55 Walker Street, Tribeca, un tiro di schioppo dai primi raid dell’ICE su Canal Street: qui, qualche settimana fa, ho visto da Andrew Kreps “Spoiled by Freud”, la prima mostra di Sofia Silva negli Stati Uniti. Nella sala della galleria in fondo al piano terra – vecchio pavimento industriale di legno incurvato, due file di faretti e pareti bianche – Silva ha appeso nove suoi dipinti tutti del 2025, realizzati a olio, acrilico, matita, gesso, acquerello, collage e alcol polivinilico su tela. La vertigine dei materiali anticipa quella dei significati: “Spoiled by Freud” è infatti una densissima mostra a chiave, spudoratamente autobiografica.
Il dato stupisce. Chi conosce Silva, infatti, è abituato a un suo certo, personalissimo riserbo che le impone di anteporre sempre la pittura e le questioni della pittura alla costruzione della sua immagine pubblica. Che stupore, dunque, incrociare il suo sguardo riconoscibilissimo appena entrati in galleria, subito sulla destra, al centro della composizione rigorosa di Il cantiere. Quelle righine colorate tracciate a matita accanto al profilo – vezzo compiaciuto da figlio seienne di un pittore analitico – non bastano ad abbassare il tono dell’immagine: quello è proprio un autoritratto (che roba!) e vale subito da dichiarazione: «La viziata da Freud di cui parla il titolo sono proprio io, la pittrice in persona, io! io! io! Qui accanto potete vedere anche il mio torso nudo, l’ho incollato al centro di Come stanno i miei segreti sottoterra, subito sotto a un altro mio autoritratto in veste di mostro». Il tono assertivo è assolutamente mimetico: giustamente diffidente nei confronti di ogni tentativo esterno di esegesi, la pittrice viziatissima si è premurata di fornire al malcapitato commentatore otto pagine fitte fitte di analisi dei dipinti esposti. Non resta che saccheggiarla, fidandosi ciecamente – errore da principiante – di questo esercizio consapevole di autoanalisi pittorica.
Innanzitutto, una premessa biografica: figlia di due psicanalisti con tanto di vacanze estive all’Hotel du Lac di Lavarone, Silva si è recentemente laureata in tecniche e metodi per le scienze psicologiche. Della costruzione geometrica (da ‘geometra’, non da ‘geometria’) e insieme archeologica di Il cantiere abbiamo già parlato, così come delle immagini frammentate della pittrice che rompono lo schema floreale di Come stanno i miei segreti sottoterra, dedica in punta di pennello a un suo analista lacaniano mancato, e dunque seppellito, quando la pittrice aveva ventidue anni. Subito accanto, Cocca: a chi è familiare con gli slanci titolistici di Silva, torna in mente la gloriosa Unfinished Squinzia vista di recente a una grossa rassegna milanese. Qui la pittrice combina frammenti di sue vecchie tele: in basso gioca a fare l’espressionista astratta coquette, in alto ritrae un altro palazzo – sì, certo, quello dove l’analista riceve. L’ultimo quadro della parete è tra i più apertamente freudiani della mostra: To Be Dora, Once è infatti un omaggio esplicito a Ida Bauer, celebre caso clinico affrontato da Freud. Giovane e isterica, si sottrasse allo sguardo clinico dell’analista: allo stesso modo, quel tacchetto isterico dipinto velocissimo è pronto a scappare fuori dal quadro, segnando un altro fallimento per l’occhio del povero osservatore.
Sulla parete di fondo un quadro solo, grande, maestoso, un vero pièce de résistance: un paesaggio, addirittura. Il titolo è languidamente regionalista, col suo immaginario stradale tutto Italia-anni-Sessanta-più-Maselli-che-Schifano: Strada statale della Riviera del Brenta. Certo: Tiepolo, Palladio, tutta una bildung strapaesana lungo la strada che porta in laguna – la Viziata è infatti padovana, a differenza della Malcontenta, già provincia di Venezia. Nel quadro un grosso fiore rosso, molto spazio negativo, ancora un edificio, una linea (d’acqua?) in basso, una scritta stampigliata: shhhhhhhhhhh. Ora la pittrice si fa più reticente riguardo ai rimandi psicanalitici del dipinto: accogliamo l’onomatopea (undici h, le ho contate) e tacciamo con lei.
