Tra le vie del centro storico di Roma, nel bel cortile di Palazzo Ruspoli in via della Fontanella di Borghese 56/b, la Fondazione Memmo ospita la mostra “Soft you” dell’artista Anthea Hamilton, a cura di Alessio Antoniolli.
La vivida luce solare che filtra dalle grandi vetrate conduce i visitatori verso un’ambientazione di rarefatta intensità, originalmente coinvolgente, la cui prima percezione non è visiva, ma olfattiva.
Sottili note aromatiche di menta, liquirizia e lavanda si diffondono nelle grandi stanze, serpeggiando fra le opere come un respiro lieve e fresco. Ovunque, appesi a parete, adagiati a terra, bastoncini di incenso su rami di corylus contorta compongono l’opera Cold, Cold heart (2022) realizzata in collaborazione con Ezra Lloyd Jackson, designer olfattivo e direttore creativo di deya.
Ma la sensazione olfattiva è solo uno dei molteplici elementi che definiscono la libera sperimentazione di Hamilton e così, come l’Ivàn Jakovlèviè di Gogol’, occorre raccogliere il naso e nasconderselo in tasca1.
In “Soft you”, infatti, design, artigianato, moda, fotografia e scultura si mescolano e si contaminano tra loro, realizzando una scenografia bizzarra abitata da figure e oggetti ambigui, il cui insieme mette in discussione il loro processo semiotico.
Fra gli attori di questa complessa ambientazione si riconoscono nelle fotografie di Tanguy Poujol, i tre performer di Othello: A Play, lo spettacolo messo in scena da Anthea Hamilton e Delphine Gaborit al De Singel di Anversa nel 2024. I loro volti, le loro mani, i loro corpi si muovono in uno spazio scenico in cui il tempo è sospeso, esattamente come suggerito dalla frase pronunciata da Otello nell’ultima scena della tragedia shakespeariana e che, poi, dà il titolo alla mostra. Soft you; a word or two before you go2/ Aspetta, una parola o due prima che tu vada: un metodo, dunque, per Hamilton, di invitarci ad attendere e rivalutare i nostri parametri interpretativi consueti.
Potente e solo apparentemente immediato anche l’incontro con i Shibari Chefs, manichini in fibra di vetro legati con corda di iuta secondo l’omonima tecnica giapponese, ove il gesto del legare non è costrizione, piuttosto relazione e sostegno. La stessa tensione è presente anche nell’opera Shibari Desk (2025) – realizzata in collaborazione con Alice Rivalta e Pietroarco Franchetti -, una scrivania in legno decorato con l’antica tecnica giapponese Rankaku (mosaico realizzato con frammenti di gusci di uova di quaglia e lacca), e assemblata con corda in iuta che sorregge e sostiene l’intera struttura come fosse un corpo, in cui la materia si piega alla relazione e la funzione dell’oggetto si dissolve. Allo stesso modo Metal Screen (2025) – serie di paraventi riflettenti in metallo che disarticola lo spazio – e Leg Chair (Rankaku)(2025) – sedia in plexiglass, ottone e legno, realizzata riproducendo le gambe dell’artista – sono oggetti liminali tra design e scultura, tra consueto e perturbante, tra erotico e beffardo, che danno vita ad accoppiamenti giudiziosi e anti-identitari, animando lo spazio scenico e offrendosi come dispositivi relazionali e performativi.
Il motivo delle gambe è ricorrente nella produzione artistica di Hamilton fin dai suoi primi lavori e, qui, ritorna nell’opera site-specific Calzedonia (Hot Legs) (2025). Una successione di lunghe gambe in silhouette sembra muoversi ordinatamente lungo il perimetro della stanza, richiamando alla mente l’iconica fotografia del 1957 di una sfilata di calze di Schiaparelli. Le gambe di Hamilton sembrano indossare curiosi collant colorati, realizzati in denim, velluto, vinile, legno, plexiglass, pastelli e vernice spray o decorate con fiori di metallo. Alludendo ironicamente e criticamente alla nota catena di negozi – di cui uno si trova proprio a due passi dalla Fondazione Memmo – Hamilton combina audacemente materiali e colori, collocando le sue hot legs fra antiche mura romane tratteggiate nei laterizi colore rosa, disegnate sulle pareti con la spontaneità di uno schizzo incompiuto. Le legs, modulo seriale e seduttivo, si offrono come fregio di una femminilità vendibile e feticizzata, ma nel loro incedere meccanico e decorativo celano una critica sottile e radicale, una denuncia contro la reiterazione ossessiva del desiderio come pattern sociale, contro l’estetica normata e commerciale del corpo femminile.
Da questo registro visivo, la pratica di Hamilton deflagra in parossismi di gioco e di rivolta, dove l’ironia e la sensualità convivono con una consapevolezza acuminata della costruzione culturale del genere, del corpo e del desiderio.
Nella stessa complessità si inserisce anche Transposed Lime Waves (2025), una farfalla realizzata in cotone panama biologico stampato digitalmente, acciaio inossidabile e spilli, dall’effetto pixelato, che sembra fondere trame computazionali e suggestioni biologiche. La farfalla, femminile e postorganica, è l’immagine stessa di un organismo in perenne trasformazione che evoca transiti di identità e nuovi codici relazionali.
Quale teatro di oggetti, materiali e relazioni, quindi, le opere di Anthea Hamilton solleticano i parametri percettivi ed emotivi del visitatore. La stessa città di Roma, con la sua sedimentazione millenaria, con la quale l’artista si relaziona in profondità nel realizzare la mostra, diventa un dispositivo di rilettura, uno sfondo poroso e vivo in cui l’archeologia si intreccia con il desiderio di trasformazione.
“Soft you” è allora l’invito ad assumere una postura etica, un’attitudine estetica alla permeabilità, alla cura, alla sospensione. È la forma che prende il tempo quando si sottrae alla semiosi dominante.





