Conversazione con Valerio Adami di

di 9 Settembre 2024
Valerio Adami nel suo studio a New York nel 1969. Courtesy Archivio Valerio Adami.

Ch. Delacampagne: Per cominciare puoi parlarci della storia della tua pittura e, in particolare, dei rapporti che si instaurano fra figurazione ed espressione.
Valerio Adami: Ho iniziato a dipingere molto giovane, quando avevo dieci, dodici anni. Mi piace raccontare un aneddoto. Ero molto legato a mio nonno. Era uno strano personaggio; non aveva sopportato il passaggio dal XIX al XX secolo e, per vent’anni, ha finto di essere sordo. Si sapeva benissimo che non lo era; mi aveva insegnato a comunicare con lui attraverso dei disegni e mi piace pensare che è così che ho iniziato a dipingere. In seguito ho frequentato l’Accademia di Belle Arti; ho lavorato con Achille Funi. Ci si credeva ad Atene piuttosto che a Milano; ho disegnato otto ore al giorno per quattro anni. Ho fatto un lavoro accanito sul corpo umano. Ma i miei primi quadri hanno avuto un legame con l’espressionismo tedesco, un lato rabbioso, molto Sturm und Drang. Negli anni Sessanta sono ritornato ad avere un interesse ben preciso per la figura, nel senso della riscoperta del corpo umano, dell’oggetto, di mezzi figurativi ancora più semplici. Ciò che mi interessava era l’utilizzo di un linguaggio molto rapido, comprensibile da tutti. La mia pittura si avvicinava alla Pop Art europea, ma fu un’esperienza presto abbandonata. Ma in ogni caso non ho mai rinunciato a una certa idea di pittura come strumento che deve costruire forme piuttosto che esprimere sentimenti.

ChD: Nella tua pittura la forma è figurativa, ma non è destinata a rappresentare le cose. Cosa vuoi dire allora?
VA: La pittura si trova sempre in una dimensione plurale. Se un pittore ha qualcosa da dire, è ancora di pittura che parla. Che cosa c’è dietro la forma? Il bagaglio completo della propria esperienza, della propria memoria. Egli inizia a tracciare delle linee e queste linee gli ricordano qualcosa. È là che inizia il dialogo straordinario fra la mano e l’interno.

ChD: C’è dunque una specie di dualismo fra memoria e forma?
VA: Sì, ma la memoria non è solo fatta di esperienza personale; è fatta anche di tutto un repertorio di significazioni, di simboli e di archetipi. È anche su questa materia che il pittore lavora.

ChD: In questo repertorio ci sono delle parole e delle significazioni. Che ruolo giocano?
VA: Ci sono delle parole, ma soprattutto credo che ci siano delle proposizioni, cioè delle articolazioni di forme. Un’emozione isolata non esiste; ciò che esiste è un’articolazione di fatti che può portare a un’emozione. In pittura è la stessa cosa; c’è una proposizione, un avvenimento articolato. Il lavoro del pittore consiste nel trovare delle immagini per articolare ciò che ha da dire. Ma non può esprimere direttamente un’emozione, deve passare attraverso una proposizione.

ChD: Rifiuti dunque una via che sarebbe quella dell’esperienza diretta, ed è a furia di lavorare, di articolare le forme che il quadro parla. Ma in quale misura tutto ciò non conduce all’ermetismo?
VA: Accetto la parola ermetismo. Il quadro è il vas hermeticum degli alchimisti, il luogo della trasmutazione; d’altra parte, gli Stoici identificavano Hermes con il Logos. Credo che il ruolo della pittura sia quello di stimolare lo spettatore, di portarlo ad articolare un pensiero e a ritrovare in esso certe motivazioni. Sì, il ruolo della pittura è anche quello di far pensare le persone.

ChD: Allora si può dire che il tuo Ritratto di Freud è destinato a far pensare le persone alla psicanalisi?
VA: No, non è il suo scopo. Evidentemente lo spettatore può fare un piccolo gioco sul quadro, può cercare di spiegare le forme e i simboli. Ma può soprattutto fare un’altra sintesi con il proprio bagaglio. Uno dei ruoli della pittura è quello di stimolare differenti interpretazioni. Il significato della pittura nel XVI secolo era molto complesso, forse più di quello della pittura contemporanea.

ChD: Vorresti dire che la pittura contemporanea è relativamente semplice in rapporto alla pittura classica?
VA: L’epoca contemporanea si è liberata da un’enorme messa in questione della superficie, ma non ha rimosso le idee. La pittura del XV e del XVI secolo aveva dei temi molto complicati e si basava su mitologie ora completamente dimenticate. I pensieri barocchi erano estremamente elaborati, molto più dei pensieri figurativi attuali. Ad esempio, il Trionfo di Venere del Bronzino, che si trova alla National Gallery di Londra, è un quadro di una notevole complessità. E questa complessità non è solo riferita alle allegorie, ma è nelle stesse forme che si trovano sulla tela. Come se ogni forma avesse coscienza del proprio concavo e del proprio convesso.

