In occasione della 60ª Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Wael Shawky presenta per il Padiglione Egiziano l’opera Drama 1882. Questo progetto filmico in otto atti esplora la Rivoluzione Urabi (1879-1882), un momento cruciale della storia egiziana, attraverso una narrazione che combina ricerca storica, teatro e incanto. In questa conversazione vengono affrontati temi come la maschera e la marionetta, analizzati attraverso la loro stessa messa in scena. Prendere posizione, non è mai un gesto neutrale: significa situarsi almeno su due fronti, affrontando ciò che è al centro della scena, ma anche ciò che resta fuori dall’inquadratura, alle nostre spalle o fuori campo, e che comunque condiziona la nostra visione. Shawky presenta una questione di tempo e memoria: ogni posizione attuale è radicata in una temporalità che la precede e che plasma i nostri desideri, le nostre paure latenti e persino le nostre omissioni.
Arnold Braho: Partirei dalla questione della rimessa in scena. Questa modalità fa parte della tua pratica artistica ed è spesso volta a porre uno sguardo arabo sulla Storia, producendo una sorta di contraltare e mettendo in discussione le narrative ufficiali. “Today is the day when mutes should speak” è, non a caso, una delle prime frasi che vengono cantate in coro all’inizio dell’opera Drama 1882, film tra il teatrale e il musical, presentato per il padiglione Egiziano che alla 60ª Biennale di Venezia. Come si inserisce questa scelta nella tua pratica di riscrittura del passato e che ruolo assume nel ridare voce a soggettività dimenticate?
Wael Shawky: L’idea della messa in scena della storia, per come la vedo io, si collega profondamente a come interpretiamo e rappresentiamo il passato. Si tratta di ripensare la storia come una sorta di teatro. Proviamo a immaginare: metti in scena un episodio storico, lo trasformi in una performance teatrale, e poi filmi questa performance. In questo modo, la storia diventa una combinazione di narrazione, spettacolo e analisi critica. Ciò che mi interessa, in particolare, è esplorare come leggiamo la storia e il concetto di autenticità. Come possiamo analizzare e rappresentare l’autenticità della storia? E come possiamo presentarla in una forma che non sia solo educativa ma anche coinvolgente e capace di intrattenere?
La storia è una creazione umana, e questo è un elemento fondamentale. È proprio questo che mi interessa esplorare: come tradurre tutto questo in una rappresentazione teatrale? Come inserire queste riflessioni in una messa in scena? E c’è un’altra ragione per cui voglio che assuma la forma di uno spettacolo teatrale. Molti studiosi — non politici, ma autori e accademici — credono che alcuni episodi storici siano stati deliberatamente costruiti per specifici scopi. Ad esempio, la storia del “Maltese e dell’asino” è spesso vista come una sorta di piano prestabilito, un evento orchestrato per fornire una giustificazione all’occupazione britannica dell’Egitto. Si dice che abbiano simulato un conflitto ad Alessandria, usandolo come pretesto per intervenire e, infine, occupare l’Egitto per 73 anni. È una teoria affascinante: una sorta di “teatro politico” che è servito a legittimare un’intera colonizzazione. Questa riflessione si collega direttamente anche agli eventi contemporanei. Guardiamo ciò che accade oggi, per esempio, in luoghi come Gaza. Ci chiediamo: ciò che vediamo ora è autentico o, in qualche modo, preparato? Esiste un piano, un disegno dietro le atrocità? Non sto dicendo che sappiamo con certezza che questi eventi siano stati “messi in scena”, ma attraverso l’arte possiamo analizzare questa possibilità. L’arte ci offre un linguaggio per tradurre la storia in qualcosa che possiamo interrogare, decostruire e comprendere in modo nuovo.
AB: So che sei anche un musicista e che, oltre ad aver ideato il progetto, hai composto le musiche presenti nel film. Ho avuto l’opportunità di passare un po’ di tempo all’interno del padiglione, finendo ossessionato dalle composizioni musicali e non riuscendo per molto tempo a togliermele dalla testa. Il suono è un elemento fondamentale in Drama 1882, sia per la sua capacità di evocare atmosfere storiche che per il modo in cui accompagna e amplifica la narrazione visiva. Mi chiedo, quindi, quale sia stato il processo creativo che ti ha portato a comporre questi brani e come hai integrato le sonorità tradizionali con influenze più contemporanee.
