Nel gennaio del 1960, sulla neonata rivista Azimuth, Otto Piene firmava il contributo “L’Oscurità e la Luce”, un articolo che mi pare possa ben introdurci al tema di questo testo.
L’essere umano, parafrasando Piene, è una creatura della luce. Sorta di falena delle latitudini industriali, egli orbita e frulla attorno a fonti luminose che all’occorrenza si adopera a creare. La notte, per contro, rappresenta il “momento classico per gli avvenimenti drammatici, e specialmente per i tragici”1. Il notturno avvolge gli spiriti inquieti e i cuori un po’ tristi. Il buio pullula di personaggi dal temperamento saturnino; nel buio la flâneuse si insinua, la ladra arraffa, la poetessa produce, l’amante si confessa. Esso è complice discreto dell’ossessione, del morboso, della malizia.
Gli ambienti Spazio Elastico (1967-1976) di Gianni Colombo, Film Ambiente (1968-69) di Marinella Pirelli e Dilatazione Spazio-Temporale (1969) di Grazia Varisco vengono allestiti sul finire degli anni Sessanta. Molteplici sono le ragioni che mi spingono a proporre tale singolare triangolazione, a partire dal fatto, contingente, che tali ambienti siano attualmente percorribili2. Gli artisti in esame, ideologicamente allineati (i cinetici Varisco e Colombo) o meno (l’eccentrica Pirelli), condividono un medesimo panorama culturale che mi piace pensare nei termini di una costellazione. Una costellazione alimentata dai testi di Gillo Dorfles, Tommaso Trini e Lea Vergine. Una costellazione che, dai fasti di Zagabria alle ricerche parigine, vede nella Milano e nella Roma degli anni Sessanta un pianeta fertile. Una costellazione finanche meccanica. Colombo, Varisco e Pirelli: un’apparecchiatura da ottico di precisione in fondo non dissimile. Certo i fatti d’arte smentiscono la proprietà commutativa: invertendo l’ordine degli addendi il risultato cambia e pure radicalmente. Lenti, prismi, proiettori, diapositive e quinte: una koinè trasversale e del tutto imprevedibile, in cui il motorino, sia esso programmato o non del tutto vincolato, ronza e sibila a tutto volume.
Negli ambienti di Varisco, Colombo e Pirelli, lo spazio dell’opera risulta tecnicamente rivelato dall’azione dinamica della luce nel buio. Si tratta forse del caso più potente in cui il credo delle sperimentazioni cinetico-programmate, esemplificato dal retaggio marxista di liberare l’opera d’arte dal valore cultuale che la ingabbia, può dirsi concettualmente assolto. L’ambiente, a maggior ragione alla fine degli anni Sessanta, esiste solo nella misura in cui, per un intervallo di tempo predefinito, viene costruito e percorso. Quando l’esposizione chiude i battenti, l’ambiente letteralmente scompare, le sue componenti vengono disgiunte, raccolte e momentaneamente riposte in un luogo sicuro. Solo la documentazione e i successi allestimenti divengono parlanti, motivo per cui mi pare imprescindibile adottare una prospettiva documentaria. Tuttavia, alla linearità di un approccio rigorosamente cronologico, preferisco sperimentare la sincronia di un pensiero che mutui i suoi parametri dal corpo a corpo con il buio. Scrivendo, ho in effetti appurato la coesistenza di molteplici indici di misurazione dell’oscurità. Penso alla “scala del cielo buio di Bortle”, che scansiona la luminosità del cielo notturno ripartendolo per regioni, ma anche alla scala di magnitudine che stima la brillantezza delle stelle. Senza eludere il dato temporale, nevralgico nel caso di sperimentazioni partecipi di un determinato frangente storico, il criterio che ordina gli ambienti segue le forme mediante cui, in essi, la luce rompe l’oscurità penetrandola in maniera sempre più pervasiva. Sottolineo che non si tratta di una questione di intensità, bensì di gradi di buio e, per contro, di apparizione della luce. La danza di una bolla viva, l’azione disorientante del reticolo, l’itinerario di rifrazione e riflessione dell’immagine in movimento: queste le figure che animano una storia ambientata alla fine degli anni Sessanta e che ho intenzione di raccontare.
