Normalmente, oggi, i programmi espositivi delle istituzioni sono sempre più spesso determinati da logiche di rendita economica. Un po’ dappertutto, i grandi spazi espositivi internazionali non appaiono più come i luoghi deputati all’ispirazione e alla sollecitazione dello spirito. Sembrano infatti definitivamente passati i tempi in cui c’erano direttori di museo come il grande Alfred H. Barr Jr., che aveva trasformato il MoMA nel museo più creativo del mondo e al contempo più di successo, sulla base del credo: “Artista, tu comanda che io ti seguo!”. Forse in quel periodo c’erano davvero più artisti di cui poter seguire gli ordini così volentieri, senza se e senza ma. Comunque sia, in fin dei conti, anche oggi un direttore di museo non deve essere pessimista se al momento giusto entrano in scena artisti come Maurizio Cattelan.
I fatti: è un piovoso pomeriggio d’autunno del 2006 quando nel mio ufficio di Francoforte mi raggiunge al telefono Maurizio Cattelan per propormi il progetto di una mostra. In quel momento non parliamo delle possibili opere da esporre ma solo delle condizioni necessarie per la realizzazione del progetto, formulate con chiarezza e in modo amichevole. L’idea è di installare fra le altre opere della collezione dell’MMK Museum für Moderne Kunst di Francoforte dei nuovi lavori, in successione, nell’arco di diversi mesi, mantenendo il silenzio al riguardo, senza rendere la cosa pubblicamente esplicita. Innanzitutto, il “Progetto Cattelan” non doveva essere presentato anticipatamente al mondo come una sua opera d’arte. Così, il primo passo, a marzo, è stata l’apertura nel muro esterno del museo di una fessura orizzontale, nella quale è stato incastrato un tavolo da ufficio. In questo modo, la separazione fondamentale, la linea di demarcazione di cemento tra lo spazio interno — il museo — e quello esterno — la città — è sottratta al controllo. Da allora, infatti, si è creata una corrente d’aria che soffia di continuo dall’esterno verso l’interno del museo e viceversa: se fuori piove anche nel museo il tempo non è bello, mentre se splende il sole spira una dolce brezza. Del resto, il miglior museo non è forse quello senza pareti, nemmeno di vetro? Quale compleanno, poi, stia festeggiando la torta al cioccolato con panna collocata sul tavolo, all’aperto, resta un segreto. Ciò che non deve invece restare un segreto è il fatto che solo un espediente amministrativo ha reso possibile la collocazione del tavolo dentro al muro: l’autorizzazione ad aprire una breccia nella facciata non è stata concessa per la realizzazione di un’opera d’arte, perché il permesso per installare l’opera parla unicamente di un sedicente “lavoro in corso all’aperto” temporaneo. Chissà quando nel futuro i rapporti dovranno nuovamente rovesciarsi — ciò che è arte deve restare arte!
A dire il vero, il tavolo è sorprendente sia visto dall’interno che dall’esterno, e se fosse stato subito chiaro che si trattava di un’opera di Maurizio Cattelan avrebbe ricevuto fin dall’inizio maggiore attenzione. In un primo momento, invece, nessuno immaginava una cosa del genere e si parlava molto in generale di questo tavolo all’MMK. Del resto, non era proprio un tavolo ciò che si vedeva? Ci si occupava soltanto dell’opera, non del suo autore.
In seguito, poi, i visitatori del museo hanno cercato di guardarlo dall’interno verso l’esterno, scorgendo così la torta, mentre il vento li colpiva in faccia. Allo stesso modo si sono fermati davanti alle tre braccia levate nel saluto hitleriano che sbucano fuori da una parete interna del museo. A onor del vero, un’immagine del genere in Germania suscita ancora scandalo e genera proteste, tanto più che Cattelan ha battezzato il lavoro col nome di Ave Maria. Da aprile, all’opera è stata riservata un’intera sala, che le conferisce un’aura dolorosa, e nessuno, finora, si è agitato, infuriato o ha inviato lettere di protesta. Tale circostanza, però, non è da ascriversi a un aumento della capacità di tolleranza dell’animo tedesco, ma a qualcosa che risiede piuttosto nell’opera stessa. Qui non si tratta, infatti, di uno scherzo trasformato in scultura, ma piuttosto dello stupore davanti a un triplice gesto che sembra trasmettere anche qualcosa di protettivo, che evoca le processioni o i gesti cristiani. In questa stanza domina una quiete quasi spirituale. Al riguardo, Cattelan si è espresso sinteticamente: “Quelli a cui non è piaciuto il film di Roberto Benigni La vita è bella non hanno mica riso quando l’hanno visto. In altri termini: il fatto che la gente improvvisamente non dica nulla, non vuol dire che reagisca in modo positivo. Quando entri nella sala dove c’è Ave Maria, ti ritrovi in una situazione complicata perché il lavoro trasmette inaspettatamente conforto e ti viene da pensare all’Ave Maria, alla preghiera. Nella vita non capitano forse spesso momenti in cui solo la preghiera può recarti conforto?”. Del resto, è forse mai uscito qualcosa di più provocatorio del piccolo Hitler di Cattelan? In quest’opera, come in quella, si mostra in modo esemplare e alla massima potenza la paralizzante contemporaneità dei suoi lavori. E chi si ostina ancora a cercare dietro le sue opere il buffone di corte, dovrebbe smetterla una volta per tutte.
