Avvertenza: scrivere di fragilità è un esercizio retorico, la pagina può essere un diario. Sono le pratiche di Alex Chalmers, Giulia Crispiani, Caterina De Nicola, Stelios Kallinikou, Eleonora Luccarini, Umico Niwa e Massimo Vaschetto che mi hanno aiutato a scrivere. L’io di cui leggerete è il mio e la sua vulnerabilità è quanto di più simile alla delicatezza con cui due bambine che giocano strappano alcuni fili d’erba in un pomeriggio d’estate. Non è la precarietà dell’ordine politico-economico, delle violenze sistemiche, dei crimini di guerra che rompono i corpi, piegandoli secondo i loro piani, li trasformano in numeri – la precarietà come esito di una distinzione. Qui è la paura della perdita, come quando mi immobilizzo davanti ai tuoi occhi, come quando il nostro amore sta nel fallimento.
Lo sperma secco, disteso tra l’ombelico e il centro del petto, era quasi una ferita. Uno squarcio prodotto per farti vedere dall’interno, come se fosse il chiavistello tramite cui potevo entrare. Abbiamo passato i mesi a capire come costruire armature di acciaio, lasciando alcuni fori così che l’epidermide potesse respirare, le mani potessero allungarsi fino a toccare i fiori a terra (Umico Niwa). Quei buchi hanno però rotto le maglie di ferro, nascosti ai capi opposti della sala ci siamo visti. Brilla quando tutto il tuo amore viene gettato via. 1
Ci sono le sere in cui tremi – la porta dell’ingresso e la finestra sul giardino sono aperte e la corrente inonda di brezza fresca la stanza. Il mio corpo diventa un paravento, ti abbraccio. Ci sono le sere che passiamo distanti, le dita non si sfiorano perché temono le scosse elettriche. A volte ti guardo e non ti riconosco. E rimango in piedi, da tempo non sento la mia voce.2 Ti faccio vedere tutta la mia fragilità – quando fallire è il modo in cui cammino, quando l’inciampo è la possibilità del volo. Ci sono le sere in cui alzi le gambe, le tieni strette al corpo con gli avambracci e spingi. Intorno all’ano, la pelle si arriccia – come se stesse sbocciando una rosa. Sono le mie dita umide che, avvicinandosi, la raccolgono. Siamo inclinati l’uno verso l’altro, un’apertura che piega la rettitudine. Ti siedi a cavalcioni sulla mia mano, con gli occhi che non mollano le mie pupille. Siamo qui – un insieme di carne, vene, liquidi, siamo sudore alla mercé di un bacio (Massimo Vaschetto).
Nel 1965, davanti a una classe della New School, Hannah Arendt dice che l’inclinazione ti sporge verso l’esterno, verso ciò che sta là fuori di me.3 Ne fa una questione morale – un io che perde il suo equilibrio strutturale scompagina la griglia sociale? Qui è un tema geometrico: perdo il mio baricentro perché pendo verso l’esterno, così cado. La precarietà sta lì: quando non nascondi il tonfo, non ti alzi repentino (Caterina De Nicola). Mi fai vedere tutta la tua fragilità. Quando in spiaggia i sassi sono appuntiti e ti vuoi distendere, poggi il collo sulla mia coscia sinistra, ti addormenti nel tempo di un verso, c’è il ripetuto rumore del mare che attutisce – è cotone nelle orecchie. Sono goffo e mi muovo, prendo un libro, lo poso, ne prendo uno diverso. Il tuo volto registra gli scossoni, ma sei inerte, orizzontale, ti appoggi (Stelios Kallinikou). È l’ontologia del vulnerabile che scompagina l’autonomia: l’interezza del singolo è vaneggiata, la sua individualità è svelata come maschera (Eleonora Luccarini). Sei già esposto, dipendente – come quando per risalire gli scogli tendi una mano, sfiori il palmo della mia e la pianta del piede trova dove mettersi. Non si è stabili da soli, siamo già stampelle, siamo supporti (Umico Niwa).
Ho camminato per le vie di Stromboli da solo, risalendo vicoli sterrati infrattati tra giunchi piegati dal sole d’agosto. Il rumore del paese era rarefatto dalla distanza, ma c’era il crepitio di alcune galline intente a beccare la terra secca. Le carte a terra si confondevano con sigarette spente, fazzoletti e spazzatura gettata a terra distrattamente. L’erba, rarefatta e battuta sul camminamento, era più alta addentrandosi nel campo. Ho svoltato a destra, lasciando il sentiero. I filamenti mi sfioravano il ginocchio e sono inciampato in alcuni tubi rugginosi. Poco più avanti una lavatrice senza portellone era lasciata sotto le intemperie. Ricordo che qualcosa mi ha commosso – la sua vulnerabilità, inutilità, la sua mera materialità (Alex Chalmers). Ricordo di essermi avvicinato, sedendomi sul pianale. Ho acceso una Camel Blu. Un mezzo sorriso ha rigato il mio volto.
Ann Cvetkovich 4 rilegge Stone Butch Blues 5 di Leslie Feinberg, prova a tracciare un archivio emotivo che riconosca il trauma come quotidiano, la vulnerabilità come un privilegio, la ricezione (o passività) come una scelta. Le butch – una lesbica che fonde insieme maschilità femminile e desiderio omosessuale in una sovversione del genere che è prevalentemente erotica 6 – non articolano l’emotività. La durezza del loro atteggiamento è un callo intorno al cuore, quando la fragilità può causare dolore bisogna mascherarsi, nascondersi. Così le emozioni si fanno di carne e perché si possano sentire occorre toccarle. Hai toccato la mia solitudine. 7
La bottiglietta che contiene il popper scivola tra le mie mani quando usiamo il lubrificante. Te la passo, la apri e tiri mentre ti schiaccio la narice, poi la muovi verso di me. La geometria dell’inclinazione ha a che fare con l’intersezione delle nostre curve, mentre da dentro sale il calore che brilla nei tuoi occhi. Li chiudi e vedo le tue palpebre, sfarfallano mentre il bulbo da sotto si muove, come un vortice. Diventano riflettenti, una lama di luce ti taglia il viso, c’è tutto il caos del mondo lì sopra – eppure siamo qui. Sentiamo le nostre materie incastrarsi, cercare di toccare il fondo. Quando la punta estrema tocca la parete del tuo intestino mi guardi: ci sono tutti i paesaggi che ricordi, tutti i rossi profondi del tramonto, ci sono i rumori di una città lontana, tutte le forme che avresti potuto prendere (Caterina De Nicola)
Ci sono la mia e la tua solitudine, tutte le storie passate e quelle future, ci sono le promesse che non ci siamo ancora fatti, tutti i sogni che scrivono la parola domani. Siamo nello stesso tempo milioni di vite. 8Diventiamo una brigata di lotta, il nostro linguaggio è fatto di mani che si intrecciano e corpi che si fondono. Sulla nostra pelle c’è tutto il caos del mondo. Sono tutte prove d’amore, a prescindere da chi siamo. Eppure siamo imprescindibili (Giulia Crispiani).
La prima volta che ho toccato le tue labbra per un attimo ho tremato. Ho imparato a fermare tutte le emozioni sotto il cardias, lì dove non devo capirle. È stata la tua lingua a ricordarmele.