Educare all’immaginazione, l’ecosistema IED. Intervista a Danilo Venturi di

di 15 Luglio 2025

Danilo Venturi non è soltanto un direttore. È un pensatore critico della moda e del design, un autore e un intellettuale capace di mettere in discussione l’identità stessa dell’educazione creativa. Dopo anni alla guida di Polimoda e poi di IED Firenze, oggi conduce IED Milano con una visione che va oltre la didattica: trasformare l’istituzione in una piattaforma culturale, urbana, politica. Una scuola che non si limita a formare professionisti, ma che vuole generare immaginari, cittadinanza attiva, cultura progettuale.
Con lui parliamo di futuro, di scuola, di tensione tra forma e contenuto.

Cristiano Seganfreddo: Dopo Polimoda e IED Firenze, ora sei alla guida di IED Milano. Che significato ha per te questo nuovo passaggio, in una delle città più complesse e creative d’Europa?
Danilo Venturi: A Firenze ho acquisito le chiavi dei codici umanistici, che ho poi applicato a discipline come la moda. Milano, invece, è una città-megafono, tutto dipende da cosa le urli dentro. È un luogo che amplifica, e per farlo serve un certo grado di contemporaneità, la consapevolezza che la creatività non genera bellezza, bensì significato. Vedi, la società di oggi è molto fragile, con vocals ed emoji siamo regrediti alla trasmissione orale e geroglifica della conoscenza. Ma senza significato rischiamo l’estinzione in vita, che è più devastante dell’estinzione biologica.

CS: In che modo il tuo percorso personale e professionale sta influenzando la nuova identità di IED Milano?
DV: Il mio percorso non è lineare. Ho studiato Scienze Politiche, ho lavorato nella musica, nella moda, nella scuola, e ogni volta ho seguito ciò che mi sembrava più vivo. Un filo conduttore, però, c’è sempre stato: produrre e condividere significato. Rimanere all’università per me non era economicamente sostenibile, ma eccomi a dirigere scuole. Questo percorso irregolare mi ha portato naturalmente alla multidisciplinarietà, non solo come metodo ma come sostanza. E credo che il mio metissaggio dei linguaggi creativi sia già percepibile anche in IED Milano.

CS: Stai riscrivendo le regole dell’Istituto, tra didattica, visione culturale e relazioni con il territorio: da dove sei partito?
DV: In IED non si riscrivono le regole da soli. Non c’è spazio per i “one man show”. È una comunità di teste pensanti, dove ogni idea viene discussa prima di essere accolta. E all’interno di questo ecosistema, io mi sono inserito come agente di cambiamento. Ho subito condiviso la mia visione con il team per costruire coesione attorno a un progetto orientato all’apertura verso una dimensione internazionale, e verso i grandi protagonisti del mondo creativo. In fondo, questa era già la direzione dello IED di Morelli, il fondatore. Andava solo riattualizzata.

CS: Moda, arte, design. Sono mondi che abitualmente dialogano, ma raramente si integrano davvero. Qual è il tuo metodo per tenerli insieme?
DV: “When Attitudes Become Form” è per me il manifesto di questo rapporto a tre, difficile, ma non impossibile. Ultimamente sono colpito da Joana Vasconcelos perché i suoi lavori includono istanze sociali come il rapporto tra locale e globale. Formafantasma è un altro esempio.
Certo, capisco cosa dici, queste sono eccezioni, mentre più facilmente vediamo collaborazioni eccellenti che però finiscono lì. Il segreto sta nel mescolare i codici alla fonte e a scuola non ci sono esigenze commerciali, per cui la sperimentazione è ancora possibile.

CS: IED può essere oggi più di una scuola? Può diventare un laboratorio urbano, un centro di produzione culturale, un dispositivo di cambiamento?
DV: Si, ma l’istruzione non basta più. Dare istruzioni significa spiegare, da manuale, come si fa qualcosa. Homo faber, Novecento. Andare oltre questa logica significa dare spazio al homo ludens, all’immaginazione, all’intuizione, a quell’errore che ad un certo punto entra consapevolmente a far parte di un progetto. Gli studenti devono poter creare già a scuola il loro futuro. Ciò di cui parlo non è educazione – che spetta alla famiglia – né tantomeno informazione, che implica una ricezione passiva. La scuola deve essere un’esperienza attiva.