ChD: Hai iniziato a parlare della tradizione. Che rapporto ha la tua pittura con la cultura contemporanea, quando, ad esempio, pensi ai ritratti di Freud, Benjamin o Joyce?
VA:Evidentemente, per guardare questi ritratti, è meglio conoscere l’opera di Joyce o di Benjamin. Non sono ritratti scelti secondo le caratteristiche fisiche. Devo ammettere che sono dei ritratti piuttosto letterari. Pertanto, non mi preoccupo di confrontare la mia pittura con la letteratura o con il pensiero contemporaneo. La mia pittura si confronta solo con ciò che oggi accade negli altri ambiti. La mia attenzione sarebbe piuttosto rivolta alla pittura del passato, all’arte classica o a certe pitture romantiche. È qui che spero di trovare degli elementi positivi e stimolanti.

ChD: Il moderno dovrà passare allora attraverso l’interesse per il passato?
VA: In ogni caso, il pensiero contemporaneo deriva dalla continuità di una tradizione. Io provo a confrontarmi con la tradizione che parte dalla pittura greca, passa attraverso il Rinascimento italiano, Poussin, pittori come Mengs e Puvis de Chavannes. Se, ad esempio, provo a ricostruire un corpo, questo sarà il prodotto di tutte le conoscenze che possiedo e che la cultura contemporanea può darmi, ma ciò che mi interessa è anche dove, nella pittura, posso trovare dei referenti per disegnare questo corpo, perché, ad esempio, Michelangelo disegnava un corpo in quel modo, quale genere di sintassi cercava di trovare e quale sintassi devo trovare io per raffigurare il presente. Non penso che il mio lavoro sia l’espressione del sistema nervoso del pittore o un romanzo introspettivo. Per me ci sono la voglia e la necessità di costruire una composizione, di utilizzare un vocabolario, di inventare un linguaggio. È la mia sola volontà di messaggio: utilizzare la pittura come uno strumento di analisi e uno strumento di linguaggio, sì, come un linguaggio.

ChD: Il lavoro della forma nella pittura è un lavoro di decomposizione, per giungere in seguito a una composizione complessa. Si potrebbe, a questo proposito, alludere al cubismo?
VA: La parola “composizione” è difficile da utilizzare, perché non si tratta evidentemente di trovare un semplice equilibrio di forme. La composizione è qualcosa di più profondo, che ha a che vedere con l’equilibrio psicologico delle immagini. Il cubismo è uno dei movimenti dell’arte moderna che mi ha dato molto, forse perché ho ritrovato in esso delle ambizioni classiche. Ha provato a montare l’oggetto in una realtà fisica complessa, a costruire un quadro scomponendo l’oggetto per rappresentarlo simultaneamente sotto tutti i suoi aspetti.
Credo che oggi bisogna porre gli stessi problemi a un altro livello, a quello di altre conoscenze del reale, a quello di una rappresentazione avente a che fare con degli spazi e dei tempi differenti, con una differente messa in scena. Nel passato, il quadro era una dimensione ben precisa, una scena limitata. Oggi, le possibilità narrative si sono moltiplicate. Si può mischiare, combinare il passato, il presente, il futuro, ed è qui, forse, l’interesse rinnovato del cubismo.

ChD: Da qui i tuoi omaggi a Joyce?
VA: Evidentemente. Da qui il suo ritratto con le scelte e le indicazioni precise intervenute nel mio lavoro. La dimensione che i cubisti hanno prodotto, bisogna situarla nel nostro quotidiano. Su cos’altro il pittore può lavorare se non su questa costante associazione e negazione di elementi differenti che ha in sé e sui quali può costruire una irrazionale e illogica ma razionale e logica composizione?

ChD: In una composizione di questo tipo, cos’è più importante, la linea o il colore?
VA: Nel mio caso, è piuttosto il disegno, che è il punto di partenza di tutte le mie tele. Attraverso il disegno si arriva in effetti a dare delle definizioni. Il colore non permette mai questo tipo di precisione. È per questo che deve venire dopo. Io mi considero soprattutto un disegnatore e non ho paura di dirlo. D’altra parte credo, ed è Delacroix che lo diceva, che il grande stile nasce sempre dal disegno. Ed è il grande stile che la pittura deve oggi ritrovare. Delacroix diceva anche che procedendo per mezze tinte si è più vicini alla verità ma meno grandi. A dire il vero non parlava del disegno ma del contorno. Era il periodo in cui dipingeva gli affreschi di Saint-Sulpice, dove, è vero, i contorni escono con più grande violenza di prima, ed anche il grande stile. Se si prende Matisse, che fu uno dei grandi coloristi, ci si accorge che era anche ossessionato dal disegno. Definiva i Papiers découpés come dei disegni fatti con le forbici. Questa preoccupazione che tocca i rapporti del disegno con il colore è ancora valida per la pittura d’oggi. Il disegno corrisponde, in ogni caso, a un concetto dell’arte molto particolare ed è a questa concezione che credo di appartenere, una concezione completamente italiana e completamente classica.

