Il “Lucio” di Dario scorre tra le pagine in punta di dita e abbigliato alla maniera furtiva di chi, reclamando l’anonimato, scivola di cornice in cornice assicurandosi di fare il meno rumore possibile. Ha il profilo comportamentale di un cameriere di sala e l’armadio altrettanto: camicia bianca, pantaloni e scarpe neri, il polso scaltro e fermo di chi sa come portare un vassoio senza che succeda un quarantotto.
È insomma uno che vuole un po’ eclissarsi e per sua fortuna a circa metà libro l’eclissi arriva veramente; di tutta risposta decide di legarsi una torcia alla fronte, lui che prima non usciva di casa senza capelli davanti agli occhi.
E sorride. Non ora, all’ultimissimo. Questo ha un senso soprattutto se si pensa alla relazione che l’autore intrattiene con il panorama giapponese, e quindi con un tipo di fumetto che proprio dalla fine ha inizio. Ha un senso anche considerando che nella storia è quando finalmente si accende la luce: la pagina conclusiva è bianchissima, acceca da far chiudere il libro di stizza, che tanto, è finito.
Un colpo basso per il quale si consigliano occhiali da sole durante la sessione. Nello specifico modello SoFi, per meglio partecipare all’eclissi solare perno del libro, che se saltata in mancanza di protezioni rischia rendere vana la lettura che, dico a te Dario, comincia ad assomigliare più ad un investimento.
Il lettore viene dunque congedato con i contorni appena abbozzati di un Lucio in pieno sole, una mano a far da schermo e quel sorriso pieno che risulta quasi fuori luogo… a giudicare dall’espressione del protagonista fino a ora, si ipotizza questa sia stata per l’artista la tavola dalla stesura più complicata nonostante la meno densa. Ma il vuoto è difficile da arredare, si rischia di scadere nel cattivo gusto. Non è questo il caso.
Milano è dove Lucio vive e non è città di gran sorrisi. Convivono la frenesia delle masse e l’angoscia dei singoli, che come il protagonista quando deve andare in piazza Duomo, chiedono evitanti se “Will there be a lot of people?”. E l’impiego dell’inglese lo si sa, in questa nostra metropoli casca a pennello. O anzi a penna e inchiostro, che Dario disegna così.
La trama non pecca certo di sovrappopolamento, ma a parte chi già abbiamo incontrato ci sono una ragazza sempre triste custodita gelosamente dietro vetri di automobili e finestre, e un Lucio 2, la versione in negativo, che poi a dirla tutta, è più la versione in positivo; cerca quantomeno di convincerlo a uscire di casa.
Del resto, Lucio è quell’amico che all’ultimo ti da buca perché preferisce starsene al sicuro circondato dai suoi altri amici, in miniatura e decisamente più colorati, che lui, come dicevamo, non si spinge mai oltre un bianco e nero. E così, qui e lì si fa tascabile per giocarci a nascondino, per condividere una fetta di torta fragole e panna o solo per un po’ di compagnia; loro non vedono l’ora che rincasi per poter finalmente smettere di appartenere all’inanimato. Lui, invece, per poter smettere di fingersi animato. Ma “cosa salvi dei momenti colorati che tu chiami vita” ?
Ascoltando “Lucio Dove Vai” di Dalla su YouTube, subito dopo parte “Al Piano Bar di Susy” di De Crescenzo. Una volta arrivati lì con l’idea di trovarci Lucio, si intravede invece Dario che scarabocchia il prossimo libro su dei fogli di fortuna: la camicia bianca, i capelli davanti agli occhi, il polso fermo; Susy dall’altra parte del bancone gli “da la luna in un bicchiere”.
Ora che ci penso bene, io Dario e Lucio non li ho mai visti insieme nella stessa stanza.





