle: che cosa ne pensi?
VB: Il mio lavoro come una pelle. Credo di poter condividere con te quest’idea. Penso in particolare a due proprietà fisiche che la pelle condivide con i materiali e le superfici che uso nella creazione dei miei dipinti. La porosità e la flessibilità. La porosità ci serve per assorbire e integrare il mondo, per lasciarci contaminare ed esserne, a nostra volta, contaminati. La flessibilità, invece, suggerisce movimento: espansione e contrazione. Più o meno consciamente, lavoro con queste proprietà espressive dei materiali, che a loro volta diventano una metafora della possibilità di lasciarmi contaminare, essere flessibile, espandermi e contrarmi. Forse arriverei a dire che penso al lavoro non tanto come a una pelle, ma come alla mia pelle, o perlomeno a una sua estensione. Tornando per un momento all’esercizio di territorio di cui parlavo prima: dopo aver realizzato quell’azione, ho utilizzato i vestiti che avevo addosso come materiale per molte altre opere, perché sentivo che fosse l’unica cosa che mi apparteneva davvero – avevano le mie misure, avevano il mio odore. A tutti gli effetti, anche loro una seconda pelle, il confine non neutrale tra interno ed esterno. Utilizzare i propri vestiti, quelli che poi si indossano nella quotidianità, rende di fatto impossibile essere osservatori esterni, non coinvolti, non contaminati dal mondo in cui si agisce.
VA: La tua recente mostra a SpazioA, a Pistoia, porta il nome del materiale prodotto dagli occhi durante il sonno, le cispe o sabbia che si trovano sulle ciglia al risveglio. La dimensione simbolica del sogno – una dimensione universalmente condivisa pur essendo visceralmente privata – ha qualcosa in comune con l’idea di esplorare una città senza una meta precisa, come una specie di flaneur onirico. Pensi che abbia qualcosa a che fare con il tuo processo artistico?
VB: Mi piace pensare alla dimensione onirica come a qualcosa di condiviso, forse addirittura a uno spazio pubblico, e allo stesso qualcosa di profondamente privato e intimo. Mi riporta a una riflessione di Georges Perec sullo spazio simbolico e fisico del letto, in cui l’autore si interrogava, o meglio cercava di ricordare, in quanti letti avesse dormito nel corso della sua vita. A questo proposito, per l’opera Loops (2024), esposta proprio a SpazioA, ho letteralmente utilizzato il materasso del mio letto come strumento di lavoro. A un certo punto del processo, ho portato il dipinto fuori dal mio studio, posizionandolo come una specie di zerbino a faccia in giù sulla strada accanto al mio spazio. Sopra il dipinto ho messo il mio materasso, che lo spingeva con il suo peso contro la superficie del marciapiede. Con l’aiuto di una corda e di pezzi di legno li ho poi trascinati varie volte intorno al mio isolato, trasformando il manto stradale in una sorta di carta vetrata, che grattava la superficie pittorica. Tornando alla tua domanda, penso ci sia in effetti qualcosa in comune tra la logica del sogno e la metodologia che adopero nel mio processo creativo. Ed è la logica consequenziale che porta da una cosa a quella successiva, come una sorta di effetto domino, con un certo grado di apertura e di accettazione di quello che sta accadendo, come quando nei sogni accettiamo tutto ciò che succede, per quanto possa risultare strano o incoerente. Penso però che tutte le mie opere abbiano una sorta di obiettivo comune (per quanto io accolga tutti i percorsi che inconsapevolmente possano arrivare a portarmici): re-imparare a fare arte. E per raggiungere questo obiettivo faccio tutto ciò che posso, tutto ciò che mi viene in mente.
VA: Un supporto che si muove autonomamente nel tuo studio per essere dipinto da un pennello immobile, tu sagacemente travestito da opera di Jimmie Durham (durante la residenza CSAV – Artists’ Research Laboratory a Como), una macchina sospesa nell’aria, grandi cartoni dipinti come scenografie appese: guardando al tuo lavoro non posso fare a meno di pensare a una dimensione teatrale. O, meglio: allo smascheramento della teatralità del vivere sociale. D’altronde, non potremmo pensare alla città come a un’unica, lunga performance?
