Le grandi mostre, si sa, si prestano sempre alle più disparate interpretazioni e angolazioni critiche. Un po’ come la formazione della squadra del cuore o della Nazionale. Mai (o quasi) che qualcuno cerchi di leggere una mostra per quella che è. Il vero e solo dibattito è rappresentato dalle inclusioni ed esclusioni. “Italics” non è sfuggita a questa logica, che anzi ha enfatizzato e dilatato spesso anche oltre la buona educazione. Il povero (per modo di dire) Francesco Bonami ha dovuto subire le violenze e gli insulti di molta parte della critica italiana in fase di smobilitazione e rassegnazione (Achille Bonito Oliva e Germano Celant in primis), visto che Bonami ha ormai rubato loro definitivamente la scena. Si sa, ogni curatore vuole primeggiare e sbalordire. E Francesco, un po’ come il geniale Mourinho, sceglie la “formazione” delle sue mostre anche per alimentare polemiche e discussioni, affidando messaggi trasversali ai media e ai colleghi. Passata la stagione di Bonito Oliva e di Celant, ora è la volta di Francesco Bonami o Massimiliano Gioni e pochissimi altri, e non c’è più trippa per gatti. Ma l’arte, la storia dell’arte è costellata di strategie, di esclusioni e inclusioni. A volte apparentemente incomprensibili. Io trovo “Italics” geniale: Francesco fa credere che stia iniziando una nuova stagione, con lo sdoganamento di artisti impossibili ed esclusioni imprevedibili (una per tutte: Mimmo Paladino, il miglior pittore italiano, lasciato fuori), la resurrezione di artisti morti da sempre, il risveglio coatto di altri addormentati. La commedia dell’arte, come quella della vita, ha bisogno di scossoni imprevedibili per sentirsi vitale.
Un rimescolamento della storia dell’arte? Certo, ma per il momento “Italics” è solo uno straordinario contenitore di polemiche nazionali, molte volute, alcune previste, qualcun’altra no. Ma il successo della mostra, e la possibilità di guardare l’arte italiana con ottiche anche diverse, è stato assicurato dalle astuzie di quel “maledetto toscano” che è Francesco Bonami.
Giancarlo Politi
Sappiamo bene che uno degli sport preferiti dagli italiani è la polemica, e purtroppo non quella vera con la quale ci si batte per delle idee, ma quella che rimbalza e cresce urlando su se stessa in autodifesa dell’ego o del piccolo hortus conclusus conquistato. Tale è il male di cui soffrono la politica e la cultura italiane, ed è stato questo pensiero, suscitato dalla lettura di ogni nuova polemica scatenata contro “Italics”, che mi ha reso, in parte, ben disposta verso la mostra. È vero che gli italici hanno una forte relazione con il passato che rischia di inchiodarli a uno sguardo autoreferenziale e quindi alla marginalità; ma nemmeno il più irriverente di questi — Maurizio Cattelan — sembra rinunciarvi. Le sue nove sculture in marmo bianco di Carrara, distese a terra come cadaveri coperti da un lenzuolo, accolgono i visitatori nel grande atrio all’inizio del percorso espositivo e, esse da un lato rievocano le immagini delle troppe vittime delle stragi di quegli anni Settanta che pesano come il piombo nella nostra Storia, dall’altro rappresentano tutti i morti, All. Formalmente, però, quei corpi s’inscrivono nel solco del passato, quello già tracciato dal Cristo morto di Mantegna e del Cristo Velato di San Severo a Napoli, per arrivare fino a Lo spirato di Luciano Fabro, collocato non a caso da Bonami a chiusura della mostra. C’è da rimarcare che quest’ultima non segue un percorso cronologico, e nemmeno storico; piuttosto, segue un personale andamento tematico e in parte stilistico/formale che il curatore ha saputo, con abilità, far emergere con accostamenti inediti e imprevisti che aiutano a scardinare le sequenze congelate dalla Storia. Certe presenze imbarazzanti (come Annigoni, Clerici, Ferroni, Emblema), se presentate all’interno di un percorso storico, difficilmente avrebbero potuto sostenere la loro inutilità; mentre così, all’interno di un allestimento che ha privilegiato l’accostamento linguistico e tematico, più facilmente si sono neutralizzate e assorbite. Ogni tanto, credere nella forza di ogni singola opera e non troppo nell’avvallo della Storia risulta efficace e serve per ridare vitalità a opere di maestri accostate a quelle degli artisti delle ultime generazioni. Nella mostra ci sono passaggi addirittura da capogiro nella sequenza degli ambienti riallestiti di Colombo, Pistoletto, Alviani e Fontana. E funziona in questo modo consonantico la sala dedicata alla sensibilità femminile, che mette insieme le camere d’aria di Carol Rama, le carte di Ketty La Rocca, i volti di Marisa Merz con la serie degli autoritratti di Margherita Manzelli e quelli della prima Vanessa Beecroft. Poi scatta l’inevitabile gioco degli assenti che, anche se non rappresenta un modo corretto per giudicare una mostra, è inevitabile. A questo proposito, c’è da sottolineare almeno un grande assente, nonostante sia stato più di tutti protagonista di quelle barricate di cui tanto ha parlato Bonami: Vincenzo Agnetti. Proprio a lui l’Italia, i linguaggi e il sistema paesano stavano così stretti da spingerlo oltreoceano già nel ’78 come hanno fatto, peraltro, quei pochi artisti italiani conosciuti all’estero e lo stesso Bonami, perché chi rimane qui è ancora destinato all’oblio e a sperare che dall’estero arrivino i collezionisti milionari. Da apprezzare alcune riproposte che ripercorrono quei solchi entro cui si è venuta delineando la Storia d’Italia: la paralisi della violenza mafiosa e della politica con le forti immagini di Letizia Battaglia, di Tano d’Amico, del ’77 e della P38; o quelle che, nel “Viaggio in Italia” di Ghirri, Basilico e Jodice, riscattano l’immagine migliore dell’Italia: le realtà marginali, del lavoro quotidiano, del silenzio, delle nebbie, del tempo sospeso in un paesaggio provinciale. Gli italici sono maestri nel dedicare monumenti al quotidiano; si pensi a Totò e a Morandi che, senza mai essere uscito dalla sua stanza, trionfa oggi al Metropolitan Museum di New York. Ma per far comprendere tale sensibilità oltre confine ci vorrebbe più tempo, più attenzione, più approfondimento, qualità incompatibili con una visione abbozzata come quella della mostra.
