È un mondo a tratti surreale quello di Clemen Parrocchetti, eppure così profondamente terreno. Le sue opere, tutte attraversate da una sensibilità femminile ma soprattutto femminista, reinventano oggetti e linguaggi nel segno di una lucida critica sociale. Lo si capisce bene visitando “Ironia Ribelle”, mostra curata da Marco Scotini e Stefania Rispoli, che restituisce, attraverso una selezione di dipinti, disegni, sculture, arazzi e materiali d’archivio, la complessità di un percorso artistico mai disgiunto dalla militanza e dall’esperienza storica.
Ampio spazio è dedicato agli oggetti di cultura femminile e agli assemblaggi di straordinaria inventiva di Parrocchetti, debitori dei ready-made dadaisti e degli objets trouvés surrealisti, che sovvertono la quotidianità domestica delle donne. L’artista si appropria di linguaggi storicamente dominati dal maschile, introducendo un insieme oggettuale fatto di aghi, rocchetti, utensili vari, bambole, bocche e vulve cucite, trasformando questi assemblaggi in strumenti rivelatori della subordinazione patriarcale.
In particolare, il ricamo – destino già scritto nel cognome dell’artista – diventa spazio di parola e di rivendicazione soggettiva, come dichiarato nell’opera Promemoria per un oggetto di cultura femminile (1973), dove le frasi cucite su lastre di alluminio denunciano una precisa condizione: «donna cuci-taci, donna puntaspilli, donna materasso per le botte, infine donna oggetto».
Parrocchetti individua nella mancata emancipazione femminile il nodo irrisolto di ogni progetto di trasformazione sociale, in linea con quel pensiero femminista vicino ai testi di Carla Lonzi e alle esperienze di molti collettivi milanesi. «Tabula rasa, quindi, e ricominciare da capo!» — come scrive e auspica la stessa Parrocchetti in un testo pubblicato in occasione di una sua personale presso la galleria Il Mercante di Milano nel 1976 — è l’istanza che guida l’iconografia liberatoria degli oggetti di cultura femminile. Questi diventano mezzi di riappropriazione: cuciture, fili, stoffe e spilli veicolano un linguaggio nuovo, costruito dal e sul corpo della donna. L’atto del cucire viene così finalmente ribaltato rispetto al suo significato storico.
Gli oggetti sono inoltre realizzati con materiali poveri e soffici, stoffe vivacemente colorate, nastri e fili spesso lasciati volutamente sollevati a esprimere una sorta di fermento e ribellione, qualcosa che vuole uscire ed espandersi, pur restando prigioniero del supporto in cui è fermato con spilli e cuciture. Richiama la forma-simbolo della vagina, come tipicamente elaborata dall’artista: imbottita e rivestita di stoffa, ricoperta da ciuffi di fili, denuncia del corpo quale superficie di iscrizione della violenza patriarcale e, al contempo, luogo di resistenza.
In tutta l’opera di Parrocchetti c’è una forte dimensione erotica, data dagli elementi tradizionalmente associati alla femminilità, che risultano seducenti e al tempo stesso sono portatori di una riflessione politica: osservarli implica il trovarsi in un cortocircuito tra desiderio e critica, in un erotismo provocatorio e talvolta inquietante, ulteriormente accentuato dall’accostamento a oggetti come pistole o siringhe, che evocano la feroce condizione di oppressione femminile.
Il percorso espositivo si chiude con le opere degli anni Ottanta e Novanta, periodo in cui l’artista amplia la propria produzione ad arazzi, installazioni e lavori su carta cucita, integrando testi, poesie e materiali leggeri come tulle, paillettes e organza, spesso giocando sui toni del rosso e del nero. Queste opere appaiono come contenitori di ossessioni e desideri, in cui si rivela la componente personale e intima di Parrocchetti, pronta a scavare nei propri meandri emotivi e a restituirli attraverso inedite associazioni e una nuova energia: quella di chi ancora vuole cambiare le cose.








