La sostanza vischiosa delle cose: Nicola Genovese di

di 22 Luglio 2025

Prima ancora che inizi “Desireless”1 ricevo il testo critico sotto forma di questionario a risposta multipla2. Età, istruzione, sesso, genere, orientamento sessuale, classe sociale; mi chiedono anche la definizione stessa di opera d’arte, di Commedia dell’arte e di kitsch. Neanche il tempo di rifletterci che iniziano i 110 minuti di performance. Dustin Kenel, Magda Drozd (Sopraterra), Dauen Park, Maria Sabato, Thembeka Sincuba e They Die (band goth rock) affiancano la scenografia composta di luci, ombre, una macchina del fumo e altri oggetti di scena. Tra teatro sperimentale e performance, il palcoscenico va in stand-by, lasciando spazio allo stato ambientale delle cose.

Seguo la narrazione in sala. Un CEO di una corporation digitale presenta un nuovo prodotto WARP che promette di dissolvere sentimenti come la nostalgia per il passato e l’ansia per il futuro. Il fumo mi ricorda l’annebbiamento da iperstimolazione – che era una delle possibilità di risposta elencante nel questionario – e sugli schermi in stage ci sono simboli dell’era post-capitalista. Il fuoco della Tesla ci trasporta nel doom contemporaneo in bilico tra desiderio e disperazione. Quello che si prospetta velocemente quindi è uno scenario post-apocalittico instabile e mutageno, con metropoli prive della presenza umana e disseminate degli scheletri dei suoi prodotti. Un ecosistema discarica, un inferno tecnocratico; ambientazione grottesca che Genovese rievoca anche attraverso le sperimentazioni elettro-acustiche con la musicista Magda Drozd del duo musicale Sopraterra. Suoni post-rock, shoegaze, psichedelici – che si ispirano all’Ars Nova medievale alla musica barocca e influenze drone e ambient – che appartengono a una percezione estemporanea: tra un passato ancestrale, da cui riemergono gli archetipi, i miti e una memoria collettiva, e un futuro in cui si affaccia un’era digitale e post-umana, in cui è sempre in azione il complesso legame umano-macchina.

Realizzo che “Desireless” è la manifestazione di una disperazione collettiva; evidente anche nei protagonisti dei video, che piangono, cercano aiuto confessando un senso di inadeguatezza e disagio. In questa presa di coscienza, immersi nel fumo e nel buio della sala, abbandoniamo momentaneamente i confini dei nostri corpi per espanderci nello spazio, provando a raggiungere la figurazione di un futuro diverso, dissolti nella collettività.

Centrali, in questa prospettiva, sono le problematicità nate dalla tensione tra speranza nel progresso e paura della tecnologia. Ricordi, sogni ed esistenzialismo sono attraversati con apparente semplice ironia da Genovese. In realtà la parodia è l’inquietante spia di una più ampia riflessione sulla società odierna, l’avanzamento tecnologico e il mondo dei social media. Il registro tragicomico adottato gioca e insieme disorienta lo spettatore, portandolo a riconsiderare lo scorrere del quotidiano. Se in un primo momento i protagonisti delle sue storie sembrano essere prigionieri del copione, delle loro vite e delle loro stesse creazioni, quel che emerge alla fine è la volontà di una rivoluzione. Quelli di Nicola Genovese sono corpi che sfuggono al loro destino biologico e che si ribellano, forti delle loro fragilità. In questo elogio alla vulnerabilità3, legato a una sessualità smitizzata, si intromette una stratificazione barocca dei media: oggetti funerei, come Tinnitus*1 (2022), 24/7 decay: Hommage to Jacques Callot (2023), Blacklash o The Sacred Son (2025), in marmo e metallo: una lapide di una persona ricordata per i pettorali. Ma anche sculture e oggetti che rimandano all’estetica Queer, BDSM e Camp: manette in ecopelle, fiocchi, lacci, biglie in metallo che ricordano i piercing, come in Snack (2022) o The Sacred Son (2025), catene, come in Butterflies (2023) e Vandelized Guts (2025). Il kitsch nell’immaginario di Genovese diviene una forma di autoaffermazione. Le sculture sono perlopiù appese, discendono verso il basso, a ricordare una forma di decadenza ineluttabile, o un prolungamento del corpo; come quelli che costituiscono Something That Scratches Your Skin (2023), di cui fa parte il braccio-mietitrice o la testa-calzare. Ma anche Paravent (2023), una panca-scultura portata in giro nello spazio da Genovese e i performer, a ricordarci la luce del telefono a cui siamo costantemente sottoposti.
Gli oggetti reclamano la loro indipendenza.

Il registro narrativo in “Desireless” modella un tempo non-lineare e ciclico, che si interrompe, rallenta e accellera, tentando di riprodurre l’intreccio confuso e disordinato del pensiero. Tutto è in divenire: le scene si ripetono, le riprese tremano, la musica irrompe, le parole e il labiale degli attori sono fuori sincrono. L’artista decostruisce, sovrappone, tralascia, salta, mescola. Dal vivo riesce finalmente a inscenare la possibilità-impossibilità della visione, oscillando tra il reale e il fittizio, e scomponendo l’esperienza visiva. Genovese gioca sull’artificialità dello scontato, caratteristica che nei video è esasperata dalla scelta di ambienti bucolici, – modificati da filtri che ne esasperano le espressioni, e dalla qualità volutamente low-fi degli stessi – e dall’impiego di un cast amatoriale che fa apparire tutto più spontaneo e improvvisato.

In “Desireless” siamo tante cose e nessuna di queste, Sarte scriveva: «gettate dell’acqua in terra: scorre. Gettate una sostanza vischiosa: si dilata, si appiattisce, s’affloscia, è molle; toccate il vischioso, non sfugge, cede. Nell’inafferrabilità stessa dell’acqua c’è una specie di durezza spietata che le dà quasi un senso segreto di metallo: in definitiva, essa è incomprimibile come l’acciaio. Il vischioso è comprimibile»4.
Definiti da ciò che non siamo, dalla riluttanza a essere classificati, e dalla nostra singolarità, mi accingo all’ultima domanda del questionario: sul concetto di eternità. “Credo che nessuna delle opzioni precedenti esista” sembra essere la casella più adatta da barrare.

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Eugenia Pacelli