La città che immaginiamo di ,

di , 6 Agosto 2025

Non mi ricordo più quando io e Golrokh Nafisi siamo state invitate a partecipare alla mostra “Undomesticated Ground” a Centrale Fies. Probabilmente era la fine dell’anno scorso o l’inizio di quest’anno, e sicuramente la mostra curata da Barbara Boninsegna e Simone Frangi non aveva ancora una titolazione. Comunque l’invito era di ritirare fuori quella che era stata una parte del lavoro performativo The City We Imagine concepito in occasione dell’edizione di Live Works del 2020-2021, durante la pandemia. Anche allora il lavoro era stato concepito sulla distanza. Quando quest’anno abbiamo accettato l’invito, sapevamo già di dover fare i conti con il tempo e gli eventi trascorsi dalla sua realizzazione, sentivamo il lavoro come estremamente attuale per certi versi, ma l’anatomia del genocidio in corso ne richiedeva una revisione più accurata. Nel frattempo, dal 13 al 25 giugno, nel nome di “attacco preventivo” lo stato criminale d’Israele bombarda l’Iran, mentre impone un coprifuoco sulla Cisgiordania, e perpetua impunitamente il massacro a Gaza, impedendo l’ingresso di qualunque bene primario. Golrokh era a Teheran, e questo testo che leggerete è stato scritto sulla voragine che questi 12 giorni hanno creato, su questa distanza incolmabile che le bombe provocano, e sulle crepe su cui le bombe cadono, con la rabbia che ci portiamo dietro ormai da quasi due anni. Il testo è stato scritto per essere letto al pubblico il 17 luglio 2025, durante l’opening della mostra.

Il lavoro che vedete alle nostre spalle voleva essere l’immaginazione di un’utopia.
Ispirato da tutte le città in cui siamo state,
i nostri corpi segnati dai ricordi delle loro strade e dei loro odori.

Dalle coste vicine al Mediterraneo
alle città incastonate tra colline, montagne e fiumi,
abbiamo portato con noi un pezzo di ognuna.

Quell’estate dovevamo sognare insieme questa città,
al festival Live Works a Centrale Fies.
Ma allora solo il corpo di un virus poteva attraversare i confini.
È rimasta solo la distanza,
e così l’abbiamo misurata.

Se una creatura immaginaria lasciasse la mia stanza a Teheran
e camminasse verso Fies,
arriverebbe dopo 36 tramonti e albe uno dietro l’altra.
I 36 quadrati annodati in questa vela
rappresentano quel viaggio di luci e ombre.

Entro la seconda estate,
dopo innumerevoli test COVID affondati nel naso,
i nostri corpi hanno finalmente raggiunto Centrale Fies.
Abbiamo riempito quei quadrati di distanza
con lettere d’amore e itinerari degli anni precedenti,
e dall’amicizia abbiamo tessuto una tenda,
un tetto sotto cui poterci riunire.

E ora, la terza estate, questa, cinque anni dopo,
quanto è vasta la distanza che ci separa?
E come potremo mai ritrovarci, vicine alla Sarca?

Quest’anno, proprio quando avevamo finalmente superato tutte le distanze precedenti,
proprio quando avevamo imparato la strada per un posto sicuro vicino al Sarca,
proprio quando avevamo iniziato a credere che i 36 quadrati di distanza si sarebbero riaperti per sognare di nuovo una città,
sono cadute le bombe.

Quest’anno, la distanza è segnata da trecento punti bombardati in tutta la mia città, Teheran.
Quante centinaia di bombe sono cadute
tra Teheran e Fies negli ultimi anni nella città che un tempo sognavamo come una sola città…

Nella città che immaginavamo,
da Damasco a Beirut, la città della rivoluzione, dal Cairo a Baghdad,
da Kabul al confine orientale del Mediterraneo, la nostra Qibla, Gaza.
Quanti punti di dolore in fiamme ci sono ancora da contare?

Dove cadono le bombe?
Bombe che cadono sui vuoti,
sulle crepe, su distanze incalcolabili,
su questi fragili legami.

Cosa attaccano le bombe?
Colpiscono il corpo: le nostre mani, i nostri piedi, le nostre teste, i nostri arti.
Vengono a strappare i piccoli corpi dei bambini
e il vasto corpo connesso che abbiamo costruito, il corpo più grande
plasmato in anni di lavoro,
su molti palcoscenici, compresi quelli di Centrale Fies.

Un corpo cresciuto dai movimenti di tutti coloro che hanno portato i loro sogni, il loro dolore, la loro speranza e la loro sofferenza sul palcoscenico
per formare un unico grande corpo:
un corpo che può sentire,
un corpo che può percepire. Il corpo con lunghe mani e lunghi piedi, che si estende oltre i confini, che supera il confine insanguinato dell’Europa, che arriva nelle nostre città…
Le bombe attaccano il nostro grande corpo.
Le bombe hanno lo scopo di distruggere questo corpo,
di strappare le mani dalle braccia,
le gambe dal tronco,
le teste l’una dall’altra.

Le bombe cadute a Teheran,
in dodici giorni di fuoco ed esplosioni,
le bombe che non mi hanno ucciso,
sono state progettate con precisione.
Per il mio corpo.

Per tutti i corpi in Libano,
in Yemen, in Siria, a Gaza,
in ogni città segnata dalla loro caduta,
sono arrivate con lo stesso intento:

Dividerci.
Separarci.
Isolarci dalle piazze delle rivoluzioni,
da un corpo più grande: il nostro corpo.