Pensate un po’: mentre migliaia di visitatori avevano già visto e si erano interrogati su entrambi i lavori di Cattelan, la critica non aveva ancora captato sul suo schermo radar il segnale. Dipendeva forse dal fatto che non erano stati mandati i comunicati stampa, gli inviti o non era stata fatta alcuna pubblicità? Solo l’artista — solo l’opera — degno di notizia può giovarsi delle vie collaudate e sperimentate della comunicazione?
L’intervento successivo di Cattelan ha preso di mira lo spazio pubblico. A un anno dal campionato mondiale di calcio svoltosi in Germania, su numerose colonne per affissioni di Francoforte sono ricomparsi i colori nazionali nero-rosso-oro. Sopra l’aquila germanica, il fregio trionfale dello stemma tedesco, il manifesto reca la scritta “Cattelan”, mentre sugli artigli dell’aquila si leggono le lettere MMK. A quel punto non potevano proprio esserci più dubbi su chi ci avesse messo la firma.
Da quel momento in poi gli altri interventi sono seguiti con un ritmo più incalzante. Proprio nei giorni a cavallo delle inaugurazioni di Venezia, Basilea e Kassel, in tutto il mondo è stata recapitata una lettera inviata dal Casinò di Monte Carlo (Rue Vladimir 6, 16486 Fialta, Redonda Island) con l’invito — da parte di Daniel Birnbaum, Maurizio Cattelan e Udo Kittelmann — di recarsi a Francoforte il giorno precedente l’inaugurazione di documenta. Oltre all’invito, la busta conteneva una carta da gioco con un jolly, il cui volto può ricordare quello di Cattelan. La lettera, però, era stata intenzionalmente spedita all’ultimo momento e nella maggior parte dei casi non è giunta in tempo a destinazione. Ciononostante, l’invito si è propagato e la carovana dell’arte ha deviato su Francoforte, nel tragitto da Basilea a Kassel.
Sulle conseguenze del suo lavoro una volta Cattelan ha detto: “Non è forse la notizia migliore quella che circola con il passaparola? Quando il lavoro non è preannunciato né atteso ti sorprende, e questo fa sì che l’attenzione sia maggiore. Non sono sicuro… certamente il mio procedimento è meno esplicito, ma senza ombra di dubbio è a carte scoperte”. Non si può non dargli ragione, perlomeno per quanto riguarda il suo “Frankfurter Projekt”. E poi è venuto il giorno in cui un cavallo tassidermizzato è stato appeso, con la testa conficcata nel muro, nella sala centrale dell’MMK. Quest’opera non ha ancora un titolo. Una volta mi è venuto in mente il racconto di Kafka Il nuovo avvocato, il cui protagonista si chiama Bucefalo, come il cavallo da battaglia di Alessandro Magno. Nel corso del racconto, l’immagine inizialmente irritante di un cavallo da battaglia che diventa avvocato si trasforma in un possibile modello di pensiero, annunciando il motivo kafkiano della metamorfosi da animale a uomo. Il nobile animale, che secondo il mito temeva la propria ombra, anche nel nome richiama l’idea di virilità; si trasforma in burocrate, ma questo non sembra andare contro la sua natura, forse anche per via della sua originaria codardia. Probabilmente dietro a questo cavallo si cela tutta un’altra storia, ma io non sono stato ancora informato. Tuttavia, questo non-sapere-perfettamente non arresta in alcun modo il processo del pensiero: spesso le opere di Cattelan, che all’inizio sembrano inaccessibili sul piano simbolico, richiedono unicamente un confronto più attento. Come succede con Frau C., che si staglia sopra gli alberi di Portikus — lo spazio espositivo della Frankfurter Kunstakademie — vestita di nero, in piedi, con lo sguardo rivolto lontano e le braccia aperte in un gesto di benedizione. Una cosa sembra certa in questo caso: qui ha luogo un evento fuori dalla norma. A seconda dell’angolazione da cui si osserva Frau C. appare sullo sfondo la sommità del campanile del Duomo di Francoforte. Duomo nel quale officia come sacerdote Stefan Scholz, che ha scritto sui lavori di Cattelan un testo dal titolo Muri che nascondono e che mi sembra importante riportare qui per intero: “Raduni di massa e parate dell’epoca del nazionalsocialismo, filmati dall’alto. L’individuo scompare nella massa e la massa scompare sotto le braccia levate nel saluto nazista. Resta solo un muro di ossa, carne, capelli e tessuto, un gesto collettivo di concentrata aggressività e decisione. Le braccia nascondono le teste delle persone, ciò che resta è la pura volontà di potenza. Un essere con migliaia di braccia che grida contro il Führer il proprio spirito guerriero. Cattelan disseziona tre arti di questa bestia e li appende al muro. Tre mani che si tendono protettive verso lo spettatore a comporre