
Viene qui condensata un’intervista fiume del duo Francesco Urbano Ragazzi alla critica e giornalista Mariuccia Casadio. Nella sua casa milanese, Casadio racconta uno dei suoi primissimi lavori nell’arte, quando partecipò al gruppo di ricerca di “Identité Italienne”, la mostra curata da Germano Celant al Pompidou di Parigi nel 1981. L’intervista nasce nel contesto della Fellowship for Curatorial Research, inaugurata quest’anno grazie alla collaborazione tra l’American Academy in Rome e la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Francesco Urbano Ragazzi: Quando hai conosciuto Germano Celant?
Mariuccia Casadio: A una performance al Palazzo dei Diamanti a Ferrara. Era il 1977 e quindi ho tutti i motivi per non ricordarmi i dettagli. A cena ci mettemmo vicini e da lì è stato semplicissimo.
FUR: Ce lo descrivi in poche parole?
MC: Io l’ho conosciuto che aveva 37 o 38 anni. Lo vidi nel pieno delle sue aspirazioni e dei suoi sacrifici. Lo ricordo come un cane sciolto, e lo fu per davvero. Infatti paradossalmente non ottenne mai la direzione di un museo, anche se studiava e sapeva moltissimo sull’argomento. Le sue produzioni erano talmente expensive che nessun museo avrebbe potuto realizzarle come voleva lui. Dovette aspettare la Fondazione Prada. Diciamo che Germano era un cane sciolto con una grande attrazione per il benessere e lo status sociale.
FUR: Quando e come venisti invitata partecipare al gruppo di ricerca che lavorò a “Identité Italienne”?
MC: Germano seppe che la mostra al Pompidou era confermata circa un anno prima dell’apertura o giù di lì. Quindi io e gli altri fummo invitati a lavorare sul catalogo sei mesi prima. Essendo un cane sciolto, Germano non era uno che delegava. Tutte le relazioni venivano trattate direttamente da lui.
FUR: Come ti descrisse il progetto?
MC: Come un compendio totalizzante della cultura italiana dalla fine degli Anni ’50 fino al 1980. Da un lato c’era l’idea di una mostra con diciotto artisti, da quelli dell’Arte Povera fino ai più giovani De Maria e Bagnoli. Credo che lo spazio assegnatogli nel museo non gli permettesse di includerne di più. Dall’altro lato, un catalogo fatto quasi per intero da una lista di date e informazioni sulla cultura italiana, una lista che contestualizzasse le opere in mostra come prodotto di una certa epoca storica. È noto che Germano si era ispirato alle tre mostre su Parigi allestite da Pontus Hultén al Pompidou1. Io però credo che questo approccio storico gli derivasse dal suo essere allievo di Eugenio Battisti. Fu a Genova con Battisti che imparò a trattare il contemporaneo con lo stesso rigore che si riservava all’antico.
FUR: Partiamo dal catalogo. Chi faceva parte, assieme a te, del gruppo di ricerca?
MC: Io ero forse la più giovane del gruppo. Andavo ancora all’università. Rossella Bonfiglioli veniva al DAMS con me. E poi conoscevo già anche Maria Gloria Bicocchi. Invece Bruno Corà, Ida Panicelli, Ester De Miro, Franco Torriani e Luciana Rogozinski erano un po’ più grandi, lavoravano già. Tra tutti, quello con cui ero più legata rimane Pier Luigi Tazzi, perché anche per lui ragionare significava pensare con quello che si conosce ma anche con quello che, mentre non si conosce, ci si inventa… Empatizzammo tutti in fretta perché il lavoro era talmente arduo che ci livellava.
FUR: Come vi divideste i compiti, i temi da trattare?