Una vibrazione imponente e violenta, destinata ad arrestare la nostra immaginazione di un’utopia.
Un suono più forte di tutte le musiche e le melodie che abbiamo mai creato, un odore e delle luci più inquietanti di qualsiasi cosa abbiamo mai conosciuto, che strappano il filo sensoriale che ci lega gli uni agli altri.
Il filo sensoriale che abbiamo costruito sul palco, per così tanti anni.

Oggi, nonostante tutte le bombe che sono cadute tra noi, miei cari amici,
abbiamo qualcosa a cui aggrapparci,
nella direzione comune dei nostri cuori.
C’è un sentiero che ci porta a Gaza.
E c’è una bandiera che fa battere i nostri cuori più forte ogni giorno.

Issiamo quindi la bandiera
che protegge il nostro corpo più grande,
contro le bombe,
contro le frammentazioni,
contro la missione della distanza.
Proteggiamo questo corpo fragile, delicato e ancora in lotta che abbiamo costruito qui insieme
su tutti i palchi. Alziamo la bandiera della Palestina, ovunque possiamo.

Perché oggi
i nostri sensi sono sotto attacco dalle bombe.
E tutto il resto che facciamo
sembra piccolo all’ombra
dell’enorme tragedia del genocidio.

Non abbassiamo questa bandiera,
non fino al giorno in cui
il nostro corpo grande e forte,
il corpo fatto di tutti i nostri corpi,
entrerà in una Palestina libera
con tutti i suoi sensi,

con tutti i suoi sentimenti.

Torniamo per immaginare la stessa città, come quella di cinque anni fa, il suo disegno non è cambiato, i suoi vicoli si estendono altrove nelle strade di altre città, perché la nostra città è ancora fatta di tutte le città in cui siamo state. Nel frattempo la distanza è cambiata: facciamo fatica a immaginare di colmare quella distanza contando solo giorni, tramonti, passi, lettere d’amore, se le bombe continuano a cadere a metà strada, nel bel mezzo di quella distanza, all’improvviso tutte le barriere, i confini, le prigioni e gli ostacoli tra una città e l’altra sono diventati più marcati, più pesanti, improvvisamente solidi. Silenzio, fobie e bugie sono subito giunte a coadiuvare queste barriere, frontiere, prigioni, limiti. La montagna della nostra distanza è diventata insormontabile: mentre le bombe venivano giù, la nostra città ha smesso di crescere. Eppure, sotto la paura, un’altra città ha iniziato a germogliare sulla superficie del suolo, a volte scavando in profondità, altre volte librandosi in canti, trasportata dalla brezza marina, mentre quello stesso mare diventava inaccessibile.

Nel frattempo le nostre mani si sono unite nei nostri ricordi, nella nostra lucida testimonianza, costruendo di barricate, scavando di tunnel, salpando in mare per rompere l’assedio, annotando nomi, scovando fondi da disinvestire, piegando tutte le nostre parole per raggiungere le nostre sorelle, per colpire, per opporci con fermezza all’apartheid e al genocidio, per immaginare una città che possa continuare all’infinito verso altre città, torniamo qui dove ci siamo lasciate cinque anni fa, con la nostra insistenza le nostre parole sono diventate più dure, dalla lava si sono solidificate in pietre, agglomerato di tempo, un sasso contro un carro armato, un detrito scagliato contro l’impero, ostinate a spostare le montagne una pietra alla volta.

In questi cinque anni le forze israeliane, i mercenari e i coloni hanno demolito, scaricato, ucciso, assassinato, cancellato, licenziato, messo a tacere, distrutto, rimosso, accusato – sapevano, hanno permesso o non hanno permesso, hanno preteso, si sono infiltrati, hanno distrutto, preso di mira, chiesto riscatti, espulso, picchiato, aggredito, sfrattato, saccheggiato, bombardato, assassinato, demolito, avvelenato, chiesto riscatti. Hanno chiuso il mare. Insieme ai nostri governi e ai nostri giornali, hanno legittimato, normalizzato, agito in totale impunità.

La nostra città era lì, in quella distanza tra noi e Gaza, in quella distanza tra me e te, sotto le macerie le sue radici crescevano sempre più profonde tenendo insieme tutti i nodi che avevamo in gola, tutte le nostre parole e i nostri pensieri che nel frattempo si sono solidificati in pietre, mattoni per costruire barricate, in debito con tutte coloro che prima di noi si sono opposte al potere, selce, pomice, lapide di tutte le prigioni, tutti i confini e tutte le galere – scene del crimine, bastoni lanciati contro droni, cucchiai per evadere scavando un tunnel, finché non tornerete a far volare i vostri aquiloni al mare, e quel mare diventerà la nostra città che continua fino a tutte le altre città – tenacia che persiste sotto la distanza resa insormontabile da tutte le loro bombe, spostando la montagna una parola alla volta, figlia vulcanoclastica del magma la verità ha radici profonde, in questa città ci riprendiamo il mare, il nostro mare continua a ridere.

Noi ostinate continuiamo a immaginare la stessa città, mentre restiamo ad annodare la nostra distanza – i nostri nodi diventeranno più forti col tempo – continuiamo a cantare ninne nanne ai nostri figli, mentre piangiamo i nostri martiri custodiamo le parole di coloro che ci hanno precedute, insistiamo e le ripetiamo finché non diventano realtà, depositiamo i nostri sogni in Palestina e diventiamo nuovamente depositarie di tutte le storie d’amore contro l’egemonia della storia, la nostra poesia contro il loro fascismo, le nostre pietre sono fatte di tempo e il mare ci appartiene.

Altri articoli di

Giulia Crispiani