La parete sinistra si apre con un Disegno d’infanzia struggente struggentissimo. La tela è stretta e alta, quasi tutta vuota: in alto ha incollato il disegno di cui (sì, ovvio: una casa – la prima, quella in cui l’artista è cresciuta), in basso ha stampigliato i due perni su cui si regge il quadro e di riflesso la mostra: mamma e papà. Silva, per giustificare il formato, parla di pittura cinese e schemi gerarchici: non possiamo che fidarci, notando in aggiunta che 145x60cm sono misure plausibili anche per un’esile bambina padovana. Due passi a sinistra ed eccoci di fronte al piccolo Fort-Da: fondo paglierino, inserto a strisce, un profilo canterino, una striscia sottile di pittura-pittura. Qui siamo al manierismo freudiano: recuperando il gesto rivelatore del nipotino di Freud, Silva allontana e recupera sistematicamente brani della sua pittura di un tempo, una madre con cui è sempre bello giocare, simulando abbandoni impossibili e rifiuti sbadati. Accanto è appeso un altro quadro piccino, questo su tela arancio: Il corridoio. Spazio di transito per antonomasia, arena per i giochi e le fascinazioni infantili della pittrice, anticamera all’ambiente analitico, questo corridoio serve a evocare ancora il corpo della pittrice e il rapporto con le pratiche editoriali del padre, Umberto. Penultimo quadro, penultima glossa: il grande Commentario Italiano Featuring A Portrait of Aligi Sassu. Missione impossibile, recentemente fallita persino in Biennale, quella di make Sassu great again! Splendido antifascista e ardito colorista, il pittore sardo si colloca sempre ai margini di tutte le storie della pittura italiana del Novecento, fattore che lo rende soggetto ideale per il silvesco @commentarioitaliano. Il volto del pittore replicato a matita galleggia su uno scampolo di tela non preparata, come aggrappato alle due folte sopracciglia. Il profilo ondoso delle narici si trasforma in motivo tutto pittorico e, in cima al dipinto, si ripete in una leziosissima tendina da café – Sassu, nel Trentaquattro, era stato tre mesi a Parigi. In basso, altri frammenti, altra pittura, persino una stellina stampigliata: transfer da manuale col vecchio autoritratto un po’ fané che si trasforma, per l’ennesima volta, in ritratto di Silva: io! io! io! Occorre, adesso, girare l’angolo e riguardare la parete da cui siamo entrati: qui è appesa un’ultima memoria familiare e lagunare, My Father by the Shore of the Adriatic Sea. Silva, sua la definizione, chiude la mostra con un quadro votivo: dedica altissima, zero metrisullivellodelmare, alle acque del Lido e alle parole del padre-musa.
Alla fine della visita e della scrittura, sono assalito dal dubbio atroce di aver percorso la mostra al contrario: forse si partiva dal Lido e da Sassu, si correva lungo la statale del Brenta e infine si arrivava al profilo di Silva. Però, ripensandoci, l’inversione di senso – espressione opaca, sospesa tra suggestioni freudiane e idioletto da codice della strada, qui utilizzata per indicare il senso antiorario adottato al posto di quello orario – può essere una valida chiave di accesso per la mostra e per tutta la pittura di Silva. Viziata da Freud e dalla sua ossessiva perizia pittorica, Silva si diverte a invertire continuamente i sensi dei suoi soggetti e dei suoi linguaggi: lo spazio negativo diventa il fondamento positivo della pittura, la rappresentazione di sé passa attraverso la rievocazione dell’altro, le facciate condensano gli interni, la tela risparmiata vale più di quella dipinta. Imboccata controsenso, sempre che sia così, “Spoiled By Freud” offre scorci inaspettati, soprattutto da New York: sul Veneto, sull’Io, sulla pittura oggi.