MC: Anche se c’era poco tempo, l’operazione voleva essere scientifica. Vennero chiamate persone che sapevano già come muoversi in certi ambiti. Rossella, per esempio, era esperta di teatro contemporaneo, stava pubblicando un libro sul tema [N.d.E.: Frequenze Barbare, La Casa Husher, 1981] e aveva lavorato coi Magazzini Criminali. Stessa cosa Maria Gloria Bicocchi, che aveva aperto la galleria art/tapes/22 a Firenze nel 1972 e quindi aveva una conoscenza perfetta della videoarte. Ida Panicelli, che dal 1979 era curatrice alla Galleria Nazionale di Roma, trattò le mostre d’arte. Ester De Miro, prima donna a insegnare cinema nell’università italiana, si occupò di film d’artista. Rogozinski pubblicava già articoli su qualche rivista e per questo trattò la situazione della critica d’arte in Italia. Così anche Torriani, che già si occupava di economia dell’arte –cosa rarissima all’epoca. Io e Pierluigi eravamo quelli del linguaggio. Lui si mise sui libri d’artista e io mi ero scelta le riviste. Sono una creatura degli Anni ’80 e per me la cultura era quella roba lì, una faccenda anche visiva.
FUR: Bruno Corà viene accreditato come il coordinatore del gruppo. Qual era il suo ruolo?
MC: Corà si occupava del rapporto tra arte e politica, la questione più spinosa di tutte. Nominarlo coordinatore esprimeva più che altro la centralità di quel rapporto nell’impianto generale del progetto. Ma lui non è certo una persona impositiva, e se siamo riusciti a finire il lavoro in così poco tempo è stato solo per un miracolo della Madonna di Loreto. Abbiamo lavorato come pazzi. Punto.
FUR: Vi incontravate regolarmente?
MC: Sì, una o due volte al mese a Genova, a casa di Germano perché aveva la terrazza ed era quella dove ti potevi accomodare meglio. Ognuno arrivava con il suo plico di carte e la riunione di condominio iniziava. Si comunicava agli altri cosa si era e non si era trovato e poi si entrava nel merito.
FUR: Come reperivate i dati da inserire nella cronologia?
MC: Lavoravamo ognuno a partire da un proprio archivio di riferimento. Bicocchi, per dirne una, dai dati raccolti attraverso la sua galleria. Pier Luigi si consultava spesso con Maurizio Nannucci, grande archiviatore di libri d’artista. Corà aveva scatole e scatole di quotidiani e settimanali, numeri dell’Espresso e quant’altro.2
FUR: E tu?
MC: A me Celant fece mettere naso nel suo archivio a Genova [N.d.E.: IDA – Information, Documentation, Archives, fondato nel giugno 1970].
FUR: Come organizzasti tutte le informazioni che avevi raccolto?
MC: Non vi dovete immaginare che la scena delle riviste fosse immensa. L’arte rappresentava una piccola parte. Quindi nel mio lavoro le eccezioni fecero la regola. Iniziai a tirare fuori i numeri speciali o i primi numeri, che mi lessi avidamente perché tutto quel materiale non era nemmeno previsto si studiasse all’università.
FUR: Tra queste eccezioni che individuasti, ce n’è qualcuna che ha senso andarsi a guardare anche oggi?
MC: Il Verri, che era un po’ il cervello d’Italia, pubblicò dei numeri pazzeschi: il terzo del 1961 dedicato all’Informale, quello successivo fatto da Umberto Eco sulla semiotica. Però le riviste che al tempo mi scioccarono furono il Menabò, Marcatré, Collage, La botte e il violino. E poi Grammatica, con Perilli e Novelli. Linea/Struttura, che Lea Vergine lanciò nel 1966. Tutte quelle dell’arte programmata. Modulo. Beat. E poi Pianeta Fresco, che la Pivano e Sottsass fecero con Allen Ginsberg nel 1967 e che somigliava a un libro d’artista. Molte di queste erano fiammate epocali. Dello stesso Azimuth, Boetti e Castellani fecero uscire solo due numeri.
FUR: C’è una rivista o un numero, magari tra i meno conosciuti, che ti rimase particolarmente impresso?
MC: Ricordo un pieghevole di un’industria di arredamenti –forse era la MIM, che pubblicava La botte e il violino– in cui si vedevano i poeti del Gruppo ’63 seduti a turno sulla stessa poltrona. Quell’immagine parla del legame che c’era negli Anni ’60 tra industria e creatività a largo raggio. Un appoggio incondizionato e senza questione che le multinazionali di oggi dovrebbero recuperare.