un riparo sulla sua testa, come l’antico gesto di benedizione utilizzato ancora oggi nella liturgia cristiana. Tre braccia che, tuttavia, sembrano anche protendersi oltre lo spettatore, guidando il suo sguardo lontano, verso un est immaginario, un’altezza più elevata. Un solo braccio alzato sarebbe stato ridicolo, due ancora sopportabili, il terzo evoca già la massa e trasmette all’installazione un aspetto minaccioso. È la scura peluria maschile distribuita con cura meticolosa sul dorso delle mani a segnalare il desiderio di lotta. Il resto del corpo, e soprattutto il volto, è lasciato all’immaginazione. Tizi aitanti e ascetici coi capelli corti e un aspetto decisamente virile; omoni dal collo taurino con grasse guance flaccide, il volto arrossato e cuscinetti di grasso fuori dal collo troppo stretto della camicia; esili amministratori secondo lo stile dei quadri dirigenti dell’epoca nazista. I tessuti severi dei vestiti fanno immaginare i volti e i tratti somatici della presenza evocata nel muro. La piccolezza della stanza contribuisce ulteriormente ad aumentare il senso di pericolo. Cattelan non allude a nessuna forma del passato. I fantasmi ai quali appartengono le braccia restano anonimi. Anche oggi persone dalle quali non ce lo aspetteremmo, potrebbero nuovamente essere convinte dallo sguardo di qualcuno, dietro ipotetiche promesse di benessere e protezione, ad alzare le braccia e affilare i coltelli. Un cavallo che entra nel muro con la testa è divertente e tre braccia isolate non sarebbero da meno se l’epoca nazista oggi fosse soltanto Storia e non si dovesse temere la possibilità di una numerosa discendenza spirituale delle camicie brune di un tempo. Se si potesse ridere ad alta voce dell’installazione di Cattelan sarebbe un buon segno per la nostra società.
Un tavolo scompare per metà in una breccia nel muro e resta sospeso in aria con due delle sue quattro gambe. La torta posta sulla parte esterna si può vedere solo dall’interno, ma si potrebbe mangiare solo sedendosi fuori. All’esterno resta nascosta allo sguardo. Chi è all’interno si chiede come poter arrivare alla torta; chi sta all’esterno si chiede perché c’è un tavolo sospeso in aria. Da entrambi i punti di vista, il tavolo di Cattelan è un problema: sia visto dall’interno, perché indissolubilmente collegato a qualcosa da mangiare che però non si riesce a raggiungere; sia visto dall’esterno, in quanto derubato della sua funzione. Da qualsiasi punto la si osservi, questa installazione è irritante. È divertente da guardare, tuttavia, getta anche una luce significativa sul modo in cui funziona la percezione umana e, al di là di essa, la conoscenza riflettente. Un oggetto quotidiano viene trapiantato in una costellazione intrinsecamente assurda, che suscita curiosità e trasforma una cosa quasi invisibile, perché così normale come un tavolo, in un oggetto di percezione più intensa. L’arguzia dell’installazione non si rivela se la si guarda solo da fuori. Soltanto chi si prende la pena di guardarla dall’interno e dall’esterno capisce di più, senza però comprendere fino in fondo.
Un museo desta curiosità perché è in grado di acuire la percezione, ma per far questo deve infliggere una ferita al corpo del proprio edificio. Anche a quello che si può vedere in un museo si finisce per fare l’abitudine e si sente il bisogno di un cambiamento. Il lavoro di Cattelan è anche un grande gesto di follia. In tutte le ricerche scientifiche serie ci vuole sempre anche un pizzico di humour nero poiché le cose che conosciamo sono sempre molte meno rispetto a quelle ancora da conoscere — non soltanto per quanto riguarda ciò che è ancora da scoprire, ma anche per le innumerevoli forme di conoscenza possibile di ciò che già si conosce. Cattelan fa correre lo spettatore dall’interno verso l’esterno, e poi dall’esterno verso l’interno, come in una ruota per criceti, senza che l’oggetto possa mai essere colto nella sua totalità. O ci si fa irretire dal proprio impulso alla conoscenza o si impara a ridere di sé, a deporre l’accanimento, a vedere la vita come un gioco e a non prendersi troppo sul serio; oppure, se la si vuole prendere seriamente, a diventare umili” (Stefan Scholz).
Cominciato in sordina, forse questo progetto si concluderà in un futuro altrettanto in sordina. Ora, però, da poco tempo c’è un altro lavoro di Cattelan che gira per le sale e attorno all’MMK. È un punk piccolo e tarchiato, terribilmente malridotto e alto solo un metro e mezzo. Ogni tanto si rivolge alle persone in modo volgare, oppure fa il carino e chiede l’elemosina.