Il mio primo personale rapporto con un archivio d’arte contemporanea è stato illuminante, una fonte inesauribile di scoperte, di idee e di suggestioni. Sono stata fortunata, perché mi è capitato con l’archivio di Germano Celant, un critico che ha precorso il tempo stabilendo, già nei lontani anni Sessanta, alle origini della sua internazionale carriera, che la comprensione dell’arte contemporanea, così come quella dell’arte antica, implicasse un approccio pragmatico, filologico. Molto presto, di conseguenza, nella sua casa-studio di Genova aveva cominciato a raccogliere documenti di ogni genere, volumi monografici e tematici, cataloghi grandi e piccoli, inviti di mostre, riviste, fotografie, manifesti, edizioni, manoscritti e dattiloscritti d’artista. Tracce in progress di molteplici eventi e accadimenti multimediali del secondo XX secolo, ambienti, allestimenti, happening, performance e altre forme espressive.
A quell’archivio ebbi accesso mentre lavoravo alla realizzazione del catalogo della mostra “Identité italienne. L’Art en Italie depuis 1959”, curata dallo stesso Celant e inaugurata al Centre Pompidou nel 1980. Si trattava di un vasto e ambizioso progetto editoriale organizzato in ordine cronologico e concepito per coprire a tappeto vent’anni di fatti salienti dell’arte italiana, le relazioni tra cultura e politica, le opere e le mostre, le performance e le interazioni con il teatro d’avanguardia, le gallerie e l’economia, le produzioni video e televisive, i libri e le pubblicazioni periodiche. Da realizzare in tempi record e in un’epoca non ancora digitalizzata, la realizzazione di quel catalogo era stata affidata a un’équipe di giovani esperti di cui facevo parte, ognuno responsabile di un argomento. Avevo scelto di occuparmi delle riviste d’arte, un ambito sconfinato di produzioni con origini, contenuti e periodicità diverse, che io, poco più che ventenne, amavo molto approfondire, ma certo non conoscevo a tappeto. Per questo, le ore trascorse nell’archivio di Celant mi emozionarono, mi riempirono di entusiasmo e tanto mi impegnai nel taglio da dare alla mia ricostruzione storica che il mio lavoro diventò parte della mostra stessa a compendio delle opere esposte, una scelta non prevista e per me assai gratificante.
Ho pensato che questo ricordo potesse rappresentare una funzionale premessa alla mostra “Archiviale_001” (10 aprile 2024 – 12 gennaio 2025), che ho curato, per incarico di MAC (Milano Art Community) al Museo del Novecento, oltre quarant’anni dopo. Fondamentalmente perché può spiegare la mia devozione ai materiali d’archivio, il quanto e come io li ritenga formativi, strumenti di studio, consultazione e consapevolezza oggi sempre più indispensabili e preziosi. Simili specialistiche informazioni, se si esclude la stretta attualità, non sono ancora reperibili online e verosimilmente mai lo saranno in misura esaustiva. Le nuove generazioni se ne sono già rese conto e sono felice di notare come e quanto il ritrovamento e la ristampa di documenti originali così come il répechâge e la valorizzazione di opere sconosciute, dimenticate o sottostimate del Novecento identifichino scelte sempre più necessarie, attuali e diffuse tra i più giovani dealer, autori e curatori. Forse per lo stesso motivo, ho deciso che la mostra “Archiviale_001”, la prima mai realizzata sul milieu e l’attività delle gallerie private a Milano, dovesse necessariamente avere una portata storica. Così, pur disponendo di uno spazio espositivo abbastanza limitato, ho pensato subito che l’oggi dovesse convivere e intrecciarsi con il suo passato e trapassato prossimo, confrontarsi e interagire con i trascorsi della ricerca artistica, lo stile degli spazi espositivi, delle inaugurazioni e della comunicazione, gli scritti critici e il pubblico dei testimoni più rilevanti e iconici attivi in città dall’immediato secondo dopoguerra in poi. Le gallerie specificamente dedicate all’arte contemporanea sono nate a Milano molto prima dei musei, delle ville o dei padiglioni comunali, a cui hanno incontestabilmente aperto la strada. Già nel secondo dopoguerra hanno infatti gettato le basi di una ricerca votata al nuovo, alla sperimentazione e all’internazionalità che ha oltrepassato i confini del nostro Paese, facendo di Milano una mèta europea irrinunciabile per specialisti e appassionati. Si parla di origini in cui l’istinto era più importante dell’esperienza e il buon fiuto più ancora del sapere, perché ancora ci si muoveva nei dominii dell’inedito, dell’incidentale e dell’inaspettato. Le esperienze e le competenze che ne sono conseguite hanno fatto scuola e sono state prese a modello di generazione in generazione.
