Nel lavoro di Davide Stucchi trovo tre elementi molto specifici che risuonano fortemente col mio essere un teatrante: il rapporto con lo spazio, la dimensione narrativa delle opere, e l’uso che fa del testo e delle parole. Parlare con Davide del resto – e ci parlo da 15 anni molto spesso essendo noi amiche – è un’esperienza logica, nei suoi giochi di parole, nel suo umorismo, nei suoi continui depistaggi linguistici. E raccontare una sua mostra, come qui tento di fare, è un’impresa che potrebbe rivelarsi paradossale: posto che la sottrazione è la cifra dominante nel suo lavoro, appena se ne dice qualcosa la si nega.
Ed è proprio in questo clash visivo e concettuale (tra ciò che c’è, che è qui nello spazio, e il mondo a cui allude, che è altrove) che si può cogliere qualcosa di vero o verosimile. Già il titolo, “6, Corso Via”, suggerisce un’inafferrabilità insanabile: è un indirizzo dove non si troverà nessuno, da cui il destinatario si è già mosso oltre. La poetica dell’assenza si sprigiona da oggetti di uso o di “incontro” comune (i lampioni accanto a cui passeggiamo, le cassette della posta di cui non leggiamo mai i nomi, i citofoni sbiaditi e illeggibili) e si moltiplica nell’assenza dell’umano, che pure aleggia sempre e ancora intorno e dentro a quegli oggetti.
E’ così che la doccia in ascensore, spazio-dispositivo di per sé assurdo, diviene in realtà un luogo di iper-senso, dove la solitudine della doccia incrocia le moltitudini che salgono e scendono negli ascensori del mondo: è la collisione tra queste dimensioni antitetiche – privata e pubblica, promiscua e riservata, sessualizzata e sterile – che fa esplodere il senso del lavoro. Evocare e negare, mostrare e sottrarre allo sguardo: l’essere artista nel mondo, per rileggerlo e restituirlo, accade nel suo levarsi di mezzo.
Per tornare alle cassette della posta: invece delle targhette con i nomi troviamo etichette di vestiti che ci ricordano il corpo del destinatario, così come quello del mittente, ma i corpi non ci sono. Le lettere recapitate nella fessura, con gesto intrusivo ed erotico, potrebbero essere poesie d’amore, bollette del gas o fogli bianchi, non importa: il contatto, o la ricerca di un contatto, è l’unica realtà certa, e passa attraverso gli oggetti. L’ombrello-neon si porge e contemporaneamente si nega ai nostri occhi: un oggetto che per definizione è destinato a proteggere, ma che regolarmente si rompe, si perde, un oggetto disperatamente fragile si lega qui a un’altra fragilità estrema, quella del neon, ed è da questo matrimonio di obsolescenze che si sprigiona forza espressiva.
Il lavoro di Davide potrebbe essere accostato a un certo surrealismo storico, se non fosse che non è mai un lavoro psicologico, come lui stesso mi ha raccontato in lunghissimo messaggio vocale di cui estraggo una piccola parte: “La sottrazione crea un problema che è molto più importante, ovvero che il tuo corpo è in grado di creare un’attesa, un desiderio, crea una connessione, almeno nella mia psicologia frutto dei vari traumi primari, che li possiamo lasciare là perché ci fanno fare cose bellissime”. La psicologia può restare dov’è perché ciò che serve sapere è nel corpo, o meglio, nel paesaggio oggettuale in assenza – nel ricordo o in attesa – del corpo. E questo ci porta al tema dell’interruttore- feticcio che non interrompe proprio niente, dispositivo di attivazione e disattivazione dei già citati clash o cortocircuiti di senso: i pulsanti degli ascensori, dei cancelletti, delle luci, oggetti-gesto che hanno il potere di generare o oscurare realtà e connessioni.
La luce torna e ritorna nel lavoro di Davide, una luce stratificata, collocata, riempita di senso (le perline), come una visione che raccolga tutti gli occhi che l’hanno vista. Anche qui lo spazio pubblico e privato precipitano nell’oggetto: i lampioncini dei palazzi, degli androni, dei vani scala, visti in prospettiva, dall’alto o dal basso, o di lato, da una posizione comunque umana, possono sembrare altro, comporre una collana, per esempio. Lo sguardo umano ordina il mondo, anche nell’assenza dell’umano. Viene in mente il postulato ontologico di Jean-Paul Sartre, “Videor ergo est”, “sono visto dunque sei”, dove è lo sguardo dell’altro che mi dice che esisto davvero, che certifica insieme entrambi i terminali della visione: chi vede e chi è visto esiste in un binomio irriducibile. Ecco, è come se nel mondo di Davide anche gli oggetti fossero dotati di sguardo, che ci posano addosso rivelandoci non solo che noi esistiamo insieme a loro, nel loro stesso spazio, ma ricordandoci anche quello che abbiamo desiderato, pensato e temuto quando li abbiamo guardati, con intenzione o completamente distratti, migliaia di volte. E’ un’emozione di rimando quella che ci insegue e ci afferra nelle stanze di Davide, come se gli oggetti, gli scorci, le visuali fugaci del nostro abitare ci restituissero di colpo una stratificazione di emozioni che si gli abbiamo donato noi stessi, senza neanche saperlo, accumulata nel tempo, nella distrazione e nella leggerezza, per rovesciarsi nel suo opposto: immediatezza, precipitato, densità.
PS: Tutto questo mio ragionamento non è altro che una risposta a quel lunghissimo messaggio vocale che Davide mi ha mandato per raccontarmi la mostra e che finiva così: “Fammi sapere cosa ne pensi cioè fammi sapere soprattutto se lo ascolti a 1 a 1.5 o a 2.5 perché se è a 2.5 allora potrebbe diventare un’altra mostra”.