Così titolava la prima pagina de «l’Unità» del 22 febbraio 1970, oggi scrupolosamente conservata nell’archivio dell’associazione culturale Lux in Fabula con sede a Pozzuoli. Cinquant’anni dopo, quella domanda rimane sospesa: la terra flegrea continua a respirare, a sollevarsi, a minacciare. Pozzuoli è il comune della città metropolitana di Napoli che quest’anno, dal 10 al 14 settembre, ha ospitato la quinta edizione di “Panorama”, la mostra diffusa ideata da ITALICS.
Curata da Chiara Parisi, “Panorama Pozzuoli” ha invitato gallerie e artisti non solo a presentare i propri lavori in un contesto nuovo, ma soprattutto a misurarsi con un territorio denso di storia e mitologia. Pozzuoli brucia e brucerà ancora, probabilmente inascoltata come la storia insegna, ma nei giorni di “Panorama” la città ha brulicato di energie, visioni e racconti. Visitatori, artisti e galleristi non hanno potuto sottrarsi al confronto con una realtà complessa e stratificata come quella dei Campi Flegrei, che costringe sempre al pensiero, sia esso poetico, storico o sociale.
Immergersi in un contesto colmo di memoria come quello puteolano significa predisporre lo sguardo non solo al visibile, ma anche agli echi delle tante assenze che abitano quei luoghi. Le voci che ancora aleggiano nel parco archeologico di Cuma, prima colonia greca d’Occidente; i passi che hanno attraversato l’anfiteatro Flavio, tra i più grandi costruiti in epoca romana; gli avvisi di sgombero urlati con i megafoni al Rione Terra negli anni Settanta; il crepitio delle fiamme che hanno distrutto il Duomo nella seconda metà del Novecento; le risate e i silenzi che un tempo popolavano il cinema cittadino intitolato a Sofia Loren, che qui trascorse infanzia e adolescenza.
Non a caso Chiara Parisi sceglie la ‘divinizzazione’ come filo rosso della mostra, esplorando un concetto che attraversa epoche e sensibilità diverse: segni di trascendenza di ieri, di oggi e, forse, di domani. Antico e contemporaneo si specchiano l’uno nell’altro, innescando cortocircuiti e connessioni inattese con la storia e con il paesaggio che li circonda.
Lo dimostra la grande scultura di Ugo Rondinone, che accoglie i visitatori nel cuore del Rione Terra affacciandosi sul Mediterraneo, come un guardiano silenzioso sospeso tra terra e mare. Il piano di calpestio del Rione Terra è nettamente superiore a quello dell’antica Puteoli, fondata nel 194 a.C. e oggi diramata sotto la città moderna, sorta sulle ceneri di un’eruzione. Nei corridoi sotterranei della città antica trovano posto gli scatti di Simon Dybbroe Møller, fotografie di occhi illuminati dal flash che sembrano scrutare chi passa, generando un gioco di sguardi che accompagna il visitatore tra le strade ormai sotterranee dell’antica città romana.
In una delle “botteghe” del Rione, Sandra Vásquez de la Horra propone una personale intima e raccolta. I suoi disegni, di piccole e grandi dimensioni, raffigurano corpi femminili, simboli e visioni surreali tutti rigorosamente immersi e protetti dalla cera d’api, che sancisce, con decisione, l’importanza di quelle conquiste e di quei traguardi raccontati dall’artista.
Un dialogo tra antico e contemporaneo particolarmente riuscito è quello innescato da Carlos Amorales che sfida la frammentarietà della storia con altrettanti frammenti, quelli che compongono i suoi ritratti generati dall’intelligenza artificiale: volti incompiuti, sospesi tra umano e artificiale, che suggeriscono quanto fragile e instabile sia ogni tentativo di rappresentazione.
Tra gli episodi più incisivi della mostra diffusa spicca l’intervento di Maurizio Cattelan: un bambino con impermeabile rosso e cappuccio, jeans e scarpe da ginnastica siede su un cubo sospeso nel vuoto, sorretto solo da un enorme gru da cantiere. Ogni quindici minuti, quel bambino, batte sul suo tamburo, scandendo un ritmo che invade la piazza e le strade del rione. Il ripetersi incessante di
quel suono sembra quasi rievocare gli annunci delle evacuazioni degli anni Settanta, ma anche il cantiere permanente dal quale la città forse non è mai uscita. Un’immagine potente della precarietà immobiliare e sociale che sembra non voler dare tregua alla città di Pozzuoli.
Tra le rovine dell’Anfiteatro Flavio emergono le sculture di Simone Fattal, forme morbide plasmate più dalla volontà umana che dal tempo, un rarissimo torso di Silvano scolpito da uno scultore del II secolo, le opere eteree di Wilfredo Prieto, sospese tra il tangibile e la poesia, e la performance pensata dalla giovanissima Clarissa Baldassarri che trasforma la glossolalia in esperienza estatica in cui la parola diventa canto senza lingua, vibrazione pura, quasi un rituale collettivo che sfiora la trance. Nell’anfiteatro la soglia tra opera e reperto si dissolve, lasciando emergere una continuità di gesti e di materia che attraversa i secoli.
Nel cinema della città, ormai tristemente abbandonato a sé stesso, il film Séance (2014) di Yuri Ancarani, dedicato alla vita e all’estro creativo di Carlo Mollino, intreccia visione artistica e lascito, sensibilità e ossessioni di un architetto che ha sempre spinto lo sguardo oltre il visibile, seguendo amore, passione e intuizioni.
Una stanza affacciata sul mare ospita un’installazione site-specific di David Tremlett, Rain in your black eyes – per Ezio (2023-2025), che avvolge lo spazio con campiture di colore nero: un omaggio intimo e al tempo stesso universale. Altra conversazione tra antico e moderno particolarmente riuscita è quella che instaura il lavoro di Damir Očko con The Dawn Chorus (2023) un video che celebra la coralità queer ispirandosi a Gli uccelli di Aristofane: il voguing e l’esperienza drag si intrecciano ai canti degli uccelli all’alba, aprendo uno spazio di libertà e metamorfosi.
Anima piazze, strade e cortili anche un ricco Public Program fatto di talk, intermezzi musicali e passeggiate culturali accompagnate da guide che hanno intrecciato la loro vita con la storia del territorio. Il paesaggio di Pozzuoli diventa così il vero protagonista della mostra. Il mare, la terra che si alza e si abbassa, i resti archeologici: tutto partecipa, tutto vibra. “Panorama Pozzuoli” non si limita a collocare opere in luoghi suggestivi, ma interroga continuamente lo spazio, lo carica di nuove domande, lo espone a nuove possibilità di senso.
Se la storia di Pozzuoli è segnata da fughe, distruzioni e ricostruzioni, “Panorama” ha offerto per cinque giorni un tempo diverso, fatto di soste, ascolti e sguardi condivisi. In questo senso, la mostra non è stata solo un’occasione espositiva, ma un’esperienza collettiva, quasi un rito che ha unito comunità locale e pubblico internazionale.
E forse la risposta alla domanda che apriva la prima pagina de «l’Unità» nel 1970, “Brucia la terra sotto Pozzuoli?”, oggi non può che essere duplice: sì, la terra brucia, minaccia e resiste; ma brucia anche di energia creativa, di voci che si moltiplicano, di artisti che hanno accettato di mettersi in ascolto. Nel dialogo tra la storia che segna questa terra e l’energia che l’arte sa generare, “Panorama Pozzuoli” ha trovato la sua forza più autentica.