Dilatazione Spazio-Temporale di Grazia Varisco rappresenta un caso di parziale omonimia, dal momento che l’ambiente mutua il proprio titolo dal più noto intervento Dilatazione spazio-temporale di un percorso realizzato il 21 settembre del 1969 nel contesto della rassegna comasca “Campo Urbano”. Descrivendo l’azione di Varisco, Luciano Caramel, tra i promotori dell’iniziativa, ricorre alla polisemica figura del diaframma, elemento separatore, ottico e acustico, che rimanda anche alla fisiologia della respirazione3. L’artista milanese modifica la topologia di una strada attraverso una muraglia di cartoni che si snoda nell’area delimitata dagli edifici. La trasformazione dello spazio percepito risulta in primis cinestetica, invitando lo spettatore ad avventurarsi in un iter che, originariamente rettilineo, viene riconfigurato in un percorso serpeggiante, ma anche multimodale. Le sonorità della città e i suoi rituali, dal caffè alla ritmica stridente delle saracinesche, non vengono espulsi dall’opera, ma ne risultano così amplificati.
A fronte della similarità terminologica a cui accennavo, mi pare tuttavia che Dilatazione spazio-temporale costituisca per più ragioni un rovesciamento dell’iniziativa comasca. L’occasione espositiva viene offerta dalla personale di Varisco tenutasi alla Galleria Schwarz di Milano nell’ottobre del 1969; Dorfles, introducendo la rassegna, sottolinea la “specialissima facoltà cinestetica” di cui l’artista è portatrice4. Il primo piano dell’esposizione in via del Gesù 17, in linea con le sperimentazioni cinetico-programmate, dispiega un percorso scandito dalla dinamizzazione di elementi luminosi, retini e vetri industriali, una narrazione aniconica, tra fatalità e programmazione, alimentata da motorini e fonti invisibili che producono tracciati luminescenti pronti ad agganciarsi alla retina. Invece, ciò che si consuma nel seminterrato di Schwarz costituisce un unicum nella produzione di Varisco. Per rendere ancora più chiara l’operazione messa in atto dall’artista, prendo le mosse da una planimetria di Dilatazione spazio-temporale (ignota al pubblico che avrebbe esperito l’ambiente)5, che mi sembra restituisca in maniera eloquente lo choc della creazione dello spazio per mezzo dell’azione congiunta di buio, luce e movimento. La planimetria registra il perimetro di un volume plissettato da anse, curve e angoli, corrispondenti ad altrettante quinte che Varisco cataloga in ordine alfabetico. Una maquette dell’ambiente ne sviluppa tridimensionalmente il profilo irregolare. Osservando pianta e matrice, la mia immaginazione è corsa alla pianta “ondulante” del borrominiano S. Carlino alle Quattro Fontane di cui parla anche Dorfles6. Ma, e qui si insinua l’aspetto più sorprendente, il fruitore dell’ambiente milanese si trovava catapultato in una situazione del tutto inaspettata.
Una porzione del seminterrato di Schwarz, debitamente sigillata con pannelli oscuranti, racchiudeva il sacello sopra descritto. Accedendo all’ambiente il soggetto veniva inghiottito in uno spazio claustrofobico completamente buio. Come noto, l’esperienza dell’oscurità attiva una modalità percettiva del tutto peculiare: i meccanorecettori disseminati sull’epidermide fremono, l’occhio tradisce, i rumori paiono amplificati. All’interno di un simile contesto, in effetti, non solo non si vede praticamente nulla, ma neppure si avverte lo spazio, rimpiazzato da una tenebra omogenea che non lascia scampo. Nella notte artificiale si consuma l’incantesimo della programmatrice Varisco.
In una breve descrizione dell’ambiente in risposta a un carteggio con Germano Celant7, Varisco ne illustra il funzionamento. Sospeso al centro dello spazio, un piccolo proiettore rotea in senso antiorario. All’interno del congegno è riposta una lastra metallica altrettanto minuta, su cui l’artista ha praticato un foro microscopico. Nel suo “lentissimo” moto di rotazione, il raggio luminoso si rifrange contro le quinte oscure che strutturano l’ambiente. Qui, entra in gioco la prima figura di cui vorrei trattare, ossia la bolla di luce colta nella sua danza siderale. Mentre il fruitore esplora con circospezione la cavità, il raggio luminoso, guizzando sulle coulisse sfalsate, si è fatto bolla fremente. Fluttuando pigra, essa “diventa un respiro”, mi ricorda Varisco: il respiro di uno spazio in cui “il pensiero rincorre la forma”. Se questa entità leggera rimanesse inalterata, nulla potrebbe rivelare della conformazione su cui scivola. Invece, la magia per cui tale bolla si deforma e distorce, divenendo sfera, sagoma lanceolata e forma zigrinata, permette al fruitore di immaginare uno spazio che si contrae e dilata come il diaframma nell’atto di respirare.