WS: Mi rende sempre felice parlare di musica, soprattutto della musica che compongo. Anche se non ho mai ricevuto una formazione da musicista o compositore, mi sento un musicista. Quando lavoro a una composizione, non mi limito a scrivere le note musicali, ma compongo anche le parole, adattandole al classico arabo in modo che si integrino perfettamente. Ad esempio, in questa composizione specifica, quando ho scritto la sceneggiatura del film, il testo non aveva rime. All’inizio pensavo fosse impossibile trasformarlo in musica, ma si è rivelato il contrario. Ogni frase sembrava avere un potenziale musicale intrinseco, nonostante le differenze di lunghezza, tonalità e ritmo. Ho dovuto cambiare alcune parole per adattarle, ma direi che al 95% il testo è rimasto invariato. Il processo è stato scrivere la sceneggiatura e poi trasformarla in un’unica canzone di 45 minuti. Sono molto soddisfatto del risultato: penso che questa sia una delle mie composizioni più complete. Ovviamente avevo già sperimentato qualcosa di simile in altri lavori, come Cabaret Crusades e Dictums. Tuttavia, questa volta è stato un vero e proprio esercizio di sfida, un modo per creare una grande canzone completa.
Riguardo alle influenze, certamente ci sono dei riferimenti, come il modo in cui il Corano viene recitato nel mondo arabo. L’intonazione cambia in base alle parole, creando una sorta di musicalità che non è poesia, ma neanche semplice parlato. È un aspetto che trovo anche nei canti liturgici cristiani, come nei rituali egiziani.
Parlando del mio film girato nel sud Italia, a Pompei, è stata un’esperienza molto speciale. Quando sono stato invitato, era la prima volta che visitavo il sito archeologico. Appena entrato, ho quasi “sentito” la musica di quel luogo. È stato un processo naturale: scrivere la sceneggiatura, comporla, e trasformarla in un film musicale. Riguardo ai cantanti, no, non sono tutti attori. Molti erano più vicini al mondo del teatro che a quello cinematografico. La maggior parte non sono attori professionisti, ma performer teatrali, studenti o membri di una comunità artistica straordinaria. Abbiamo lavorato insieme per circa tre mesi di prove, e il risultato è stato incredibile. Per le voci, alcune sono state registrate separatamente, dato che gran parte del mio lavoro prevede la separazione dei suoni dalle immagini.
AB: Mi interesserebbe sapere di più sull’utilizzo della coralità: il coro, infatti, non è solo un veicolo narrativo, ma un dispositivo che mette in luce le differenze di classe sociale e crea un senso di collettività. Qual è il suo ruolo in Drama 1882?
WS: Ho sempre amato lavorare con il coro. Non è un elemento che uso in ogni progetto, ma nella maggior parte dei casi lo utilizzo per trasmettere un senso di mancanza di potere individuale. Il coro, infatti, spesso non ha una propria voce autonoma, ma si presenta come qualcosa di collettivo, quasi in sottofondo.
Mi piace anche mescolare le voci dei bambini con quelle degli adulti, perché questo aiuta a rappresentare una società senza genere. Quando ascolti le voci dei bambini, non percepisci una distinzione tra maschile e femminile; non c’è uomo o donna, c’è semplicemente un’assenza di identità individuale. Questa idea l’ho applicata anche nel film di Pompei. Nella scena finale, tutta la comunità canta insieme, ma si sentono solo le voci dei bambini. Questo contribuisce a creare un effetto corale che va oltre le individualità, qualcosa di universale e collettivo.
AB: Solitamente nei tuoi film i protagonisti sono bambini, maschere o marionette, soggetti che solitamente non hanno una vera autonomia (che sia politica da un lato, o di movimento animato dall’altro), e che sembrano impersonificare molto bene la figura del subalterno. L’approccio con gli attori e cantanti all’interno di Drama 1882 è decisamente peculiare: le espressioni facciali sono ridotte e i movimenti corporei sono meccanizzati. Le coreografie inoltre, sono studiate nel dettaglio, e sembrano ricordare i movimenti di marionette o pupazzi, come se ci fosse qualcosa di “altro” e più grande a coordinare le loro esistenze. Come mai i corpi di Drama 1882 sembrano “meccanizzati”?
