“Di Traverso” Galleria de’ Foscherari / Bologna di

di 14 Maggio 2025

Quando qualche mese fa iniziavo a immaginare questa mostra – spinto dal desiderio di mettere in relazione opere di artiste e artisti in alcuni casi così distanti – mi interrogavo sulle sue ragioni e sul modo di renderle esplicite prescindendo dalle corrispondenze visive e concettuali che via via apparivano, nell’avvicendarsi delle idee condivise e dei singoli lavori scelti. Tali ragioni, infatti, hanno certo a che fare con la specificità delle opere, ma anche con la condizione che ne determina l’esistenza, come una sorta di premessa attitudinale nei riguardi della pratica artistica e della sua ricezione. Definirla in senso stretto non è cosa semplice: una simile attitudine si potrebbe ritrovare in un’affinità con l’opacità, il silenzio e l’ambiguità, così come in un’attrazione per la leggerezza, il gioco e il paradosso. La dimensione poetica e immaginativa che ne deriva si colloca rispetto alla realtà, alla nostra esperienza e ai processi artistici stessi, in modo obliquo e diagonale; alla descrizione, all’intento dichiarativo, si preferiscono forme di posizionamento – ogni opera implica un posizionarsi – che ammiccano all’apertura di un campo di significati in divenire. Nella relazione opera-spettatore esso si manifesta, ci torneremo, sotto il segno della contraddizione, dello spaesamento, talvolta della provocazione. “Di traverso” è dunque quella formula che, nei suoi diversi utilizzi comuni, gergali e apparentemente banali, tenta di racchiudere le attitudini e le modalità operative alla base di questa mostra, descrivendone allo stesso tempo l’andamento. Un andamento non lineare che ora sento di poter descrivere in due momenti: uno stato di attesa e di sospensione da un lato; di attività, di trasformazione e di ludica ribellione dall’altro. Entrambi inevitabilmente legati, si manifestano nel nostro rapporto peculiare con le opere e la loro condizione di oggetti nello spazio. “Di traverso”, in fondo, è proprio una mostra di oggetti – allusivi, metaforici, animati, che ci interpellano in un dialogo il cui dispiegarsi contempla tanto liberi orizzonti quanto vicoli ciechi.

Impasse

Al centro della vetrina della galleria, a pochi passi dalla strada, è sospesa una struttura in legno alle cui estremità è installata una coppia di mani: una di fronte all’altra come allo specchio, si guardano mantenendo sempre la stessa posa. Si muovono in sincronia replicando all’infinito gesti uguali – sasso-sasso, carta-carta, forbice-forbice – in un eterno gioco senza esito risolutivo. Omissioni (2025) 1 di Eva Marisaldi apre la mostra presentando la configurazione di uno stallo paradossale; o meglio, mettendo in scena un’ipotesi statisticamente ai limiti del possibile. Quella di attivare piccole narrazioni insistendo su elementi nascosti, inconsueti e in apparenza minoritari del quotidiano è una delle linee di ricerca principali dell’artista, per la quale ogni dettaglio, ogni spunto – ogni fulminea apparizione allo sguardo – può diventare l’innesco di riflessioni sul reale, i contesti sociali e i processi comunicativi. In questo senso, Omissioni pare celebrare la stasi e la sospensione di una partita alla morra cinese senza vincitori né vinti; se da un lato la ripetizione innescata dal lavoro di Marisaldi, con una certa snervante ironia, ci spinge a restare in attesa di un esito che non arriverà mai, dall’altro ci induce ad accettare l’impasse e l’ambiguità di ciò che vediamo. «I can’t go on, I’ll go on», nota frase conclusiva de L’innominabile di Samuel Beckett, credo possa essere una buona traduzione per il nostro sguardo messo alla prova dall’opera. Attesa forzata, comunicazione interrotta: o forse, dimenticate le regole del gioco, un nuovo sistema di segni che, immancabilmente, non decifriamo.