FUR: Secondo te queste riviste possono dire qualcosa alla crisi che tutta l’editoria sta vivendo?
MC: Io credo ancora tanto nella scrittura, nella necessità di commissionare pezzi lunghi. Poi ora le riviste dovrebbero avere il coraggio di osare, e somigliare di più a dei libri d’artista, come in effetti facevano tanti degli esempi che ho citato.
FUR: Cosa ricordi di quando il catalogo di “Identité Italienne” andò in stampa? Ci risulta sia stato un momento rocambolesco.
MC: Il Centro Di era una piccola casa editrice di Firenze, e credo che l’editore ebbe un infarto. L’accordo iniziale era per un libro lungo un centinaio di pagine. Ne uscirono più di seicento. E i tempi furono infernali: “veloci che tra una settimana e mezzo c’è la mostra!”. In più ormai non si poteva tornare indietro, e il libro era arrivato a costare quel che costava. Anche in questo caso però vidi un grande sostegno dell’industria. Tra gli sponsor c’erano Alitalia, la Fiat, Olivetti…
FUR: Nel catalogo di “Identité Italienne”, prima della vostra cronologia collettiva, c’erano anche dei saggi introduttivi. Come li giudichi?
MC: Scrissero Alberto Asor Rosa e Maurizio Calvesi, ma il confronto più forte rimane quello tra Germano e Carla Lonzi. Perché c’era un punto di contatto tra Germano e la Lonzi –per esempio lei riconobbe Paolini ancora prima che entrasse nell’occhio di Celant– ma loro erano come due mondi che aspiravano a toccarsi e che poi di fatto non collidevano mai. Secondo me Germano non è mai stato un grande scrittore. Pur essendo molto preciso, partiva da un’iperbole o da una bella immagine retorica e ci girava attorno. Invece Carla Lonzi è ancora l’incarnazione della rivolta, anche in quella paginetta che chissà quanti santi sono stati chiamati perché lei la scrivesse. Si sente l’incazzatura di aver rinunciato a sé per aderire a un sistema che disprezzava.
FUR: Perché secondo te c’era una sola donna a firmare un saggio col proprio nome, ma così tante a lavorare sulla cronologia?
MC: Io credo perché noi donne rispondevamo di più all’ideale di essere diligenti, lavorare a testa bassa per portare a casa un risultato di alto livello. Germano restava il capo supremo. Io glielo dissi una volta: “cavolo però non mi presenti mai a nessuno!”. Al che lui mi rispose –e non aveva tutti i torti– “devi trovare tu una buona ragione per allungare la mano e presentarti”. A lui piaceva proprio la battuta, la battuta effettata. Infatti era un giocatore di biliardo. Andava in buca, era il suo modo di ragionare e questo lo rendeva tagliente.
FUR: Quindi il vostro lavoro era controllato dall’alto? Qualche detrattore all’epoca lo sostenne.
MC: Fu una delle critiche ricorrenti che ricevemmo. Ma onestamente, con sei mesi di lavoro massacrante alle spalle, chi aveva il tempo di controllare?!
FUR: Comunque, tornando al femminismo, nel suo testo introduttivo Celant ne parla come una rivoluzione politica fondamentale. Secondo te era sincero?
MC: Sì, Germano era per davvero sensibile alla voce delle donne. Era amico di Lonzi, di Accardi. Era amico di tante. La stessa Ida Gianelli penso gli facesse una testa così col femminismo. Fu lui a proporre Ida Panicelli per la direzione di Artforum. Propose me per il Fashion Institute of Technology, anche se io non me la sentii.
FUR: Lo squilibrio però diventa ancora più evidente se si considera che, a esclusione di Marisa Merz, i diciotto artisti che parteciparono a “Identité Italienne” erano tutti maschi. Come te lo spieghi?
MC: “Identité Italienne” era una mostra fatta anche per sancire il successo dell’arte italiana sul mercato internazionale. E nel 1981 di donne che avessero il successo dell’Arte Povera non ne esistevano. La cultura dell’epoca era fatta così. Come dice Giorgio Lavagna, in quel periodo creatività e rock erano sport da maschi. Era come una bocciofila, dico io. Nel catalogo della mostra però inserimmo tante donne, Carla Accardi, il collettivo Beato Angelico, ma anche tante intellettuali.