La narrazione nel buio prosegue, approdando allo Spazio Elastico di Gianni Colombo. Nella fattispecie, mi riferisco alla prima versione con cui l’ambiente è stato presentato nel contesto di “Trigon 67 Ambiente/Environment”, collettiva tenutasi nell’autunno di quell’anno alla Kunstlerhaus di Graz, e al successivo allestimento romano, inaugurato nel gennaio del ’68 alla Galleria L’Attico di Fabio Sargentini. Come ha dimostrato Marco Scotini, Spazio Elastico non rappresenta soltanto un’opera cruciale nella produzione di Colombo, ma deve essere anzitutto inteso quale ricettiva esperienza di passaggio8.
Allievo con Varisco di Achille Funi a Brera, Colombo si era diplomato con una tesi su Max Ernst. Di tale liaison surrealista rende conto uno dei suoi primissimi lavori: una scultura in ceramica composta di tre elementi semoventi che il fruitore poteva liberamente muovere. In tale omaggio al concretismo di Arp già si annida il germe di una triangolazione che la prassi di Colombo avrebbe sviluppato nello spazio, ravvisando nell’interazione tra oscurità e luce uno strumento atto a testare con ludica (e lucida) insistenza il sensorio umano. Una triangolazione che mi pare si ponga sul crocevia di tre linee di ricerca incentrate sulla costruzione dinamica dell’ambiente: la componente manuale, luogo di un inventivo “pensare con le mani”; la dilatazione della superficie, organismo plastico e motorizzato che prelude alla generazione di uno spazio che non conosce quiete; i fenomeni di propagazione della luce e lo studio dei loro effetti sulla retina. Penso in questo senso alle superfici vive di Strutturazione pulsante e Rilievi intermutabili del 1959, ai manufatti componibili di Rotoplastik (1960) e ancora alle architettoniche Cromostrutture (1961), che svelano la forma illuminandola progressivamente.
A partire dagli anni Sessanta la luce e il buio invadono o, più precisamente, originano i passaggi di Colombo. Nel 1964, mentre l’artista elaborava i primi studi meccanizzati di Spazio Elastico, i reticoli luminescenti di After structures (1966-67), turbinavano nell’ambiente buio, imprimendosi per pochi istanti sulla retina del fruitore. Tale stratagemma percettivo figura nella versione austriaca di Spazio Elastico e ancora nell’interattivo Campo praticabile installato nell’ottobre del 1970 allo Studio Marconi di Milano.
Riporto una sintetica descrizione di Spazio Elastico: un contenitore cubico praticabile dal perimetro di quattro metri viene suddiviso in volumi di eguale dimensione, generati dall’intersezione ortogonale di fili resi fluorescenti e illuminati dalla Lampada di Wood. Nel buio, quattro elettro-motorini sottopongono il reticolo a una progressiva dinamizzazione in direzione orizzontale e verticale. Ciò che la manifestazione austriaca contemplava e che invece scompare dalla personale romana del ‘68, è l’alterazione della pendenza pavimentale e la proiezione angolata del reticolo luminoso sulle pareti circostanti9. A Graz, oscurità e luce perseguono un programma socio-estesiologico condiviso: privare l’individuo, camminatore che confida nell’astrazione morta del cubo, della misura del suo passo. In un campo alterato dal baluginare plastico della griglia, il soggetto deve ricalibrare la propria andatura disinvolta, convivere con le allucinazioni della pupilla, districarsi nella ragnatela luminosa che il ragno-Colombo ha teso con sapienza animale. Lo spazio è materialmente elastico: esso si contrae e distende alla pressione minima di un dito. Non meraviglia che Tommaso Trini titoli così una recensione uscita su Domus nel marzo del 1968: “Lo spazio respira, e noi con lui, liberi e attivi”10.
Cercando in una biblioteca romana l’opuscolo della personale di Colombo da Sargentini, mi sono imbattuta in una copia catalogata nel Dono Venturoli. Marcello Venturoli, saggista e critico d’arte che presumibilmente dovette percorrere Spazio Elastico proprio quell’autunno, copre il fascicolo di osservazioni scritte in un corsivo quasi illeggibile. Sottolineando con un pennarello rosso alcuni passaggi, Venturoli riassume in maniera laconica: “Abitare, percepire, autodeterminarsi”. La bolla di luce si è infranta in mille filamenti: la sua danza ora vibra in un test meccanico fatto di linee. Si inizia a vedere la luce.