[“Ricordi quel proverbio indiano? ‘Se avanzo muoio, se arretro muoio. Tanto vale avanzare”]

Entrati nello spazio espositivo con ancora in mente il contrarsi e l’estendersi delle mani progettate da Marisaldi – con la consueta e fondamentale collaborazione tecnica di Enrico Serotti – troviamo sulla sinistra una serie di elementi su cui lo stesso movimento parrebbe potersi applicare. Quattro quadri fissati a delle aste e appoggiati alla parete sembrano essere in attesa che qualcuno si faccia coraggio e li sollevi, portando questi bizzarri cartelli in strada, o su e giù per la galleria, come in qualche sorta di indefinita manifestazione politica. Indefinita perché il loro contenuto è quanto di più elusivo possa esserci, se si pensa alla funzione schiettamente comunicativa di un cartello: quelli di Luca Bertolo, i suoi Signs, nel tentativo non privo di ironia di alludere a una pittura disposta all’”uso”, sono assai eterogenei, ambigui e colmi di una «generosa vacuità»2. Nella fattispecie: un intenso monocromo grigio su tavola, una sorta di esercizio calligrafico con una “b” tracciata in corsivo su un piatto utilizzato come superficie pittorica, e due tele al cui centro – puntinata in un caso, posta su un finto foglio in trompel’oeil nell’altro – emerge la parola “No” (ma a che cosa?). Quale sia in questa serie la posta in gioco lo rivela il titolo stesso; come è noto “sign” in inglese significa cartello ma anche segno, termine che può suggerire una ideale linea di congiunzione tra arte e comunicazione. Ma più che un avvicinamento, ancora, le opere di Bertolo generano uno scontro, una dissonanza estetica, pratica e semiotica: capaci di suggerire un utilizzo, ma silenziose abbastanza per restare dei quadri. Che fare? Questi oggetti contraddittori confermano davanti allo spettatore uno stato di impasse e di attesa – di nuovo ci è richiesto uno sforzo cognitivo, prezzo da pagare per godere dell’ambiguità dell’inazione.

[“L’azione, certo! Agiamo, agiamo, ma è come se la m**** attorno a noi si rigenerasse più velocemente”]

Se si pensa al collidere di opposti, alla relazione con lo spettatore, a stati di sospensione e di attesa, la ricerca di Liliana Moro non può che assumere un ruolo centrale. Mi viene in mente una sua importante mostra del 2001 alla galleria Emi Fontana, “……….”. Titolo più che mai eloquente, rimanda non tanto a un’assenza quanto a una pausa, a una frattura feconda nel cui interstizio si innervano diramazioni di senso svuotate da costrizioni di significato e proiettate all’essenzialità dell’esperienza e della sua condivisione3. Il sé è un soggetto nomade (2025) pare davvero abitare l’interstizio immaginativo della pausa evocato oltre vent’anni prima. Per “Di traverso” l’artista presenta una composizione di diversi oggetti di piccole dimensioni, disposti in uno spazio che li sovrasta – siamo ancora costretti a uno sforzo, in questo caso ad avvicinarci e chinarci riducendo la distanza con l’opera. È un aspetto decisivo dei lavori di Moro, così come lo è l’elemento che rappresenta l’innesco di questo stimolo alla prossimità. Una borsetta dall’aspetto vintage emette il suono costante, distintamente percepibile, di una persona che russa: parrebbe un uomo, decade dunque la fantasiosa ipotesi di un autoritratto – ma si diceva che siamo liberi dalla costrizione del significato, quel che conta sono esperienza e attitudine.

[“Ci hai fatto caso? Non si parla quasi mai del sonno nei romanzi. Rappresenta quasi un terzo della nostra vita…Il sonno è un po’ come la felicità: non fa racconto”]

Attorno alla borsetta, completano la composizione dei ritagli da giornali metodicamente ordinati per comporre due mazzi di figurine e un blocchetto di cemento della stessa misura; infine, a illuminarli di sbieco in giallo vivo, una piccola torcia. Potrebbe sembrare un bizzarro kit di sopravvivenza – un’involontaria risposta a farsesche comunicazioni istituzionali degli ultimi tempi – o anche evocare un ideale nécessaire per un viaggio il cui itinerario non può che appartenere al territorio dell’interiorità. Il sé è un soggetto nomade contrappone un effetto di stasi tangibile alla suggestione di un movimento che ci è dato solo immaginare: l’opera si relaziona allo spettatore senza concedervisi del tutto. Si mette di traverso, ma è proprio nell’enfatizzare un senso di sospensione che si rivela a noi e alle fragilità del nostro presente.