FUR: Tu andasti anche a Parigi per assistere all’allestimento. Che clima si respirava?
MC: Insopportabile. C’erano quasi tutti gli artisti, sempre ubriachi e col mal di testa a litigare. Il museo era una polveriera. Merz, costruito l’igloo, si mise lì dentro e non lo vedemmo più. De Dominicis non voleva essere fotografato, era schivo, lunatico. Quando anche io non volevo vedere nessuno andavo dove andava De Dominicis.
FUR: Celant decise di esporre nella mostra anche alcune delle riviste che avevi menzionato nella cronologia. In che modo?
MC: Cerri e Gregotti disegnarono l’allestimento. Una sorta di alveare in cui ciascun artista occupava una cella. Ogni cella era collegata alle successive tramite dei corridoi in cui erano esposti materiali di documentazione. Lì vennero sistemate anche le mie riviste. Credo che all’inizio non fossero previste, ma poi si pensò che potessero servire al pubblico francese per conoscere gli strumenti attraverso cui l’arte italiana era stata teorizzata.
FUR: Nell’archivio di Carla Lonzi si trovano alcune note riguardo un suo viaggio a Parigi per l’inaugurazione della mostra. Ricordi qualcosa di lei?
MC: Non ricordo Carla Lonzi a Parigi. Era sicuramente già molto malata.
FUR: Come fu recepita la mostra?
MC: La critica fu molto dura. Ma a noi non fregava nulla. Germano era abituato al fatto che i suoi progetti erano trattati con durezza.
FUR: E come la consideri tu, più di quarant’anni dopo?
MC: Quella di Celant è un’ottica molto moderna. Mette in chiaro che l’arte appartiene a un tessuto culturale, a un tessuto storico. Io la vivo come una mostra destinale. In fin dei conti per Germano quello era ancora un progetto giovanile, una pietra miliare attraverso cui leggere il percorso successivo: “The Italian Metamorphosis” al Guggenheim, “Futuro, Presente, Passato” alla Biennale del 1997, e poi la stessa programmazione della Fondazione Prada. “Identité” ha segnato un destino anche per me, che poi ho passato la vita dentro le riviste. Degli artisti invece mi rimane Luciano Fabro. È quello che più ha resistito al tempo, all’essere replicato e consumato. Non a caso le sue mentori erano Carla Lonzi e Jole de Sanna. Certe sue opere, Tautologia per esempio, me le mangerei col cucchiaio. Come un tiramisù.
FUR: Qual è la cosa che ti rende più fiera di quell’esperienza?
MC: Avere il catalogo di “Identité Italienne” era come avere un internet speciale della cultura italiana. Le redazioni dei giornali francesi se ne tenevano una copia sottomano quando avevano bisogno di controllare qualche data. Quella cronologia è il frutto di un lavoro di gruppo che ha avuto successo e di questo sono fiera. In un’epoca di individualismo serve spirito collettivo. Tra l’altro molti dei collettivi che conosco si stanno sciogliendo. A parte Formafantasma, Canemorto, voi e pochi altri… È un segnale molto preoccupante.
FUR: Teniamo duro e non potremmo essere più d’accordo. Cosa ti porti con te di quel lavoro?
MC: Fu un lavoro massacrante e quando finì ero pronta per andare in analisi. Ma capii che per quante immagini, immaginari e immaginazioni possiamo consumare, la cultura visiva conta quanto la scrittura. È come se nel 1981 avessi scoperto di essere dislessica. E, come dissi qualche anno dopo alla Sozzani quando iniziai a lavorare per Vogue, io vorrei costruire dei mondi. Perché per me l’aspetto visuale dovrebbe contare quanto la scrittura. Io devo vederle le cose per poterle vedere poi col pensiero. Questo mi carica. Sono riuscita a farlo spesso ma avrei dovuto imporlo. L’ho scritto anche su un mio status di Instagram: sono coraggiosa ma non sono intraprendente.