Nell’itinerario notturno che ho finora seguito, Film Ambiente (1968-69) di Marinella Pirelli infrange il buio con intensità multidirezionale. Il brevetto Schermo composito per proiezioni luminose con effetto spaziale (n. 12550 A/69) viene depositato il 6 febbraio del 196911: la consultazione del documento fornisce uno spaccato tecnico-poetico della prassi di Pirelli, che dai primissimi anni Sessanta abbraccia il cinema sperimentale, approfondisce gli studi sull’ottica, per poi “abbandonare” duchampianamente la pittura. L’invenzione dell’artista, definita in seguito dalla medesima Environmental Screen, Stanza di Luce o Stanza della Luce, eccede la visione stereometrica, ideando una modalità di propagazione e fruizione dell’immagine nello spazio impostata sull’utilizzo di un unico proiettore. Il fruitore, sollevato dai vincoli di un punto di vista prestabilito, partecipa a uno spazio in cui schermo e immagine, per Pirelli, costituiscono un indissolubile tutt’uno. Tale spazio immaginifico si materializza in un sistema componibile di schermi-pannelli sorretto da tubi in acciaio cromato, che accresce e diminuisce il proprio ingombro a seconda dell’ambiente che lo contiene. La planimetria modulare con assetto angolare dei pannelli, apparentemente identici, cela variazioni millimetriche calibrate sulla posizione della focale del proiettore, motore pulsante di tale “schermo particolare”12. Il fascio delle immagini in movimento da esso emanato, incontrando l’angolo di Film Ambiente, si diffonde sulla griglia e sullo spazio circostante senza infrangersi e decuplicandosi in un moto eccentrico e concentrico. Le strisce che oscillano dalla struttura metallica sono realizzate in Perspex, un materiale termoplastico che, trattato con sicoprint serigrafato, imprime su ogni listello un reticolo di punti microscopici. Lungi dal costituire un vezzo formale, tale tessitura permette di comporre “superfici diffondenti discontinue”, rese talvolta riflettenti, su cui la luce penetra o si rifrange, generando un’atmosfera pulviscolare. Nelle parole di Pirelli, Film Ambiente nasce da un’esperienza quotidiana: quella del raggio di luce che, penetrando dalla finestra alle prime luci del mattino, rivela un paesaggio pulviscolare. Anche in questo caso mi riferisco a un particolare allestimento dell’opera, il primo per l’esattezza, secondo un modello che si manterrà sostanzialmente inalterato sino ai primissimi anni Settanta.
La prima esposizione di Film Ambiente viene ospitata dal 12 febbraio del 1969 alla Galleria de Nieubourg di Franco Toselli a Milano, per poi figurare nell’estate dello stesso anno alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, alla Biennale di San Benedetto del Tronto e, due anni dopo, alla prestigiosa rassegna “Prospekt 71” di Düsseldorf. L’esposizione milanese (visitata dallo stesso Colombo, come attestato dalla sua firma nel registro degli ospiti) presenta una serie di componenti destinate a sparire o a comparire solo saltuariamente negli allestimenti successivi al 1972. Le pareti della sala di Toselli vengono dipinte di nero; l’esoscheletro metallico, come testimoniano i registri contabili e l’unica fotografia pervenuta e scattata da Berengo Gardin, appare chiuso da un soffitto in compensato scuro; la pavimentazione è resa praticabile da una scacchiera di specchi in cristallo fumè posati su uno strato di gomma piuma. Penetrando nel labirinto di Pirelli, il corpo del fruitore, schermo tra gli schermi, rifrange le proiezioni della serie scultorea Nuovo Paradiso di Gino Marotta, immortalata in un filmato girato dalla stessa Pirelli in 16mm. Pioggia, Mela, Rosa e Luna, per citare sono alcuni degli oggetti riprodotti, si moltiplicano lungo l’asse di Film Ambiente e con ampie pennellate di luce interagiscono con le strisce in sicoprint, colorando la pelle del fruitore, che nel buio diviene eterea pittura vivente, onda che tocca e viene toccata. A completare tale ambiente multimodale, si situa un dispositivo acustico progettato da Livio Castiglioni: una colonnina di fotocellule sensibili collegate a oscillatori elettromagnetici, traduce lo scorrere delle immagini e i movimenti dei visitatori in altrettanti elementi sonori.
Negli anni a venire sarebbero occorse inevitabili modifiche logistiche: la sostituzione del Perspex con il policarbonato, della pellicola con dei caroselli di diapositive dipinte da Pirelli con inchiostri per il vetro, della musica prodotta dal vivo con sonorità accuratamente progettate.
Nella carezzevole penombra, concludo con un’ultima annotazione che mi pare esemplificativa degli intrecci sommersi che uniscono Varisco, Colombo e Pirelli. In una lettera inviata il 12 luglio del 1969 alla Sovrintendente Palma Bucarelli, Pirelli tratteggia un’evoluzione di Film Ambiente incardinata sul suo asse verticale13. Con i suoi listelli ordinati tale modellino rotante, conservatosi in un formato miniaturizzato, assomiglia a un rudimentale astrolabio e ricorda allora un oggetto cinetico-programmato.