Mettersi di traverso

Nella loro veste di oggetti, le opere di questa mostra attivano paradossi, stalli e contraddizioni, rivendicando la propria autonomia anche attraverso intuizioni narrative. Nella produzione scultorea di Enej Gala possono nascere dalla riconfigurazione di materiali, o proprio di oggetti a cui viene data nuova vita in senso giocoso e ad un tempo perturbante (Repaired Rear-View Mirror, 2019). Nutcracker (2024) invece deride e critica immaginari machisti in un ribaltamento satirico della novella dello Schiaccianoci. L’artista riporta il protagonista della storia – utensile tramutato in principe azzurro – alla sua veste originaria, trasformandolo però in una scultura a tenaglia che allude a una macabra funzionalità. La sua altezza circa a livello del pube, la base dove è possibile inserire i piedi e il titolo stesso, inteso gergalmente, invitano lo spettatore maschile a compiere un gesto di automutilazione. La scultura resta in attesa di essere attivata e la possibilità del suo uso, di una sua animazione, pare risiedere nel sottile ma provocatorio capovolgimento di retoriche fondative: solo i più coraggiosi riusciranno. Una vena più propriamente animistica costituisce l’impianto narrativo del lavoro presentato da Giuseppe De Mattia NOTA4. In Rivolta del primo oggetto (2025), l’artista immagina che un washboard – utensile per fare il bucato a mano, riadattato a strumento di percussione blues, jazz e cahun – si ribelli all’uso che gli esseri umani gli hanno nel tempo attribuito, compiendo un’azione di disturbo. L’oggetto – il cui fastidioso lamento metallico risuona nello spazio – piega instancabilmente centinaia di fogli replicando la propria forma fino a saturare il muro davanti a sé. Tra di essi ci sono anche alcuni bozzetti di De Mattia: ormai irrimediabilmente deformati dalla plissettatura coatta, i disegni raffigurano oggetti del desiderio come orologi, monete da collezione, auto, abiti. In filigrana, pare emergere una riflessione sull’accumulo compulsivo – forse, non è raro
per l’artista – anche in forma di ironica autocritica.

[“Conosci la storia del banchiere? Una volta un banchiere uscì di casa deciso a cambiare completamente vita. Si fermò un attimo davanti al portone della sua banca per un ultimo saluto. Un vaso di fiori gli cadde in testa e il banchiere morì”]

Del resto, spesso nel caso di De Mattia le opere sottendono forme indirette di autoritratto di volta in volta filtrate da differenti espedienti narrativi. Quello dell’oggetto in rivolta e il suo agire maniacale, ma anche impreciso e claudicante, se collocato nel contesto della ricerca recente dell’artista, non fa eccezione.

Di tanto in tanto nel testo compaiono dei virgolettati in corsivo: come le parentesi quadre lasciano intuire, queste bizzarre linee di dialogo non ne sono parte effettiva, eppure restano lì, disponibili al nostro sguardo come interpolazioni che possono alludere vagamente a ciò che le precede, a ciò che le segue, o a nulla. Le considero, ancora, come suggestioni in sospeso. Naturalmente non sono scritte di mio pugno, ma “rubate” da un libro d’artista dal titolo Ex – L’ordine del discorso realizzato nel 2010 da Luca Bertolo. Lavoro che ritengo a suo modo seminale – passato sottotraccia anche per via di una serie di vicissitudini – è consultabile in mostra all’interno di uno scomodo privé, lontano da occhi indiscreti. Si tratta di un’operazione di riscrittura integrale di un vecchio albo di Tex, sulle cui immagini l’artista è intervenuto in minima parte lasciandone inalterata la sequenza. Un detournement paradossale che vede i personaggi del famoso fumetto western alle prese con le loro più canoniche avventure, ma in una narrazione totalmente altra: intenti a discutere con inevitabile goffaggine di temi esistenziali, filosofici o politici, di attualità o di poesia. Una commedia dello straniamento che altro non fa se non reindirizzare lo sguardo sulle cose, rinegoziare il nostro rapporto con ciò di cui facciamo esperienza: forse con amara ironia, di certo con radicale leggerezza – come tutti i lavori di questa mostra.

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Enrico Camprini