Chiara Bertola
Il vero critico non deve mai servire il potere, deve essere sempre un elemento di disturbo; oggi il critico e il curatore di successo, invece, sono solo servi del potere e sparecchiano come camerieri. Sono, appunto, filippini della critica. Un nome? Francesco Bonami detto ormai Frankie Bonanima visti i cadaveri, da Annigoni a Guttuso, che ha recuperato per la mostra “Italics”. La lista di quelle opere può essere definita in un solo modo: indecente.
Achille Bonito Oliva a Stefano Bucci, Il Corriere della Sera (26 aprile)
Immaginate Barack Obama che definisce Hillary Clinton “una filippina della politica” o Hillary Clinton che chiama Obama “un cameriere dell’Illinois”. Se davvero accadesse, le carriere politiche della Clinton e di Obama finirebbero all’istante. Questo perché negli Stati Uniti d’America tutti sanno che fra la polemica, l’attacco o la critica impietosa e il razzismo, la volgarità e l’offesa gratuita, esiste una linea d’ombra che non può essere mai superata. Chi la supera, paga. La cosa misteriosa è il perché un personaggio pubblico come Achille Bonito Oliva abbia deciso di farsi un autogol cosi clamoroso e maldestro. Avrebbe potuto limitarsi alla legittima definizione “indecente”, relativa alla lista di artisti che presenterò alla mostra “Italics” a Palazzo Grassi nel prossimo settembre, alcuni dei quali sulla carta potrebbero far venire effettivamente la pelle d’oca. Ma le mostre si fanno con le opere d’arte e non, come certi governi, solo con i nomi. E in mostra a Venezia i “cadaveri” Annigoni e Guttuso saranno una sorpresa. Quindi, se non fosse già troppo tardi, suggerirei ad Achille Bonito Oliva di risparmiare le munizioni a dopo aver visto la mostra. Allora sì che potrà verbalmente — considerato che oltre che filippino sono pure un servo del potere — gambizzarmi se non addirittura accopparmi definitivamente.
Francesco Bonami, Il Corriere della Sera (28 aprile)
Francesco Bonami prima ancora dell’apertura è già riuscito a scatenare un putiferio col risultato di ricevere insulti che poco hanno a che fare con l’eleganza dei musei. Un assaggio? “Servo del potere, sparecchia come un cameriere” (Achille Bonito Oliva). E poi, ancora più sbrigativo: “È un parvenu, un pittore mancato” (Mimmo Paladino). “Che cattivo costume, quello di criticare le mostre senza neanche averle viste”, afferma lo storico e critico d’arte Vincenzo Trione. “Dietro gli attacchi a ‘Italics’ si nascondono molti preconcetti. Invidie generazionali, meschinità personali, uno strisciante provincialismo. Ma, soprattutto, distanze culturali. Bonami adotta un approccio decisamente anti-ideologico. È quasi un elogio del genus italicum in un’epoca di globalizzazione imperante. In questa vicenda, i veri reazionari sono i reduci dell’Arte Povera e della Transavanguardia”. “Bonami è il Funari dell’arte”, scherza Piero Mascitti, Direttore della Fondazione Rotella. “Non c’ è dubbio che ha la grande capacità di attirare l’attenzione dei media usando la provocazione come strumento corrosivo per comunicare idee”. Bonami parla come un fiume in piena: “Germano Celant e Achille Bonito Oliva sono come la Democrazia Cristiana e il Psi durante la prima Repubblica: hanno controllato il sistema dell’arte. E oggi c’è il tentativo di bloccare qualsiasi cosa che non sia sotto la loro egida, qualsiasi visione diversa, non dico rinnovamento, troppo abusato. Dico solo che si vuole bloccare qualsiasi cosa che aiuti ad andare avanti”. Ed è lo stesso Celant, per ora, a chiudere simbolicamente, con fermezza e una dose di saggezza, il ballo delle prese di posizione: “Parlare senza aver visto è solo arbitrario, non rispettoso. Fare una mostra è una forma di scrittura. Sono gli spazi, le dimensioni, i confronti, non solo i nomi a costituire una rassegna. E allora, vediamola questa mostra. Magari per stroncarla, ma vediamola”.
Gianluigi Colin, Il Corriere della Sera (11 settembre)