With the Objects of Life: Magia e Significato nelle opere di Tomaso Binga, Beatrice Bonino e Liliana Moro di

di 3 Marzo 2025

Il seguente testo fa parte della sezione Protagonisti. Voci e visioni del presente di Flash Art Italia – Agenda 2025 che si propone come una cartografia del presente – non esaustiva ma rigorosa – dove le traiettorie di oltre trenta artisti si intersecano e si illuminano reciprocamente, pur mantenendo le proprie specificità linguistiche ed espressive. Il dialogo tra questi percorsi artistici, che spaziano dalla pittura alle pratiche relazionali, dalle ricerche materiche alle sperimentazioni digitali, è orchestrato attraverso le voci di curatori, curatrici, critici e studiosi.

I suoni della fine sembreranno quelli dell’inizio. Gli oggetti avranno raccolto polvere, ma avranno anche raccolto valore; il valore del mistero. E mentre il tempo e lo spazio si allontanano dai loro precostituiti sentieri, l’oggetto deve essere riorientato dove le cose hanno dimensioni e ritmi diversi.

È strano come il piccolo diventa grande e il grande diventa piccolo quando cerco di guardare il mondo attraverso le opere di Tomaso Binga, Beatrice Bonino e Liliana Moro. Leggende e storie si capovolgono, il linguaggio cambia, scivola sulle lingue e attraverso i corpi. Queste sono riflessioni nate leggendo (e traducendo in inglese) l’opera poetica di Tomaso Binga nella nuova monografia Euforia (2024)1. La poesia concreta ci dice qualcosa di vero sul linguaggio – che le parole sono cose; la riflessione che segue è quindi che queste cose – queste cose che Binga fa – sono in realtà sculture che utilizzano il linguaggio di tutti i giorni per creare qualcosa che stravolge la visione abituale. Una di queste è la poesia Natura Morta del 1978, che conduce il lettore dentro un significato più profondo attraverso un labirinto di giochi di parole: una poesia sulla natura stessa della vita e della morte, con versi come: Natura Morta/ Morta di Paura/ Paura di non Essere/ Essere come Verbo… Mentre i significati vengono svelati, se ne creano di nuovi. Le parole prendono un duplice scopo, spiegare e oscurare, come nella poesia Mi fa male (1981); nella quale gli elementi del corpo che fanno male sono chiusi in una piccola scatola, isolati dalle conseguenze del dolore. Due campi semantici e visivi che esistono insieme ma separati nella pagina, come se uno fosse la malattia e l’altro la cura.

È periodo di vacanze e seduta accanto al fuoco cerco conforto leggendo On the Calculation of Volume (Book I), un romanzo danese recentemente tradotto in inglese2. Nella storia, la protagonista trovandosi a rivivere la stessa giornata più e più volte, dice: «L’impensabile è qualcosa che portiamo sempre con noi. È già successo: siamo improbabili, emersi da una nuvola di coincidenze incredibili.»3 Mi è sembrato quasi riferirsi al modo in cui Binga scrive le poesie e come il linguaggio contenga questi incredibili elementi magici che lei ci aiuta a vedere.

Nelle opere di Beatrice Bonino c’è qualcosa di altrettanto rivelatorio. Gli oggetti con cui lavora, che riusciamo decisamente a percepire nella loro dimensione femminile, sono oggetti comuni che potrebbero essere miei o di mia madre. Fisso le sue opere racchiuse nella plastica. Sembrano arrivare da un altro tempo, un tempo a cui non potrò mai accedere, una dimensione aperta solo alla memoria. Mi sento particolarmente attratta da If I did, I did, I die (2023), una mostra alla Jaqueline Sullivan Gallery di New York, nella quale Bonino ha lavorato sugli oggetti in mostra affinché apparissero come reperti archeologici di un’infanzia fermata a metà di un secolo perduto. Oggetti come BB020 Bow in Bag (2023) per esempio, diventano sculture che contengono, nella loro immobilità, una precedente vita in movimento. Guardando le opere di Bonino, mi ronza nel cervello quello che Eleni Stecopolous ha scritto in un saggio sui poteri curativi della scrittura e dell’arte: «Non credo che i corpi raccontino storie, ma le archiviano percorrendole.»4 Gli oggetti sono archivi che contengono il passare del tempo. Non c’è (e non c’è quasi mai) una storia unica, ma molteplici.

Avevo già incrociato (con Binga e Bonino) la sensazione di vivere una sorta di universo parallelo che poteva avere a che fare con le favole che non sono ancora state scritte, quando ho incontrato l’opera di Liliana Moro Un Mondo Senza Testa / A World With No Head (2003). Perché ne sono rimasta così affascinata? Anche se non l’ho mai vista dal vivo, guardando le immagini sono rimasta completamente rapita dalle dimensioni. Credo che tra le varie ipotesi per cui non riesco a distoglierle lo sguardo, sicuramente tra le principali è che abita i miei sogni da molti giorni: la disorientante riduzione di scala; la mia ossessione per le case delle bambole; l’intreccio tra politico e domestico; il fatto che l’opera, altamente specifica, possa essere riprodotta ovunque con facilità. La guardo attraverso le immagini e desidero di vederla di persona. Vorrei quasi averla fatta io, perché incarna le cose che vorrei fossero incluse in quasi tutti i lavori: l’incontro, la discussione, il tavolo di Husserl, così come l’interpretazione poetica aperta e un lavoro che, mentre accade, implica e invita necessariamente alla discussione.

Si forma di fronte ai miei occhi una sorta di mostra privata, alla quale partecipano tutte e tre le artiste. Piccole donne marciano sul tavolo verso la ghigliottina, portando borse e un valigione con una scarpa o un cappello da bambino e recitano Binga: ucci ucci, ucci ucci, sento odore di cristianucci5. Come Jack e la sua pianta di fagioli, i personaggi che popolano quest’opera perturbano le aspettative prefissate sulla femminilità.

Ciascuna di queste artiste, mostra agli spettatori la realtà vissuta attraverso un’esperienza femminile di genere. Queste opere delucidano visioni uniche della storia attraverso lignaggi e rierimenti scelti, ma tutte puntano a una feroce vulnerabilità. Mi viene in mente il libro di Lisa Robertson Proverbs of a She-Dandy (2018):

Lei dimostra con il suo atteggiamento,
i suoi accessori storti, la sua forza d’animo
come il suo modo di stare su una panchina,
che l’unico vero valore è
nell’aumentare la teatralità
della fragilità umana ignorata6.

La flaneuse vaga nel mondo e il suo apparente oblio è una posizione politica. Con semplici oggetti fa teatro. Un teatro che ci indica lo stato della condizione umana, non con austerità ma con tenerezza; con un ammiccamento, con una rima, una battuta, un frammento. E anche se Tomaso Binga, Beatrice Bonino e Liliana Moro appartengono a generazioni e pratiche differenti, insieme riescono a guidarci verso una nuova visione del mondo che abitiamo.

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Allison Grimaldi Donahue