Presentare una mostra dedicata esclusivamente ad artiste donne comporta sempre il rischio di essere accusati di un approccio troppo semplicistico, basato solo sul genere, favorendo stereotipi su una presunta “arte femminile”. La mostra “Ambienti 1956-2010. Environments by Women Artists II” presentata al MAXXI – secondo capitolo di “Inside Other Spaces – Environments by Women Artists 1956-1976” allestita lo scorso settembre presso l’Haus der Kunst di Monaco di Baviera – è invece una sfida pienamente riuscita che supera ogni scetticismo iniziale, rappresentando un importante momento di conoscenza e studio di opere che finora non hanno avuto la giusta visibilità e rilevanza nel dibattito storico-artistico, presumibilmente proprio perché realizzate da donne.
I curatori Andrea Lissoni e Marina Pugliese, insieme al nuovo direttore Francesco Stocchi, hanno saputo selezionare e riallestire – aspetto in questo caso tutt’altro che secondario – opere di grande qualità, dimostrando l’originalità delle ricerche e il contributo delle artiste scelte oltre la mera appartenenza di genere. Gli ambienti spaziano dal 1956 al 2010, anno di completamento dell’architettura del MAXXI, una cronologia ampliata rispetto alla precedente mostra, così da avere un dialogo serrato con l’ambiente stesso del museo, progettato da Zaha Hadid, che a sua volta entra a pieno titolo a far parte dell’esposizione.
Tracciare una riscrittura della storia dell’arte del secondo Novecento da una prospettiva femminile porta però implicitamente a interrogarsi se l’arte di queste artiste presenti caratteristiche comuni o se possa essere in qualche misura diversa da quella degli uomini. La differenza risulta evidente in alcune esperienze uniche legate al genere, come nel caso di Penetracion/Expulsión (1970 – 2023) di Lea Lublin, che affronta il tema della riproduzione cercando di far rivivere al pubblico l’esperienza del grembo materno. Il pubblico entra in un tunnel trasparente che rimanda al cordone ombelicale e, attraversandolo, incontra palloncini gonfiabili colorati che rappresentano l’ovulazione. In Sip My Ocean (1996), il primo ambiente video di Pipilotti Rist, proiettato ad angolo, emergono corpi, forme e oggetti ripresi principalmente sott’acqua nel mare, che si sdoppiano e si allontanano per poi ricomporsi e scomparire nella fessura tra due muri. La scena subacquea, con immagini evocative del sesso femminile legate a un’idea di origine del mondo, allude al vitalismo della natura e del corpo. Oltre a questi richiami specifici, le altre opere affrontano temi non riconducibili esclusivamente alla sfera femminile, ma esplorano la dimensione ambientale in una ricerca sul rapporto tra interno ed esterno, integrando luce, movimento, tempo, attesa e componenti uditive: dalle opere storiche come Ambiente spaziale: ‘Utopie’ (1964), presentata alla XIII Triennale di Milano da Nanda Vigo con Lucio Fontana, spazio rilassante in cui il visitatore può sdraiarsi su un tappeto soffice e ondulato, e Vento di s.e. velocità 40 nodi (1968) di Laura Grisi, che sorprende chi entra con un getto d’aria, fino alle opere più recenti, come la monumentale Spectral Passage (1975 – 2023) di Alexandra Kasuba, che permette di attraversare una struttura che si tinge dei colori dell’arcobaleno, e If You Lived Here… (1989) di Martha Rosler, imponente work in progress documentario dedicato al tema dell’emergenza abitativa.
Il risultato è quindi una mostra che riesce a trasformare i rischi iniziali in punti di forza, un esempio virtuoso di come ripensare e ripresentare la storia dell’arte in un dibattito aperto e attento a come le questioni di genere abbiano finora influenzato le nostre modalità di conoscenza.