Quasi vent’anni fa, ricercatrici, curatrici e artiste come Isabelle Graw, Alexander Alberro, Christiane Paul, Jens Hoffmann, Renée Green e Andrea Fraser si riunivano alla tavola rotonda del Los Angeles County Museum of Art per fare il punto sull’Institutional Critique. Sviluppatasi negli anni Sessanta per mettere in discussione le contraddizioni strutturali del sistema dell’arte tramite le pratiche artistiche e di ricerca di artisti come Hans Haacke, Adrian Piper, Martha Rosler e Marcel Broodthaers, ed evolutasi una generazione più tardi con la stessa Fraser, l’Institutional Critique aveva maturato i suoi anni ed esiti e cominciava a sollevare domande sulla sua rilevanza nel panorama artistico contemporaneo.
Alcuni argomentavano che, vittima del suo successo, il simil-movimento avesse finito per esaurirsi in sé stesso, integrandosi progressivamente alle istituzioni oggetto di critica. “Dall’annuncio di Broodthaers della sua prima mostra in galleria nel 1964, […] la critica dell’apparato che distribuisce, presenta e colleziona l’arte è sempre stata inseparabile dalla critica della pratica artistica,” ribatteva invece Fraser. L’identificazione dell’artista come parte del sistema e quindi come potenziale soggetto di analisi è sempre stato infatti per Fraser non un punto di arrivo ma di partenza. Come ricordano Andrea Viliani e Vittoria Pavesi – curatori della mostra ospitata alla Fondazione Antonio Dalle Nogare di Bolzano –, è da lì che Fraser si è mossa per indagare le economie sociali, finanziarie e affettive delle organizzazioni, dei settori, dei gruppi e degli individui del mondo della cultura, generando analisi purtroppo lontane dall’essere irrilevanti, in un contesto attuale di crescente disparità economica, concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi e conseguente iper-elitarizzazione del mercato dell’arte.
Seguendo l’analisi istituzionale di Fraser sulla figura del collezionista, il mercato dell’arte e le intersezioni tra collezioni private e pubbliche, la mostra “I just don’t like eggs!” è la prima retrospettiva interamente dedicata ai contributi dell’artista all’Institutional Critique dagli anni Ottanta a oggi. Una delle prime svolte nel percorso artistico e intellettuale di Fraser rispetto alla generazione precedente del movimento è stata l’introduzione dell’elemento performativo, centrale nel suo approccio sociologico e psicoanalitico, con riferimenti ricorrenti a Bourdieu, Freud e Foucault. Tendendo a un’identificazione totalizzante con l’oggetto di critica, l’artista incarna i dati attraverso la performance avvalendosi di umorismo, trasporto emotivo e analisi in una messa in scena discorsiva di dibattiti, copioni e incursioni nei musei nel tentativo di sollevarne le contraddizioni per ridefinire criticamente le nostre posizioni, internalizzate, rispetto alle istituzioni culturali.
In una delle sue prime performance, Museum Highlights: A Gallery Talk (1989), presente in Fondazione come installazione video, Fraser è Jane Castleton, una guida del Philadelphia Museum of Art addetta ai tour dedicati ai membri del museo. Opere e architetture non sono al centro del copione, sostituite invece da una descrizione meticolosa e a tratti esilarante delle strutture sociali, politiche e finanziarie del museo. In tailleur doppiopetto, gonna appena sotto il ginocchio, calze bianche, décolleté nere e chignon stretto, Fraser/Castleton spiega con atteggiamento lezioso il museo nelle sue componenti materiali e immateriali, dal ruolo pubblico dell’istituzione – “che offre l’opportunità di godere dei massimi privilegi della ricchezza e del tempo libero a tutte quelle persone che hanno gusti raffinati […] e a coloro che non lo hanno ancora coltivato, il museo fornirà un’educazione al gusto” – alla sua posizione preferenziale di docente ospite – “E’ mio privilegio poter esprimermi qui oggi semplicemente come un individuo unico, un individuo con qualità uniche.” Nella sua ironia sottesa e nell’approccio spontaneamente intimo, quasi flirty, Fraser esercita un magnetismo costante senza mai ridursi alla polemica sterile.
Per portare avanti questa linea di analisi, negli anni Novanta Fraser ha sviluppato un modello di pratica artistica in cui la fornitura di servizi sostituiva la produzione di opere. Di questo periodo in mostra ci sono, tra gli altri lavori, i Preliminary Prospectuses [For Individuals, For Corporations, For Cultural Consistuency Organizations e For General Audience Institutions]. Appropriandosi della modulistica della società di consulenza, i Prospectuses si concretizzano in materiale contrattuale o promozionale, trasformando le organizzazioni culturali e gli individui che ne fanno parte in “clienti”. Per scelta ma anche per necessità, Fraser torna poi alla produzione di “opere per galleria” con Untitled (2003/2006), forse uno dei suoi atti più ironici ed emotivamente totalizzanti. Per esasperare il processo di mercificazione dell’opera d’arte, il desiderio feticista di possesso alla base del collezionismo e le relazioni di potere ultrasecolari fra collezionista e artista, Fraser organizza e documenta un rapporto sessuale con un suo collezionista in una camera d’albergo; la proiezione, installata in galleria, la fa rientrare sul mercato.
Le dinamiche di potere rimangono al centro del lavoro di Fraser anche nella sua opera più recente. Con 2016 in Museums, Money, and Politics (2018), l’artista ha documentato in un volume di 943 pagine i contributi a partiti o gruppi politici versati dai consiglieri di amministrazione di 128 musei d’arte durante il 2016, anno della vittoria di Donald Trump. I diagrammi mostrano un aumento considerevole del supporto a partiti repubblicani, analizzando ancora una volta il rapporto fra istituzioni artistiche e politica e mettendone in luce le contraddizioni ideologiche. La “posizionalità” è un tema ricorrente per Fraser e oggi non risulta meno urgente; nella logica profondamente Freudiana dell’artista, la critica deve partire da un’analisi personale. “Ogni volta che parliamo di ‘istituzione’ come qualcosa di diverso da ‘noi,’ rinneghiamo il nostro ruolo nella creazione e perpetuazione delle sue condizioni,” scriveva Fraser nel saggio From the Critique of Institution to an Institution of Critique (2005). “Non si tratta di essere contro l’istituzione: noi siamo l’istituzione.”