WS: Sì, esattamente come stai dicendo, gran parte del mio lavoro precedente — con l’uso delle marionette, delle maschere e con i bambini — nasce dal tentativo di eliminare, o meglio cancellare, le abilità recitative. L’idea è quella di evitare che si veda la recitazione in questi tipi di film, di eliminare le emozioni, di uccidere il dramma. In questi lavori, infatti, il dramma non è presente nei volti degli attori, anche se si affrontano temi altamente drammatici, come le crociate, le uccisioni, il papa e tutti questi grandi eventi della storia. Il dramma, in quei casi, viene lasciato al tema, alla musica, al copione, alla componente visiva e scenografica, ma non alle espressioni facciali degli attori. Ho cercato di non dipendere da quel tipo di interpretazione. È per questo che ho scelto di usare le marionette e le maschere.
Così, quando mi è stato chiesto di rappresentare l’Egitto contemporaneo, ho voluto affrontare una nuova sfida: fare esattamente il contrario. Ho deciso di lavorare questa volta con persone, attori e performer umani, senza maschere né filtri, e persino chiamare questo lavoro “dramma” — il dramma che in passato avevo cercato di eliminare.
In questo caso con i performer, ho cercato di ottenere espressioni minime: i loro volti dovevano restare quasi inespressivi. L’espressività viene trasferita interamente alla coreografia, che diventa molto più lenta e meccanica, simile a quella delle marionette. In un certo senso, i performer si comportano come marionette. Se guardiamo a un lavoro recente come Pompei emerge chiaramente un’idea a metà tra l’essere umano e la marionetta. Anche se i personaggi indossano una maschera, sono comunque in grado di muovere bocca e occhi attraverso i fili, creando questo ibrido tra due mondi.
Nel caso della storia sulla mitologia greca, questa combinazione era perfetta. Al contrario, nel lavoro che sto presentando a Venezia, l’idea è spinta verso l’opposto: qui è un essere umano che si comporta come una marionetta. È una sorta di tensione tra opposti, tra umano e meccanico, e questo è il punto centrale del mio lavoro.
AB: La scenografia rappresenta una Alessandria d’Egitto onirica: una città dai colori sgargianti, che sarebbe stata poi bombardata e distrutta dall’occupazione coloniale britannica, e successivamente ricostruita continuamente dai suoi abitanti, assumendo differenti forme. Queste reliquie però hanno l’aspetto più di un mondo magico, lo spazio del padiglione stesso è popolato da altre presenze. Da dove provengono questi mostri e che funzione hanno all’interno della narrazione?
WS: Per quanto riguarda la scenografia, in questo lavoro ho cercato di trattare ogni scena come se fosse un dipinto. Il film è composto da otto scene e ognuna di esse è per me una sorta di “dipinto in movimento”. Per enfatizzare questa idea, ho lavorato con diverse stratificazioni: ci sono figure sullo sfondo che si muovono in slow motion, mentre i personaggi in primo piano si muovono a una velocità leggermente diversa. Inoltre, persino gli elementi di fondo — come le montagne o le onde — si muovono a un ritmo differente rispetto agli altri piani. Ogni layer ha la sua velocità, e questo contribuisce a creare l’effetto di un dipinto in movimento, dove tutto è calcolato nei minimi dettagli. Anche la scelta dei colori e della scenografia è stata studiata con cura: tutto, dai costumi al terreno, persino il fatto che l’asino fosse nero, è stato deciso come se stessi realizzando un dipinto. Ma è un dipinto vivo, in continuo mutamento.
Per quanto riguarda i mostri che compaiono nel film, questi sono rappresentati dalle stesse persone che vediamo nel quarto capitolo. Questi personaggi rappresentano figure storiche: i ministri di Francia, Italia e Germania, che furono protagonisti della conferenza storica del 1882. Questo evento reale vide attorno al tavolo diplomatico rappresentanti di grandi potenze come Russia, Regno Unito, Italia, Francia, Germania e l’Impero austro-ungarico (rappresentato da un unico delegato), intenti a decidere le sorti dell’Egitto.
Gli stessi individui che discutevano a quella conferenza vengono poi mostrati, nel film, mentre camminano dietro a un enorme mucchio di cadaveri. Questo, naturalmente, è una metafora che racchiude molti significati diversi, ma mi è sembrato interessante combinare simboli e riferimenti storici in modo da creare qualcosa che avesse una qualità quasi musicale e, allo stesso tempo, un legame con la storia.