È il profilo scuro e sinuoso di una carrozza d’epoca ad accoglierci nell’ampia mostra che il MAMbo dedica all’arte italiana dal Dopoguerra a oggi. Privo di cavalli e direzione apparente, questo antico mezzo di locomozione presenta un primo enigma alle nuove generazioni di visitatori che non hanno ancora incontrato tale opera-rebus, la cui soluzione ci aspetta dentro l’abitacolo: le forme lattee e traslucide di una mozzarella risaltano infatti nell’ambiente nero corvino delle sedute in pelle, rovesciando così l’aspettativa semantica del proprio titolo (Mozzarella in carrozza, 1968-1970).
L’opera di Gino De Dominicis è l’esempio di una strategia specifica nel fare arte: avere un’estrema fiducia nel pensiero paradossale come strumento di potenzialità, capace di dare forma e coraggio se non all’impossibile, almeno all’improbabile. E, in tale apertura, ripensare i limiti dell’ordinario. Davanti al paradosso, al nonsense, il nostro cervello – sempre in cerca di stabilità – tenta di normalizzare, di trovare senso dove una logica apparente non c’è. Così, nello spazio creato tra logica e reale, tra significante e significato, troviamo una definizione più ampia di paradosso, come strumento di pensiero, di riflessione, che ci accompagna verso nuove verità attraverso uno sforzo interpretativo. Ironia e paradosso hanno questo in comune. Seguendo la loro etimologia vediamo come entrambi siano strumenti per interrogare e ripensare l’opinione comune e, nel caso dell’ironia, ribaltarla attraverso un “sereno distacco dai limiti del reale”1. Le premesse racchiuse in questa opera riflettono così gli intenti dei curatori, interessati non a costruire una lista di autori capaci di strappare facili risate, ma nell’indagare le molteplici strategie paradossali di artiste e artisti italiani più interessati a usare l’ironia come strumento di critica e di conoscenza che di facile intrattenimento.
Risalta infatti nella mostra la sezione dedicata all’ironia come strumento di lotta femminista, dove una rilettura dei movimenti degli anni ’70 entra in dialogo con linguaggi contemporanei. Qui i toni rosati della Carta da parato (1976) di Tomaso Binga ci accolgono in una stanza dall’aspetto casalingo. Al suo interno riposa un abito di carta definito dagli stessi disegni, i cui motivi floreali sono interrotti dalla grafia rapida e asemantica dell’artista che, cancellando e incidendo, si riappropria di questo materiale per criticare la condizione femminile di soggetto-oggetto confinato ad ambienti domestici. Il rosa di Binga dialoga con l’azzurro scelto dall’artista Filippo Bisagni per l’allestimento della sezione, invertendo così la convenzione cromatica tradizionale associata al genere maschile. Questa delicata cromia diventa lo sfondo ideale per la pallida superfice opaca dell’uovo di Benni Bosetto che, appeso al soffitto sopra le teste dei visitatori, richiama con immediatezza la pala Montefeltro di Piero della Francesca. La liscia epidermide della ceramica è però interrotta alla base da un’apertura irregolare, un ano che aggiunge ai simboli di perfezione associati alla sua iconografia nuovi valori di corporeità (Gli Imbambolati, 2018).
Sotto lo sguardo costante ma distaccato dei piccioni fantasma di Maurizio Cattelan, appollaiati sulle travi e i cornicioni della sala delle Ciminiere (Ghost, 2021), continua l’allestimento di Bisagni che rende omaggio alla memoria di un altro fantasma, il progetto mai concluso e dismesso della ristrutturazione della sede attuale del MAMbo a opera di Aldo Rossi. Forme architettoniche sintetiche e colori vibranti recuperati da Rossi trasformano la sede espositiva in una città giocattolo, diventando cassa di risonanza estetica alle intenzioni curatoriali.
Così, nella sezione dedicata al gioco d’artista, le morbide luci giallognole filtrate da vinili alle finestre imbevono la tela grezza de Il grande rettile (1966) di Pino Pascali. Le sue forme zoomorfe e sintetiche sono retaggio di un linguaggio infantile che trova risonanza nelle geometrie colorate dei Libri illeggibili di Bruno Munari e di Lia Drei (Iperipotenusa, 1969), mentre le Quadrettature di Aldo Mondino indagano il potenziale pittorico dei disegni da colorare per bambini, offrendo così numerose occasioni per ripensare i limiti convenzionali dell’arte giocando, letteralmente, con le sue regole.
Ironia è anche giocare con le cornici che donano significato al loro contenuto, come ci ricorda l’humour di artisti come Salvo, il cui unico intervento nella documenta 5 fu pubblicare in catalogo il suo nome in maiuscolo (Il mio nome più grande degli altri, 1972). Al suo fianco ci conducono verso la conclusione due azioni tragiche e performative ripetute all’infinito. Da un lato il corpo al centro del video di Diego Perrone che, con una maschera digitale, ricrea con lineamenti tristi il simbolo della commedia italiana (Totò nudo, 2004). Nudo e impegnato in una capriola sgraziata, il simulacro digitale dell’attore mette in scena una cupa scena di slapstick comedy ripetuta in loop: un clown triste imprigionato dalla sua condizione di giullare.
Malinconico è anche lo sguardo della figura gonfiabile da concessionario di Davide Sgambaro che, a intervalli regolari, si anima riempito di aria andando a sbattere contro i confini troppo stretti dello spazio espositivo (Padre perdonali perché non sanno quello che fanno, 2025). La sua figura longilinea richiama la nostra attenzione non verso un luogo di commercio, ma verso la sua esistenza tragicomica, costretto a dover ripetere sempre le stesse azioni con il sorriso stampato sulla bocca. Quando il turno finisce, il getto d’aria s’interrompe e il corpo si accascia a terra senza vita, in attesa di ricominciare tale supplizio di Sisifo in poliestere, simbolo di un capitalismo vuoto e performativo.
Le opere in mostra presentano così l’immagine di un’ironia non sempre facile, a volte tragicomica, spesso impegnata. Tali scelte curatoriali possono scontrarsi con le aspettative di un pubblico curioso di trovare opere di giullari e buffoni dell’arte italiana, ora a confronto con molteplici sezioni, numerose decadi in esame e un allestimento da interpretare. Tali decisioni hanno merito di non aver ceduto ai facili appetiti degli spettatori, ma non la caratterizzano come la mostra esaustiva su tale argomento. Anzi. Una curatela che preferisce leggere l’ironia come strumento di conoscenza e critica rispetto alla semplice battuta è un’opportunità, un punto di partenza per future ricerche e riletture. Ma rimane ancora spazio per nuove risate.