In occasione della mostra personale di Andrea Magnani “45ª Sagra della Cipolla Rossa Piatta di Pedaso”, Flash Art Italia propone il testo critico di Matilde Galletti che accompagna il percorso espositivo.
Il 30 ottobre 1938 l’emittente radiofonica statunitense CBS, all’interno della trasmissione Mercury Theatre on the Air, che proponeva letture di romanzi celebri, decise di trasmettere La guerra dei mondi dello scrittore britannico Herbert George Wells. Si definì, però, di adattare il libro e mandarlo in onda nel corso di un programma musicale serale che cominciava alle 20.00, ambientandolo nel presente e negli Stati Uniti. Regista e produttore del programma, nonché interprete dello stesso, fu Orson Welles, allora ventitreenne, che optò di presentare la lettura radiofonica del libro sottoforma di notiziario dal vivo, le cui news, in tempo reale, interrompevano la trasmissione musicale per rendere la cronaca immediata di un attacco alieno alla Terra, con uno sbarco in New Jersey di esseri venuti dallo spazio. Sebbene si fosse prossimi a Halloween, non si trattava di uno scherzo, ma di una operazione in cui si tentò di rendere il racconto più verosimile possibile. Tra finti giornalisti inviati sul posto e grida di terrore che accompagnavano la cronaca in diretta, l’adattamento risulta così credibile da creare scalpore e scompiglio. La mattina successiva, la prima pagina di molti quotidiani riportava la notizia di questa messa in scena e dello scompiglio che aveva creato. In quel momento, la radio, come mezzo di comunicazione di massa, era in fondo ancora agli albori e solo allora cominciava a essere diffusa in tutte le case. Per chi ascoltò la trasmissione quella sera, fu scioccante sentire di un’invasione aliena in diretta: la prima fake news della storia dei media moderni.
Passando per decenni di storia e cambiamenti tecnologici e di pervasività dei mezzi di informazione, il dibattito su verità e finzione1 e la questione della veridicità delle informazioni, della loro attendibilità e della loro manipolazione è diventata cruciale. In Italia, alla metà degli anni Novanta, il caso delle beffe e dei falsi casi generati dal collettivo Luther Blisett fu esemplare, epocale.
La questione centrale, accanto all’impoverimento culturale diffuso che produce una deriva per la quale cui gran parte della società si affida ciecamente a una narrazione esterna della cui verifica di veridicità non sembra essere interessata, per pigrizia e ignoranza, è la mancanza di attenzione che si pone nell’osservazione delle cose, del mondo, dell’altro. Uno sguardo critico, consapevole si attiva per mezzo di capacità di analisi e confronto, grazie a esperienza e conoscenza mediate dall’osservazione, grazie alla cultura.
L’attivazione di uno sguardo complesso e stratificato è una parte centrale della ricerca artistica di Andrea Magnani. A sua disposizione ogni tipo di medium che un artista può usare: dalla pittura alla scultura, performance, fotografia, installazione, non c’è mezzo che Magnani non abbia utilizzato per mettere in atto i suoi meccanismi scenici. Con questi mezzi ha dato forma a situazioni plausibili che simulano contesti reali, pur non entrando nella dimensione di utilizzo del ready-made ma piuttosto ricreandone l’utilizzo. Perhaps Empire (2018) è un ambiente performativo in cui ogni dettaglio è convincente: che sia una scaffalatura in stile razionalista o un mobile di design, sempre della prima metà del Novecento, tutto è stato meticolosamente costruito da zero dall’artista per dare forma a
un ambiente che non sembra avere al suo interno alcuna dichiarazione di uno stato d’arte in atto. Questo si scopre solo quando lo spazio viene attivato per mezzo di una performance che mette in scena un gioco di ruolo, generando così una scatola ciese di rappresentazioni. In La Terrasse (2019), l’artista crea un ambiente totalmente fittizio, che carica di un’atmosfera a metà strada tra dimensioni ctonie e un glitch spazio temporale, per mezzo della presenza di un registratore di cassa – poggiato su un tavolo da bar con su la tovaglia con il ricamo La Terrasse, il nome del bar – che trasmette oracoli o la presenza di Magno, una identità artistica che tornerà anche in altre occasioni, la cui esistenza reale è al contempo messa in dubbio e avallata da diversi dispositivi come lettere autografe o ritagli di giornale. Anche in questo caso è prevista un’attivazione che può far slittare la percezione e il significato dell’insieme degli agenti scenici.
“Nei suoi ambienti meticolosamente costruiti lo spettatore è circondato da una realtà distillata in cui oggetti conturbanti ma familiari allo stesso tempo, partecipano a un sensuale equilibrio. Che si tratti di disegni illeggibili, falsi ready-made o performance non spettacolari, il dialogo interno tra le parti che compongono l’opera, evoca sentimenti non verbalizzabili”2. Dunque lo spettatore, se in un primo momento si trova di fronte uno scenario del tutto verosimile, con uno sguardo prolungato e ampio riesce a rilevare micro frizioni che dovrebbero sollecitare l’attenzione e le percezioni che portano a situare tutto l’ambiente in una sorta di meta-realtà poco confortevole e grottesca. Come
in uno scenario da ‘mockumentary’, dove dei setting finzionali imitano la forma del documentario per raccontare fatti o eventi inesistenti, resi a volte con un sottile taglio ironico.