VB: L’idea della città come continua performance è affascinante. Trovo che la possibilità dell’arte di permeare la quotidianità della vita sia intrigante e, soprattutto, rinsaldi la nostra possibilità di agire. In questo senso, ricordo di aver letto un saggio di Allan Kaprow (Art Which Can’t Be Art del 1986) in cui l’artista descriveva come, per un paio di settimane, avesse prestato moltissima attenzione al modo in cui si lavava i denti. Come il suo gomito si muovesse avanti e indietro. Il leggero sanguinamento delle sue gengive. Ho trovato estremamente suggestiva la possibilità che una tale consapevolezza si insediasse in un gesto di così ordinaria, quotidiana routine e che, allo stesso tempo, vi si potesse mantenere qualcosa di viscerale, carnale, profumato. Questo approccio alla performance mi ha influenzato moltissimo, specialmente nei primi anni della mia pratica, quando per un anno circa ho utilizzato i miei vestiti come materiale per le mie opere mentre, allo stesso tempo, li utilizzavo anche per vestirmi. Ho così avuto modo di osservare come si assottigliassero i limiti tra la mia vita e la mia pratica: pensavo – e sentivo – che la mia vita altro non era che una continua e silenziosa performance di cui ero l’unico, almeno in quella dimensione, a essere consapevole. Allo stesso tempo, se penso a un’esplicita dimensione teatrale, mi viene in mente la volta in cui ho portato i miei dipinti arrotolati in bicicletta per poterci lavorare all’aperto (ad esempio immergendoli nel fiume). Per trasportarli, li ho inseriti in un lungo tubo di circa due metri che ho poi incastrato nel mio zaino da campeggio, con più di due terzi del tubo che sporgevano dallo zaino. Facendolo, ero ben consapevole di quanto risultassi ridicolo: adoravo la sensazione di portare in giro le mie opere in modo così goffo. Mi faceva sentire come una specie di Charlie Chaplin che si gode la gente che ride di lui. Quello che intendo è che, indipendentemente da quanto giocosi, performativi, e intangibili possano essere i miei processi, finiscono per convergere in dipinti “silenti”: la cristallizzazione di qualcosa di più grande. I miei dipinti non sono altro che densi conglomerati materiali che contengono queste energie, queste tracce, i resti di queste processualità, facendo in modo che le singole componenti vengano dimenticate in favore di un nuovo spazio complessivo, a sua volta capace di veicolare l’energia – la vibrazione, se vogliamo – di quelle singole parti senza che sia più possibile percepirle separatamente.
VA: Azioni come scrivere una lista di risposte alla domanda Cosa farei se fossi completamente libero di fare qualsiasi cosa? e portare a passeggio un cavolo per le strade di Amsterdam ti avvicinano alla filosofia del Situazionismo, l’accettazione festosa e pesante dell’assurdità, la creazione ironica di tattiche per sabotare la strategia del vivere urbano. Eppure, mi sembra che le tue azioni cerchino disperatamente di mettere in questione l’architettura non solo fisica ma anche umana, intima e morale di una città che tu stesso vivi come abitante straniero. In un cortocircuito globale, un ignoto artista e attivista indiano, rivendica l’assurda libertà di portare a passeggio un cavolo per le strade della travagliata regione del Kashmir, in opposizione all’altrettanto assurda architettura urbana di presidi militari e centri di tortura. Un’azione che denuncia, oltre alla volontà artistica, l’esplorazione dei confini di ciò che può essere fatto senza correre il rischio di essere arrestati. Anche se la tua performance partiva da presupposti completamente diversi, come vivi i confini tra arte e libertà?
VB: È una domanda difficile, a cui faccio fatica a rispondere in modo autentico, ma ci proverò. Per mia fortuna, non ho mai fatto esperienza diretta di cosa significhi subire una restrizione dei propri diritti e della propria libertà personale. Ho avuto la fortuna di poter accedere a una buona educazione, e di poter vivere lontano da casa per scelta e non per necessità. È vero che in due diversi momenti negli ultimi dieci anni ho compilato delle liste per rispondere alla domanda che cosa farei se potessi fare tutto?, per il puro e semplice bisogno di conoscermi meglio. In entrambi casi, le risposte sono state estremamente personali e sentimentali. Di fatto, una forma di scrittura confessionale, che mi ha permesso di dare una forma e visualizzare la mappa dei miei desideri più autentici. Da quello che mi trovo a dirti, deduco che il mio rapporto con l’idea di libertà ha una forma più vicina alla filosofia che all’attivismo. Sento che questo modo di approcciarsi alla mia nozione di libertà ha trovato modi di permeare il mio lavoro in forma non didascalica. Nel senso che non credo che il mio lavoro funga da illustrazione o rappresentazione di una risposta a questa domanda. Piuttosto, mi piace pensare che le mie processualità e le mie opere portino in sé lo stesso desiderio di appartenenza, amore e felicità che ogni risposta a questa domanda implicitamente richiede.