Sostegno, supporto, appiglio: elementi in legno sui quali poggiano pezzi di altri materiali, scocche agganciate a barre verticali, e poi ancora cornici in acciaio, vetri, saldature. La mostra personale “holds” di Niamh O’Malley evoca tutto ciò, ma allo stesso tempo va ben oltre i confini letterali che questo sostantivo suggerisce.
I suoi “quadri spaziali” – e con questi intendo sia le opere scultoree e video, sia il rapporto che esse intrattengono con lo spazio nel quale sono esposte –rilasciano infatti un senso di stabilità solo apparente che trova la sua cifra poetica nella proliferazione come tentativo di raggiungere qualcosa, nella reiterazione di un gesto, quasi alcune opere si stiano espandendo per piccole cristallizzazioni e germogliazioni progressive. Questi oggetti sono la risultante di azioni minime che “tengono insieme”: momenti di silenziosa coesistenza che evocano memorie infrante, rotture, ma anche episodi di un microcosmo paesaggistico e familiare che riemergono come frammenti. Sono sculture che risuonano a noi vicine per forme e materiali (legno, acciaio, vetro), ma allo stesso tempo aprono ad un vuoto riflessivo e potente dentro al quale esse fluttuano, tentando di catturare un angolo che sfugge, un soffio di luce o di aria, una pausa nello spazio, una percezione materica, ma anche attimi di memoria personale. Osservare le sue mostre – e questa non è da meno – è come stare dentro ad un paragrafo mentre si assiste alla costruzione o alla rievocazione di una frase, parola dopo parola. Se ne rintracciano raccordi tra fragili fonemi: forme, colori, materiali, eco, sensazioni al tatto e alla vista; ma anche immagini e riflessi che accarezzano superfici, e altre unità minime di questa lingua che si relaziona alla pagina bianca dello spazio espositivo.
È così che in “holds”, come ad enfatizzare un ritmo architettonico già esistente scandito dalle finestre della galleria, tre composizioni di vetro incorniciate da strutture in acciaio inossidabile si susseguono una dopo l’altra, assorbendo la luce naturale che di giorno proviene dal cortile. È un gioco di rimandi visivi e formali: la serie Held, arrangements (2025) sorregge infatti scorci di trasparenze tattili e materiche dentro le quali sostano precariamente elementi in foglia di rame e grafite, tra cenni di sovrapposizioni e inviti allusivi al tocco che riecheggiano anche un panorama velato dal tono nostalgico, un immaginario “ricucito” che richiama memorie domestiche. Questi tre dipinti scultorei invogliano a un passo cadenzato e riflettono sui valori letterali e metaforici dei loro materiali. Nell’uso quotidiano, il vetro e l’acciaio sono spesso utilizzati come barriera, riparo e supporto, trasmettendo un senso di cura nel loro “farsi sostegno” ed “essere sostenuti”. In galleria, essi evocano invece una certa mancanza: divengono sostegni parziali e precari, ripari violati, schegge fratturate e instabili. Inoltre, queste opere agiscono anche come punto di snodo all’interno del disegno espositivo della mostra, tese verso quella che sembra essere una linea d’orizzonte compositiva che Niamh spesso ricerca tanto nei singoli lavori quanto nella loro configurazione dentro lo spazio. E nonostante non sia un suo obiettivo “coreografare il pubblico in modo didattico”, le piace che “il lavoro provochi movimento.” […] “Penso sempre che esso si attivi davvero quando è in relazione con il corpo degli spettatori”1, afferma. Queste opere, anche grazie ad una certa familiarità legata all’uso di materiali non poi così lontani dal nostro quotidiano, aprono dunque ad una vicinanza dello sguardo e del corpo che espandono il nostro rapporto con l’oggetto e la sua forma, caricandoli di una trama di sensazioni aptiche.