CS: Quali sono le nuove priorità di una scuola creativa nel 2025?
DV: La creatività si nutre di diversità. Perciò, le scuole creative devono opporsi con forza ai venti di paura e intolleranza che soffiano sempre più forti. Nel 2025 ci ritroviamo a dover ribadire ciò che pensavamo fosse acquisito: è fondamentale attrarre studenti stranieri e far sì che studino e progettino insieme ai nostri. Non è una questione di marketing – attrattività. È una questione di contenuti – attrazione. A seconda di cosa facciamo, con chi, qual è il messaggio e come impattiamo sul mondo, possiamo superare la barriera della fuffa, oppure no.

CS: Che tipo di studente arriva oggi a IED Milano? E cosa ti sorprende di più di questa nuova generazione?
DV: Cambiano a seconda che studino Moda, Arti Visive, Design, Cinema o Comunicazione, ma tutti hanno in comune l’appartenenza alla Generazione Z. Sono in netta discontinuità rispetto ai Millennial che li hanno preceduti, per questo l’industria non li ha ancora capiti. I Millennial sono figli dei Baby Boomer, mentre la Generazione Z è figlia della Generazione X, la mia. La cosa più difficile da comprendere è il loro disinteresse verso i valori competitivi, a favore di un senso di comunità entro cui preferiscono muoversi. Ma è anche la più sorprendente.

CS: Che spazio ha oggi la radicalità nella formazione? Esiste ancora una tensione verso la sperimentazione profonda?
DV: Gli studenti di oggi non hanno visto il mondo prima della caduta del Muro di Berlino. Non hanno vissuto le ideologie politiche, né quelle commerciali. Il che si traduce, per esempio, nell’assenza di total look nella moda, a favore di un gusto per il mix and match – nuovo e vecchio, alto e basso di gamma, mainstream e alternativo, locale ed esotico – o per il remix. Capisci anche tu che così questi ragazzi diventano una tela bianca. Non serve radicalizzare nulla per sperimentare: basta lasciarli liberi di esprimersi come vogliono.

CS: In che modo IED Milano sta ridefinendo il proprio rapporto con l’impresa, il sistema moda e il mondo del design italiano e internazionale?
DV: Il mondo di domani sarà molto diverso, e il cambiamento sarà rapido. Con l’innovazione
tecnologica, l’intelligenza artificiale, e la sua automazione, non sarà più la tecnica ma il quoziente creativo, intellettuale, e culturale di una persona a fare la differenza. Credo allora che la scuola non possa limitarsi a insegnare la tecnica e che l’industria dovrebbe commissionare alla scuola anche qualche tema libero per vedere cosa suggeriscono gli studenti. Poi magari un giorno ci vediamo e leggiamo Marco Aurelio tutti insieme.

CS: Parli spesso di responsabilità, non solo di creatività. Che ruolo può avere una scuola nel formare cittadini, oltre che professionisti?
DV: In una scuola internazionale si impara a stare insieme agli altri, nonostante le differenze. Da noi si fa ampio uso di materiali, perciò si impara anche a farne a meno, a limitarne l’uso, a riutilizzare quelli esistenti o a preferire materiali riciclati. In una scuola di design, il progetto è centrale: è attraverso un progetto interamente ideato e realizzato che si comprende davvero il suo impatto sulle persone e sul mondo. Ma frequentare una scuola, andarci ogni mattina, studiare e impegnarsi per farcela è già, di per sé, un’assunzione di responsabilità.

CS: Qual è oggi il ruolo dell’istituzione formativa nella costruzione del pensiero critico e nella difesa della cultura?
DV: La scuola è un organismo: cresce, evolve, si trasforma. Non conserva la cultura, la genera. Cambia con ogni generazione di studenti e con lo spirito del tempo. Da qui, il continuo ripensamento. Ad esempio, oggi si fotografa con tutto, dallo smartphone alla camera oscura. A contare non è più tanto l’atto del fotografare quanto il soggetto fotografico, espressione di una tensione etica ed estetica. È qui entra in gioco il pensiero critico: in ciò che si può o non si può, si vuole o si deve mostrare. Un corso di fotografia oggi è antropologia culturale.

CS: Se dovessi sintetizzare oggi la tua missione a IED Milano con una frase, quale sarebbe?
DV: Produrre e condividere significato.

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