Nico Vascellari “Pastorale” Palazzo Reale / Milano

31 Marzo 2025

Nell’estate del 1807, Ludwig van Beethoven iniziava a comporre la Sesta Sinfonia, intitolata Pastorale, che porterà a termine nella primavera del 1808. Il compositore amava passeggiare nei campi, perdersi nella pace dei boschi, nel silenzio delle foreste. Anche Nico Vascellari si sente a casa attraversando i paesaggi di una natura selvatica. Raggiunge le montagne intorno a Vittorio Veneto e cammina a lungo per sentieri. Non è un caso che, entrato per la prima volta nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, abbia pensato a questo titolo, Pastorale. Un titolo che contrasta con le tracce di quanto accaduto a questa sala nel lontano 1943, quando le Cariatidi vennero bombardate. Il tema arcadico, l’idillio, è forse la cosa più lontana dai disastri della guerra. Ma forse la funzione di tale genere di invenzioni letterarie stava proprio in questo: offrire allo spirito umano un rifugio, un’isola felice, per sopravvivere alla violenza della vita e della storia, lontano da intrighi politici e conflitti sociali, ritornare nel grembo di madre natura per un colto, aristocratico distacco dalla realtà urbana.

Una scultura meccatronica, di forma cilindrica e superficie metallica, domina la scena espositiva imponendosi allo sguardo per via della sua presenza aliena, cinicamente austera e algida. Si erge sopra un ulteriore plinto cilindrico, in parte nascosto nella coltre di terreno che ricopre interamente il pavimento della grande Sala. Un deambulatorio perimetrale consente ai visitatori di percorrere lo spazio circostante, aggirando la distesa di questo suolo impropriamente messo a dimora nel cuore di Palazzo Reale. A intervalli regolari, la scultura avvia la propria azione propulsiva. Qualcosa, all’improvviso, muove dal profondo, un rumore sordo, tellurico, che lentamente cresce alimentando un rigonfiamento del suolo alla base del corpo metallico. Dura pochi istanti, la tensione giunge al limite, per poi deflagrare nell’esplosione fragorosa che, dalla superficie del cilindro, libera nell’aria milioni di minuscole particelle destinate a ricadere nell’intero spazio espositivo. Sono semi, nuvole di sementi floreali, quasi un bombardamento di piccoli nuclei organici che erompono nella sala in forma di un inquietante amplesso meccanico.

Come negli incisi reiterati di Beethoven, ogni volta il rito si ripete in un crescendo e nel suo successivo diminuendo. Alla fissità melodica – al tema principale e alle sue declinazioni armoniose – si alterna l’improvvisa ascesa ritmica che irrompe nella composizione, liberando un’energia segreta e intestina. “Più espressione del sentimento che pittura dei suoni”, aveva chiosato il compositore tedesco. Ed è esattamente in questa espressione senza linguaggio, in questo atto liberatorio e cieco che si svolge, per Vascellari, la manifestazione di una forza, creatrice e distruttrice che sia. Volontà di potenza nietzschiana, intesa come “volontà di vivere” (“Wille zur Macht”) che si afferma al di là e al di sopra di ogni rappresentazione, nelle specie animali così come in tutte le forze della natura.

Questa creatura, sepolta nella Sala delle Cariatidi – circondata da corpi scultorei femminili, simbolicamente assorti nella propria funzione di sostegno di ogni architettura, plastica e organica – alimenta un intero ecosistema rigenerante, del tutto artificioso e postumano, marziano, lontanissimo dalla natura che pur simula nelle sue forze prime. L’irrompere dell’atto detonante della disseminazione imprime un gesto che incalza e sprona la rinascita, non solo di una pianta, di un fiore, di un arbusto o un alberello, ma dell’intero linguaggio della creazione, del fare, del nascere.

Vien da chiedersi, tuttavia, dov’è finito l’uomo, quale la sua posizione, il suo destino? Se ne sta a camminare sui bordi, assiste e percorre la periferia, escluso dal centro incandescente di questo vitalismo indotto dalla macchina. Il suo ruolo appare del tutto marginale, scalzato, posto fuori e quindi osceno (obscaenus, infausto, di malaugurio). Pertanto, la paradossale “natura artificiale” che giorno dopo giorno affiora da questo canto della terra parla dell’uomo come di un’assenza: il percorso di “ritorno alla natura” appare in fondo un idillio impraticabile, una sonata nostalgica e lontana. Eppure, Pastorale è il nostro canto, il nostro modo di intendere e di fare un’altra genesi. Eppure, si semina ancora. Ancora vedremo spuntare dalla terra il verdeggiare di una pianta e poi di un’altra e di una nuova fioritura.

Dal testo di Roberto Lacarbonara e Sergio Risaliti.

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