ChD:Il paradosso qui è che tu ti riferisci a Delacroix a proposito dei rapporti fra la linea e il colore. Cosa ne pensi allora di un pittore come Ingres, che tradizionalmente gli si oppone?
VA:È sicuramente un pittore che ho guardato molto ed è proprio questa pittura che mi interessa, ma c’è un pittore del XIX secolo che mi interessa molto: Gustave Moreau. È un pittore dalle affascinanti contraddizioni. Contemporaneamente lo stile e la verità. È un disegnatore straordinario ed alcuni dei suoi quadri sono di una straordinaria forza plastica; ma allo stesso tempo — e non solo per un periodo, ma durante tutta la sua vita — ha avuto la capacità di utilizzare il disegno in modo delineato, totale, seguendo la via dominante del colore. Il disegno nasce dal tessuto quasi accidentale del colore e, a ben guardare, si vede una specie di colore-materia che suggerisce il disegno.

ChD: Ma fra questi riferimenti al classicismo e alla complessità di significazione di cui deve essere portatrice ciò che tu chiami la proposizione pittorica, la pittura si vede assegnare un procedimento singolarmente difficile?
VA: Ogni pittura razionale è una pittura d’élite. Le persone amano pregare davanti a un quadro, ma non si può pregare che davanti a degli oggetti da idolatrare, degli oggetti primitivi, non davanti al Sacro di Raffaello, non davanti a un Piero della Francesca. Si prega davanti a piccole orribili immagini, che hanno tutto ciò che serve per essere delle magnifiche immagini, ma non davanti a un Piero.

ChD: Ora una domanda molto diversa, ma che forse non è estranea alla discussione. Ti piace trascorrere dei lunghi soggiorni in India. Non è un po’ paradossale rispetto alle tue preoccupazioni classiche?
VA:L’India è un paese di cui ho una costante nostalgia; è veramente così. È un paese che presenta una straordinaria alternativa al nostro pensiero razionale. Là c’è una concezione della vita differente e strutturata in una maniera ancor più profonda che la nostra. La tentazione dell’India è grandissima.

ChD: E la pittura indiana?
VA: M’incuriosisce molto. Quando si vedono sulle rive dei fiumi queste donne che dipingono questi immensi tessuti, si ha la tentazione di diventare come loro, di fare questo atto religioso della pittura che cambierebbe completamente la vita. Ma questo non è abbastanza per noi.

ChD: Perché sarebbe la vertigine del colore? Con il rischio di perdervi la linea e la sua potenza di definizione? In fondo, tu non cessi di ritornare all’enigma del colore, con una specie di fascino per lui, insistendo sul disegno, sulla razionalità, sul grande stile?
VA: Il colore è ciò che sconvolge tutto. Nel mio lavoro interviene dopo il disegno, alla fine, per metterlo in crisi. Con il colore si può cambiare totalmente il lavoro, rimetterlo in causa. Con il colore si modifica un’altra volta tutto. Ma insisto sul disegno perché voglio che lo spettatore faccia una lettura della mia tela che sia una vera lettura, che non si ritrovi solamente davanti ad essa con un’emozione aperta e indeterminata. Deve utilizzare la possibilità di leggere il quadro, di rendersi conto delle sue forme e del significato di ognuna. È più difficile rendersi conto del significato di ogni colore. Il colore è sempre più aleatorio. Ma per lo spettatore non si tratta di decifrare seguendo il mio stesso cammino. D’altra parte, il cammino dell’autore è così personale, così contraddittorio, così legato all’accidentalità che non si sa se l’ha fatto veramente o se l’ha inventato. No, è il suo stesso cammino che lo spettatore deve trovare. Tale è la scelta del mio lavoro.
Nella direzione del colore, dell’espressione, ci sono dei pittori che mi interessano molto. Alberto Burri, ad esempio, è uno dei più grandi pittori moderni. Ma ci sono delle cose con le quali non sono d’accordo; non sono d’accordo sul sentimento, sull’emotività che la pittura dovrebbe raffigurare. C’è oggi in pittura tutto un discorso mistico-religioso. È un discorso che porta a una regressione di pensiero. Pollock e Rothko sono grandi pittori; la cappella di Rothko è qualcosa di straordinario. Ma sono dei cammini che conducono a cose dannose, che portano al silenzio. È una pittura che spinge le persone a non comunicare più, sì, è questo che spinge le persone a non pensare più…

Altri articoli di

Charles Delacampagne