È una storia che non ho voluto mostrare come un andamento ordinato e schematico di singoli casi, ma piuttosto come un progressivo inseminarsi, germogliare e ramificarsi. È come l’enorme fronda di una pianta perenne, un albero in cui convivono e s’intrecciano stagioni e gemmazioni, vecchie e nuove foglie. Ho deciso pertanto di optare per un ordine diacronico, un editing di materiali che potesse indicare o suggerire le empatie e le affinità che legano e rendono organico il rapporto di imprese e generazioni diverse. Il mercato dell’arte contemporanea è sempre stato e resta a tutt’oggi dinamico, ricettivo, aperto alle novità. Deve possedere la capacità di fiutare e valorizzare i mutamenti del tempo e del gusto. E prefigurarli nelle sue scelte. Ma questo non è in fondo lo stesso obbiettivo che ha ispirato il lavoro di Bruno Grossetti e della sua galleria Annunciata, fondata nel 1939, oppure quello di Guido Le Noci deus ex-machina della galleria Apollinaire, nata nel 1954, e quello di Carlo e Renato Cardazzo della galleria Il Naviglio aperta nel 1946, o altrimenti di Carla Pellegrini della galleria Milano, subentrata a Enrico Somaré nel 1964? E non di meno, l’oggi non è forse imparentato con il lavoro di Arturo Schwarz, di Giorgio Marconi, di Franco Toselli, di Françoise Lambert, di Enzo Cannaviello, di Luciano Inga-Pin, di Claudio Guenzani o di Pasquale Leccese? Più ti addentri nella storia delle gallerie milanesi e più ti rendi conto che è un enorme corpus fatto di collegamenti diretti e indiretti, impossibile aspirare alla completezza di un quadro tanto ricco e mitico, nel quale, a ben vedere, esistono anche discendenze familiari, oppure gallerie che sono state generate da precedenti esperienze di lavoro presso altre gallerie.
Impossibile non vederle tutte interconnesse! In più, la riscoperta di immagini di Antonio Maniscalco, Giovanna Dal Magro, Enrico Cattaneo, Johnny Ricci e Annalisa Guidetti o di altri ancora, insieme con quelle già note di Ugo Mulas o di Giorgio Colombo, mi ha fatto volare con il pensiero. Infatti, quel pattern di suggestioni, ritratti, opening, performance e progetti d’artista, mi ha ricordato lo stile di una scena da sempre punteggiata di figure e situazioni iconiche, maniere personali e mode culturali, che ho voluto testimoniare in mostra. L’effetto estemporaneo che genera un’intera lunga parete di ingrandimenti, che incontra e si impasta con i colori della memoria, dà vita a una specie di passeggiata nello spaziotempo, che include in ordine libero omaggio ad alcuni scatti che, a mio parere, rendono immortale l’aura di Lucio Fontana, Piero Manzoni, Nanda Vigo, Gillo Dorfles, Man Ray, Bruno Munari, Louise Nevelson, Tommaso Trini, Giuseppe Chiari, Gino De Dominicis, Franco Toselli e Sol Lewitt, Franco Vaccari, Carla Pellegrini, Jane Birkin e Serge Gainsbourg, Getulio Alviani e Germana Marucelli, Pasquale Leccese e Alessandro Seno o Ivo Bonaccorsi, così come il mio incancellabile ricordo di alcuni opening di grandi artisti internazionali a Milano nelle gallerie di Giorgio Marconi, Franco Toselli, Emi Fontana, Claudio Guenzani, Francesca Kaufmann o Horatio Goni. Come una galleria dei nostri antenati del passato e trapassato prossimo, ribaltano nel presente alcuni dei contributi di sapere e di stile che hanno consolidato la fama di Milano nell’arte a partire dalla fine degli anni Sessanta. Le gallerie d’arte contemporanea come Lia Rumma, Massimo De Carlo, Cardi, Gia Marconi, Raffaella Cortese, KaufmannRepetto, Federico Vavassori, Francesca Minini, Martina Simeti, Fanta, Clima, Conceptual Fine Arts, Ciaccia Levi, M77, Peres Projects, Gregor Staiger, Renata Fabbri, Ribot, Zero e Vistamare Studio, che emblematizzano la scena milanese di oggi, sono state testimoniate in vetrine monografiche che ne documentavano scelte e orientamenti, e idealmente dialogavano con l’identità delle gallerie che le hanno precedute. Questi sono i nomi che hanno costituito MAC (Milano Art Community), per dare compattezza e risalto mediatico alle imprese e alle attività dedite in città all’arte contemporanea. Sono peraltro le gallerie private che hanno promosso il progetto “Archiviale_001”, contribuendo attivamente ad accendere i riflettori su una storia che merita senz’altro ulteriori, future indagini e attenzioni. Il mio auspicio è che la ricerca avviata con questa mostra dia origine ad altre mostre ancora, rassegne, incontri e convegni sul tema e così da raccogliere e acquisire nella loro completezza i dati e i materiali di una lunga, articolata e prestigiosa aspirazione alla ricerca, all’innovazione e all’internazionalità. Una volontà di evoluzione e di sapere che ha distinto e ancora distingue nel mondo questa città. Sono grata a Elena Bordignon e a Dora Casadio che mi hanno affiancata nel lavoro. A Flash Art, che ne ha curato l’art direction. A Gucci, per la sponsorizzazione. A Gianfranco Maraniello, direttore del Polo Museale Moderno e Contemporaneo di Milano, per l’ospitalità negli spazi del Museo del Novecento.