Celeste Kunst è un artist-run space che nasce in un contesto periferico, a Teramo, nell’estate 2021. Incontro Claudia Petraroli e Alessandro Di Massimo su Zoom e mi raccontano come nasce un progetto curatoriale in una lavanderia.
Eleonora Milani: Ho scoperto Celeste per caso, su Instagram. Il logo, quella grafica, da ragazzina cresciuta negli anni ’90 in Italia (ed è subito stereotipo) mi hanno ricordato uno dei loghi di Sailor Moon; non solo, in realtà c’era un mix di riferimenti a me familiari nel vostro logo bianco su fondo celeste.
Alessandro Di Massimo: Speravo avessi colto il messaggio subliminale, in realtà è un rip off del logo di Cielo Alto, la lacca delle nonne negli anni ’80.
EM: Venivamo da un anno particolare, dove abbiamo assorbito l’arte principalmente su Instagram, e l’apertura di questa lavanderia mi è sembrata singolare. Poi il “kunst”, l’ironia è sottile, sembra il tentativo di azzerare quel pretestuoso riferimento all’Arte o alla pratica curatoriale.
ADM: Più che curatoriale, il nostro approccio lo definirei come un atto di cura nei confronti degli artisti e dei lavori che decidiamo di ospitare. Da artisti lo facciamo in maniera sicuramente diversa.
Claudia Petraroli: In questo senso mi sento di dire che le mostre di Celeste diventano sempre più complesse, rispetto alle primissime, quindi l’approccio curatoriale è più presente oggi rispetto a un anno fa. C’è questa volontà di prenderci cura del lavoro degli altri, e da artisti abbiamo riscontrato che questa attenzione spesso manca, su più livelli, nonostante ci siano tante occasioni per fare esperienze di residenze, progetti, mostre ecc. – che spesso si rivelano dozzinali. Con Celeste vogliamo fare le cose per bene, mettendo gli artisti nelle giuste condizioni. Per la prossima mostra, ad esempio, ospiteremo l’artista diversi giorni qui, mentre in occasione di quella di Carla Rossi abbiamo prodotto un piccolo leporello con un testo di Augusto Fabio Cerqua – in collaborazione con Panopticon, una realtà editoriale indipendente.
EM: Nel copy che accompagna il vostro primo post di presentazione dello spazio leggo una serie di denominazioni singolari. Vi definite spazio “pro- apocalittico”, che esplora possibilità espositive “prive di speranza”. È un tentativo di allontanamento dalle sovrastrutture di cui si vestono esperienze curatoriali e/o artistiche?
ADM: Celeste nasce in un contesto storico preciso, come reazione al primo anno di pandemia. Entrambi siamo appassionati degli scritti di Franco ‘Bifo’ Berardi che, semplificando un po’, ci insegna ad abbracciare la catastrofe, la distruzione, per trovare soluzioni per arontare il presente. Guardando al tono dei testi che solitamente si leggono nelle presentazioni di eventi e mostre, abbiamo scelto un approccio diverso, meno moderato, ispirandoci alle fanzine anni ‘90 come Torazine.
CP: Negli ultimi tempi riflettevo proprio sul fatto che io e Alessandro veniamo da realtà diverse dall’arte contemporanea in senso stretto. Ci siamo conosciuti più di dieci anni fa mentre organizzavamo un festival di musica a Teramo. Le nostre realtà di provenienza quindi non hanno queste sovrastrutture, che si riscontrano negli ambienti dell’arte più pettinati, in questo senso non sentiamo la necessità di allinearci né imitare approcci più canonici. Celeste nasce nel momento in cui Alessandro ha notato che la lavanderia che oggi ci ospita, durante la pandemia si riempiva di gente che evadeva dalla quarantena, diventando uno spazio di socialità. Anche se Celeste è un progetto veicolato sui social, è un luogo fisico in cui però i locali non hanno idea di cosa sia l’arte contemporanea.
EM: La lavanderia è già di per sé un luogo senza pretese, non deputato all’arte. Riferendovi a Celeste parlate anche di “spazio irrilevante”. Come è fatto uno spazio irrilevante?
ADM: È tutto molto legato al contesto in cui operiamo. Teramo è la provincia della provincia, funziona su una scala molto piccola. Non ci sono luoghi per l’arte contemporanea a eccezione di sale espositive gestite dal Comune con tutte le sue sovrastrutture burocratiche e gestionali che limitano l’uso dello spazio agli artisti. Teramo per noi è dunque un luogo irrilevante per l’arte contemporanea. Nel post-pandemia l’arte, come dicevi all’inizio, si faceva e si esperiva online; molti artisti hanno lasciato i propri studi per mancanza di fondi, e lo spazio fisico per fare l’arte è stato messo in discussione. Quindi qualsiasi luogo dove si poteva tornare a fare arte diventava una possibilità, diventava rilevante.
EM: Agite sulle nozioni di fallimento, di irrilevanza, concetti che lavorano in “negativo” rispetto alle aspettative che ci si pone quando si apre uno spazio. Come sostenete lo spazio e come vi relazionate alla dimensione locale?
CP: Agiamo in negativo, ma in realtà vogliamo fare quello che ci piace, che ci dia la libertà di sbagliare e, perché no, di non prenderci troppo sul serio. Quando quest’anno abbiamo inaugurato c’erano tante persone, al di sopra delle aspettative, c’è questa voglia di connessione con la gente. Il proprietario della lavanderia ci ha dato la possibilità di usare questo luogo, in realtà ho scoperto di conoscere questa persona da tempo, e l’ho realizzato solo dopo. È sorprendente che abbia accettato di ospitare Celeste, che ha una programmazione continuativa da due anni ormai.
ADM: Sì, nonostante le premesse che ci siamo dati Celeste ha una programmaticità precisa: lavoriamo con una programmazione annuale, il progetto ha un finanziatore, gli artisti vengono retribuiti nella misura delle nostre possibilità. La nostra attitudine nella progettualità funziona in modo contrario all’atteggiamento di cui parlavamo. Ci collochiamo in una posizione interessante, Teramo è un po’ la connessione fra Pescara e L’Aquila, l’anello fra due contesti dove sono presenti realtà più istituzionali. Celeste può agire da collegamento fra queste due realtà.