Marcello Maloberti “Metal Panic” PAC / Milano di

di 21 Gennaio 2025

Non è un caso che durante l’ultimo weekend della mostra di Marcello Maloberti “METAL PANIC” presso il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea il pubblico verrà accolto da un’opera immateriale che è anche un dono, un gesto di benvenuto, una dichiarazione d’amore alla città di Milano che dagli anni Novanta ha cullato e nutrito la ricerca dell’artista, fungendo da centro ideale e sfondo della sua produzione. Sotto lo stemma del Comune meneghino modellato da Lucio Fontana e collocato sulla scalinata d’ingresso del museo, Ninetto Davoli (protagonista di molti film di Pier Paolo Pasolini) effettuerà infatti per un’ora la performance Baciamano (2025)1. Come altri dei lavori in mostra, questa azione eleva il concetto di “omaggio” a fulcro di un procedere artistico più ampio che si nutre di una coralità di linguaggi visivi e sonori spesso attraversati da un grado di performatività e dall’interazione con il pubblico. Questo gesto, inoltre, esalta alcune delle figure chiave che non hanno mai smesso di influenzare tutta la poetica di Maloberti: Pier Paolo Pasolini, che per lui incarna “lo sporcarsi con la realtà”, e Luciano Fabro, maestro e faro “sempre presente nei suoi pensieri”2, sin dagli anni da studente all’Accademia di Brera di Milano. Oltre a loro, l’artista cita spesso Carmelo Bene che rappresenta “lo sporcarsi con il divino” e Franz Kafka che delinea “il suo balbettare con il linguaggio.”

Maloberti ama definire le sue performance, le sue azioni e persino le sue opere più come “eventi da vivere” che come forme chiuse e stabili: “il mio è un lavoro che tende sempre ad aprirsi, a mutare.”3 È così che in “METAL PANIC” – curata da Diego Sileo, promossa dal Comune di Milano e prodotta dal PAC e Silvana Editoriale4 – l’intero disegno espositivo e il suo evolversi nello spazio prende corpo in mezzo al pubblico che è invitato a sostare “tra le cose”, come se si trovasse dentro un cantiere che poi è il palcoscenico della vita, sempre pronto ad accogliere gli avvenimenti nel loro inarrestabile fluire. La mostra si snoda nelle cinque stanze, lungo il corridoio e il parterre al piano terra, per occupare poi la balconata, la galleria, la project room e anche il cortile esterno. E se molte delle opere sembrano vivere in una sorta di “stato di sospensione”, nella loro configurazione – quasi una coreografia – esse riattivano un copione già recitato, ma non per questo stanco. Abitano gli ambienti del PAC e li “sfruttano” come se fossero idealmente delle quinte teatrali, soprattutto nell’infilata di stanze: entrano ed escono di scena, provocano stupore, creano vertigini visive, giocano con l’atto di ribaltare e sfidano il corpo, tra azioni sottili come il bisbigliare (LA SUGGERITRICE, 2024)5 – durante la quale una ragazza pronuncia sottovoce all’orecchio dei visitatori la frase “nella tasca destra l’Oriente, nella tasca sinistra l’Occidente”, ripresa da una conferenza di Carmelo Bene su Platone – o gesti apparentemente più delicati come in SIRONI (2024)6, dove una performer ritaglia da alcuni cataloghi dei frammenti di riproduzioni di opere di Mario Sironi, per poi abbandonarli sul pavimento in un’accumulazione di immagini e riferimenti alla produzione del celebre artista italiano qui privata di qualsiasi appiglio a una dimensione pittorica. E se con TILT (2024) Maloberti si appropria di un guardrail in acciaio zincato che poggia su sette blocchi di marmo bianco (qui un altro legame a Fabro, il marmo) e lo utilizza come linguaggio scultoreo per disegnare nello spazio una traccia, una linea di tensione tra lui e il pubblico e tra quest’ultimo e le opere, in M (2024) un cartello stradale di ingresso alla città di Milano è rovesciato e appeso al soffitto nella prima sala, ribadendo il gesto e la portata del valore sociale e politico che spesso accompagna il suo fare arte, qui diretto rimando alla “M” di Mussolini e al suo corpo appeso a testa in giù in Piazzale Loreto il 29 aprile 1945.