Anche Holds, ash (2025) definisce una linea compositiva dentro la mostra, indirizzando lo sguardo verso un suggestivo orizzonte verticale. I tre elementi scultorei in legno di frassino levigato rivolgono la loro parte concava – quella che più “accoglie” – verso la parete, mentre i pali d’acciaio si estendono come steli che incorniciano lo spazio negativo del muro. Sul pavimento giace invece Leafs, folded (floor, pair) (2025), oggetto scultoreo composto da due coppie di lastre sottilissime di acciaio laminato a caldo, le cui pieghe affilate si sfiorano, fino ad incontrarsi. Muovendosi in un gioco di legami, queste forme
si “prendono cura a vicenda”; e mentre una sembra contenere l’altra, l’altra sembra un’estensione o una duplicazione di quella interna, ma entrambe si sostengono, come fossero origami dove piegature e angoli sono fissati in quell’istante che porta alla definizione di una nuova posa apparentemente rigida ma emotivamente sfuggevole. Punteggiano poi la galleria e l’ambiente soppalcato una serie di sculture che Niamh ha realizzato tra il 2023 e il 2025 utilizzando del vetro colorato smerigliato e del legno. Installate con un approccio che fa del posizionamento e della localizzazione delle forme nello spazio la sua cifra portante – in risposta anche alle connotazioni architettoniche della galleria, all’inclinazione della luce sui muri, etc. –, queste opere tracciano una grammatica espositiva precisa che offre momenti di legame ed equilibrio precario. A ripetersi negli assemblaggi scultorei è una serie di rimandi di matrice formale che, soprattutto nelle opere in vetro, si fa vitale ed estroflessa, alludendo di nuovo ad un processo di propagazione quasi biologico.
Chiude la mostra Garden (2013), video a doppio canale, muto e in bianco e nero, presentato su monitor orizzontali all’interno di una piccola stanza della galleria. Girato nel centro di Dublino nel giardino recintato di Niamh, questo lavoro restituisce una serie di immagini dove lo specchio non si presenta solo come una finestra sul reale, ma diviene al contempo soggetto e medium. Attraverso un montaggio dal ritmo pacato che si sovrappone e oscilla tra i due fotogrammi, la superficie degli specchi rinvia il nostro sguardo “all’esterno”, permettendo all’occhio di estendersi e di comporre un possibile ritratto del giardino che non viene mai afferrato nella sua interezza, in quanto la sua immagine (o meglio la sua immagine nell’immagine) si rinnova di continuo. Ciò che si riflette intimamente sulla superficie restituisce infatti parti del muro di recinzione, sbuffi di vegetazione rampicante, scorci di cielo e passaggi di nuvole, in quello che sembra uno sforzo senza fine anche qui per raggiungere qualcosa, ricomporre integrità infrante, o cercare di catturare una certa inclinazione della luce. “Penso che gran parte del mio lavoro riguardi il tentativo di avvicinarmi alle cose, diventando però alla fine più consapevole della distanza. O provare a creare qualcosa di immobile, che si sposta e scivola continuamente.”
Sorretto trasversalmente da mani che sembrano non possedere un corpo (se non in alcuni momenti nei quali si intravedono gambe o porzioni di busto), lo specchio funge da perno scenico del video. Esso si inclina a destra e a sinistra, in orizzontale e in verticale, orchestrando la nostra attenzione all’interno di una cornice specifica, un frame nel frame che rilascia e insieme trattiene – tentando di stabilizzarla – un’immagine nello spazio. A Niamh interessa, ancora una volta, l’ambiente circostante e i vari frammenti che Garden – come altre opere in mostra – è in grado di incasellare uno nell’altro, cercando di immobilizzare porzioni di un ambiente, superfici, scivolamenti, propagazioni, rimandi: tentativi di interezza falliti, proprio come succede alla memoria alle prese con i suoi funzionamenti. Stanza dentro una stanza circondata da un cortile con alte mura: non è un caso che l’artista abbia poi deciso di posizionare il video proprio in questo ambiente dove le pareti proteggono e negano la vista, come nel suo giardino. E non è un caso che abbia aperto il lucernario circolare: un gesto lieve che produce una piccola variazione di luce, direzionando il nostro essere corpo, farsi visione e memoria, nell’impossibilità di stare dentro una unità fortificata, poiché tutto risulta sempre fragile e precario. E anche quando le rivelazioni materiche cercano di rassicurarci nella loro familiarità, continuano a sfuggirci sempre.
Testo di Giovanna Manzotti