Dai tempi di Zeusi e Parrasio, la pittura è finzione. Il grappolo d’uva dipinto, acino dopo acino, inganna il becco acuminato degli uccelli. La tenda tratteggiata con tanta sottigliezza beffa persino le pupille dell’eccellente Zeusi, che domanda al compare di scostarla per godere finalmente del quadro. Prendo le mosse da questo celebre passo perché Valerio Nicolai si definisce e si sente un pittore. E perché “Solo con le code”, la sua terza personale da Clima, oltre a interrogare il senso del fare pittura oggi, è anche e soprattutto una storia di pupille, un racconto di orbite cave che praticano bonariamente piccole astuzie.
Entrando in galleria ci accoglie un imponente congegno dipinto che taglia diagonalmente la stanza. Non lo definirei un fregio, quanto piuttosto un oggetto complesso che riempie lo spazio agganciandosi alla parete, quasi ne costituisse il naturale prosieguo. O forse sono le pareti che a tratti si schiacciano contro di esso: chissà, forse. La seconda sala rinnova tale dinamica: un monumentale arcano dipinto percorre trasversalmente il piccolo spazio. Si tratta di un dittico per cui la categoria di immersività, così atta a descrivere i nuovi media, pare terribilmente calzante. Ma per quali ragioni? Non solo per via delle dimensioni notevoli e quasi fuori scala rispetto all’interno milanese, quanto per il funzionamento del dispositivo-opera: un fiabesco buco nero che risucchia lo spazio reale, alterandolo.
Veniamo all’oggetto e al suo soggetto. Ciascuno dei congegni è ricavato dall’assemblaggio di sei tavole di betulla, un legno di media durezza alquanto delicato. Il lavoro esibisce un’esecuzione stratificata, con una base di pittura ad acrilico e una fitta maglia di tracce a grafite che rendono il telero assai simile alla facciata editoriale di un libro di illustrazioni. D’altro canto, lo sfondo, lungi dal rimandare alla grafica per l’infanzia, parrebbe prelevato da un compendio sull’ottica, magari cinquecentesco, corredato da esercizi prospettici, anamorfosi e aberrazioni di vario genere. Una pavimentazione geometrica che prosegue ad infinitum corre lontano, lontanissimo, dove lo sguardo umano non si spinge e non potrebbe avventurarsi. Ricorda i pavimenti belliniani, luoghi di allegorie forse sedimentatesi nella memoria del “nostro” pittore. Sopra le maioliche cala la notte: l’oscurità densa dei buchi neri si bagna di una penombra tutta umettata, umidiccia. Parrebbero proprio questi accorgimenti prospettici, ossia il piano senza fine, la pittura atmosferica, l’impatto monumentale, a distrarci. O per lo meno a tentare di farlo, ma con una tale delicatezza… Quasi contestualmente, mentre il nostro occhio fallace sbatte forte contro il fondo, ci accorgiamo dei guardiani. In una posizione laterale campeggiano infatti due volpi, una per tavola. Gli animali sono colti in un atteggiamento curioso quasi che, sorpresi dalla nostra presenza, si fermassero per scrutarci. Hanno zampe sottili, orecchie appuntite e code maestose. Anche per chi di volpi non se ne intende, le vedette di Nicolai rappresentano indubbiamente due splendidi esemplari. Certo, uno potrebbe sospettare, quegli occhietti di volpe vivaci e ipermetropi si cacceranno fino al fondo dell’abisso e ne estrarranno chissà quale verità. E invece qui si compie un salto narrativo, un mascheramento da arte pittorica. L’artista ha accuratamente cesellato nella betulla un paio di orbite sui musi volpini. Talvolta, esse appaiono inquietantemente vuote. In altri casi, invece, prendono vita e brillano in occhi chiari (quelli delle performer Giulia Fossati e Sofia Conocchiari) che fissano, circolano, saettano, si abbassano imbarazzati. Animismo della pittura: una questione davvero molto antica, anzi originaria, come il sentirsi guardati.
Certo il balzo della volpe che si fa umana ha delle conseguenze, come segnala Alessandro Carano nel testo di accompagnamento alla mostra. I bulbi intagliati e il problema della messa in asse rendono l’animale afflitto da una qualche forma di tristezza, da un tenero strabismo. Ladra di galline e indovina sorniona, la volpe mette in scena sé stessa in barba alla tradizione. Anche lo strano oggetto architettato da Nicolai si mette in scena. Visto frontalmente, quest’ultimo pare una tavola piana, una finestra sull’aldilà oppure uno schermo. I fianchi lignei, rigorosamente chiusi agli sguardi indiscreti, rivelano tuttavia il suo retroscena mediale, il suo discendere dalle forme di intrattenimento proto-cinematografiche. Come l’invisibile proiettore della fantasmagoria, l’ingegno è celato nell’intimità del retrobottega e del confessionale.
Chiedersi cosa pensa la volpe vedendoci giungere inermi e per di più in branco? Pretenzioso. Divenire gli occhi dell’animale? Non è il nostro compito. Affermare che la pittura è una volpe, forse, può essere un buon inizio.