L’idea del trovarsi in un cantiere, in una situazione in fieri, è accentuata dall’utilizzo di lastre in metallo che l’artista sceglie come materiale prediletto anche in altre opere. Lo ritroviamo in ULTIMATUM (2024), installazione site-specific che riveste parzialmente la facciata del PAC, alterandone l’estetica tipicamente modernista dell’edificio progettato da Ignazio Gardella tra il 1947 e il 1954, e nelle didascalie che riportano i titoli delle opere incise con la grafia dell’artista. Pensate come una nuova opera dal titolo INCIPIT (2024), queste targhette si stagliano ad altezza occhio in un orizzonte tutto da scrivere – o del quale, al massimo, ci vengono fornite solo le parole iniziali – e che alterna momenti di pieno e vuoto. Anche per la sua mostra personale “MARTELLATE”, a cura di Damiano Gullì, presso Triennale Milano nel 2022 l’artista aveva allestito le sue frasi (le Martellate, appunto, quelle che elevano la parola scritta nella sua dimensione poetica) lasciando ampi spazi vuoti alle pareti, proprio come fossero delle pause nel linguaggio o in una partitura musicale. Non manca anche al PAC una serie di MARTELLATE (2024) collocate nel parterre, in stretto dialogo con la vetrata che dà sul giardino che il Padiglione condivide con l’adiacente Galleria d’Arte Moderna. Realizzate in neon montati su strutture tubolari come se fossero le pagine di un libro aperto, esse sintetizzano la volatilità del suono con la materialità della scultura: sono “dichiarazioni politiche, aforismi e atti poetici legati al sacro, al mistico e al sogno.”7“ La scrittura è una parte importante del mio lavoro, ha un ruolo totalizzante e mi piacciono i lavori che nascono come battute. Nella scrittura amo il frammento, mentre nell’oralità amo l’excursus”.8 Anche BOLIDI (2024)9 cerca un dialogo con l’esterno, in particolare con i Sette Savi (1981) di Fausto Melotti esposti nel giardino del Padiglione. Questi tavoli-scultura indossabili e ornati da piccoli cipressi sono infatti sette “oggetti in potenza” che danno sostanza a un boschetto metafisico cresciuto sopra ad una sorta di palcoscenico ambulante, sospeso tra la possibilità di ospitare un evento e il suo già essere avvenuto. Un cortocircuito simile che fa dell’attesa la sua tensione poetica, è percepibile anche in IN SEARCH OF THE MIRACULOUS (2024), una statua ottocentesca a grandezza naturale della Madonna che l’artista ha acquistato durante un viaggio in Nord Europa. Con il volto rivolto contro la parete, Maria nega qui la sua apparizione mistica, sospendendo ogni giudizio ma anche ogni miracolo (forse su Milano?).

Il rapporto tra pieni e vuoti caratterizza a diversi gradi tutta la mostra che deve il suo titolo all’omonimo video di nuova produzione che ha come protagonista il musicista Jacopo Finelli mentre esegue una partitura per fucile. L’interazione tra il suono e l’oggetto (che diventa così scultura e strumento musicale) genera una terza lingua, una melodia mai udita prima che genera “spaventi sonori e improvvisi” diffusi per tutto lo spazio, mentre ai nostri occhi Finelli, elegantemente vestito, si mostra sempre più provato dallo sforzo fisico al quale è sottoposto. Salendo verso la balconata, su per le scale, l’elemento iperdecorativo di CHANCE DI UN CAPOLAVORO (2024) composto da una serie di forbici in acciaio “affilate” con piume d’oca bianche accompagna verso l’orizzonte più casalingo, ma fortemente patriottico di LA VERTIGINE DELLA SIGNORA EMILIA (2024), che riprende il titolo di un lavoro del 1992. L’opera è una lunga tovaglia a quadretti bianchi e rossi (quella tipica da trattoria o pizzeria) cucita con la bandiera tricolore: un omaggio (non privo di ironia e amarezza) “all’ininterrotto spettacolo teatrale dell’Italia contemporanea che si deve ancora costruire e contemporaneamente già restaurare”10, e che qui diviene un siparietto temporaneo dove il tessuto è fissato con pinze in acciaio a tubi innocenti bloccati con dei sacchi di sabbia che fungono da contrappeso. Nella sala adiacente, la project room del PAC, Maloberti torna alle proprie radici attraverso un nucleo di lavori (quattro fotografie e una scultura) degli anni Novanta che riportano al centro la sacralità del quotidiano e del contesto domestico e familiare degli esordi (in particolare quello legato alla madre e alla nonna) e che, insieme a quello della provincia di Lodi (Casalpusterlengo, dove è nato), non hai mai smesso di influenzare il suo sguardo sul mondo. Chiude la mostra PETROLIO (2024), un’unica grande installazione ospitata nella galleria che omaggia nuovamente il messaggio (anche tragico) e la poetica di Pasolini: oltre duecentocinquanta copie del suo romanzo incompiuto “Petrolio” (prima ed. Einaudi, 1992) giacciono a terra aperte, segnate nella loro esatta metà da dei coltelli da cucina. La ripetizione delle pubblicazioni ordinate in file da cinque e del posizionamento della lama rende questo lavoro molto fisico nella sua apparente staticità: “vedo la performatività nella fotografia, nel disegno, nel collage, nell’installazione, nella scultura.”11 Nel lavoro di Maloberti c’è sempre l’idea di un’azione e di un gesto (suo, dei performer o del pubblico) che in “METAL PANIC” ci fa anche alzare lo sguardo verso l’alto. Nel cortile del PAC, sorretto dal braccio meccanico di un autocarro, un neon con la scritta ribaltata “cielo” accoglie e congeda (CIELO, 2024).12 È un nuovo cielo per Milano, forse. Un cielo provvisorio che nella sua precarietà potrebbe precipitare al suolo da un momento all’altro e, schiantandosi, dare anche origine a una di quelle vertigini visive tanto care all’artista. O forse questo è già accaduto perché il suo lavoro “nasce da uno spavento”, come ci ricorda una sua Martellata.

Nella loro danza dolce e un po’ punk, le opere di Maloberti oscillano in questa mostra tra stati d’animo differenti, restituendoci immagini, parole, suoni e azioni che nel percorso espositivo tracciano una serie di micro narrazioni legate al personale e al quotidiano, senza tralasciare però i racconti collettivi della tradizione e della storia politica e culturale del paese. L’artista attinge a suo modo da queste voci e rende loro omaggio anche attraverso dei padri tutelari, portando al contempo alla luce stereotipi del Belpaese e ombre di un passato recente ma complesso, qui spalleggiato da una visione a tratti più poetica, quasi onirica, che si sovrappone a uno sguardo neorealista capace di esaltare la precarietà del vissuto.

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Giovanna Manzotti