Nella “45ª Sagra della Cipolla Rossa Piatta di Pedaso” lo scenario è costruito all’interno di una villa di inizio Novecento, utilizzando sia gli spazi del giardino che il primo piano. Il titolo adotta volutamente il lessico popolare delle feste di paese, celando però una volontà critica che scardina i codici della narrazione e mette in discussione l’adesione automatica a ciò che viene percepito come reale. Il progetto prende avvio da un ricordo sensoriale dell’infanzia dell’artista: le sagre estive percepite a distanza, ascoltate dal balcone di casa come presenze lievi e spettrali, orchestre lontane che riempivano l’aria.
La scena che si apre agli occhi dello spettatore è quella di un luogo dove è accaduto qualcosa, dove ci sono segnali da ‘giorno dopo’: due tavolini da bar spaiati collocati su un palco che, in passato, ha ospitato concerti di cantanti come Mina, due tavoli da birreria, con sedie bianche di plastica monoblocco, nel mezzo della pista da ballo con sopra delle tovagliette che pubblicizzano un evento passato ma che sembra essere in corso. Salendo la scalinata che porta all’ingresso rialzato della villa, si intravede, dalla persiana di una finestra, una mano che distribuisce ciotole di zuppa di cipolla, che saranno consumate sui tavoli della pista da ballo. Superato il portone d’accesso, la scena di abbandono non cambia: l’interno della villa è lo stesso di altri spazi simili, che hanno vissuto glorie nel passato ma per i quali non c’è stata la forza di mantenere un presente. All’ingresso un disegno
incorniciato, che sembra sia stato dimenticato lì dopo lo smontaggio di qualche mostra passata. La cornice è di ottima fattura e, assieme al disegno in essa contenuto, ricorda, a chi ne ha memoria, l’Erased De Kooning Drawing di Robert Rauschenberg del 1953. È un’opera di Magdalenu Marcu (Magno), forse sarà stata sua la mostra di cui si sono dimenticati di portare via un pezzo.
Al secondo piano, il clima di trascuratezza prosegue, e, girando nelle stanze lasciate andare, con persiane chiuse e segni ovunque, sui muri, di eventi passati, si incontrano un grande quadro notturno, ctonio, spettrale, con un “torpido cielo nero […] chiazzato di una luce verdognola come un livido”3 sopra un campo di fiori di cipolla. Nella stanza accanto, più che altro un largo corridoio, illuminato da un fascio di luce che proviene dall’immensa finestra delle scale, uno stendino, o quasi, con sopra lasciata ad asciugare una serie di asciugamani, con ogni probabilità appartenenti alla villa, che presentano le sigle DV, le stesse che sono anche sulla balaustra di ferro davanti al portone di ingresso. Questo ambiente si conclude con una pannellatura di legno che blocca l’accesso alla stanza successiva ma che lascia intravedere, in alto, lo spazio all’interno illuminato dall’unica finestra aperta in quel piano. Da qui parte un rumore impreciso, in cui si coglie il respiro di una fisarmonica. Torniamo fuori, il respiro della fisarmonica diventa intenso e si trasforma in suono, in una musica dimenticata e dolce ma anche spettrale, che riempie l’aria con un leggero riverbero, come se suonasse in una chiesa, e che fa muovere i tavolini sul palco in una coreografia meccanica.
Il pubblico mangia la zuppa seduto ai tavoli da birreria, qualcuno è in piedi e osserva la scena. La musica si interrompe bruscamente, nell’aria solo un lieve ronzio, come quello che resta nelle orecchie dopo un concerto molto rumoroso: i tavoli, con attorno i commensali, cominciano a scendere lentamente da un lato.
Più che in altre situazioni, in questa Andrea Magnani si spinge oltre per attivare la percezione dello spettatore e tenerlo a un livello di attenzione alto. Con una differenza però da quelle che Nicolò Porcelluzzi e Ivan Carozzi in Frigo!!!4 definiscono “trappole dell’attenzione” ovvero superficiali intrattenimenti facili “che offrono un modello superficiale, legato alla facies, alla faccia più esterna e materiale”5. In campo viene messa non solo la dimensione della costruzione di una realtà fittizia in cui tutto è stato realizzato da zero dall’artista, tavoli, tavolini, stendino, disegno, quadro, dei “fake ready-made”, che sono, in fin dei conti, delle sculture, ma si disegna anche, attraverso la drammaturgia della performance, l’apertura a un sentimento dolce e divertito che chiede
di osservare, perché spesso nulla è come sembra e ogni cosa, a uno sguardo più attento, può
spostarci dall’ovvio e ottuso verso aspetti possibilistici e visioni complesse. La realtà non è solida e inequivocabile, ma un regno di stupore e stranezza6.




