La “piccola retrospettiva” di Adriano Altamira non solo ci permette di gustare un lavoro per palati sopraffini. Ci permette anche di capire come la storia dell’arte non sia altro che una versione — spesso poco obiettiva — di una realtà che ha molto più da dire e da dare. Il problema numero uno è di tipo disciplinare. Utilizzando una celebre parabola, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che l’artista-intellettuale entri nel regno della storia dell’arte. Questo è il caso di Altamira che alla sua attività di artista ha da sempre affiancato quella di critico e teorico della percezione e della fotografia concettuale. Benché non tutte le opere in mostra abbiano la stessa forza — ma forse è un bene poiché l’arte è fatta di equilibri — questa piccola mostra-gioiello è come uno scossone, un campanello d’allarme per chi vuole andare al di là della storia o della propaganda.
Altamira possiede in seno diverse urgenze della cultura contemporanea, ne anticipa la bulimia delle immagini, ne digerisce i problemi con allarmante anticipo. Il paragone con i colleghi americani risulta strumentale in questo senso. Del resto ho sempre pensato che se un artista come Franco Vaccari — compagno di strada di Altamira — fosse stato americano probabilmente oggi vedremmo una sua mostra ogni mese in un museo diverso nel mondo. Tornando all’America ritengo che i lavori appropriazionisti di Altamira facciano impallidire il più riuscito dei Richard Prince. Non solo per una questione storica — ci arrivò prima — ma anche per un’indiscussa superiorità qualitativa. Se pensiamo a Seth Price, artista e autore del testo Dispersion, promotore del concetto di “distribuzione”, punto di riferimento dell’intellighenzia americana e poi guardiamo i lavori di Altamira mi viene da pensare a quegli americani che dicono che la pizza sia stata inventata a New York.
L’ultima riflessione a favore di questa mostra, atto critico di per sé, scelta raffinata e da vero intenditore (il signor Giorgio Marconi), si svela nel lavoro che ha per soggetto la colonna, parte del portfolio estratto dalla mitica serie “Aree di Coincidenza”. In una striscia Altamira affianca a un’immagine della colonna infinita di Brancusi lavori di Colla, Andre, Pascali, Nagasawa per poi concludere con una foto, probabilmente da lui scattata, di un arredo urbano la cui forma tanto ricorda le precedenti immagini. Altamira la chiama “il serpentone di viale Cassala”. Per chi si occupa di arte visiva questo lavoro sembrerà una sorta di diagnosi. La continua incubazione di immagini di opere d’arte porta alla paradossale situazione nella quale si vedono opere d’arte ovunque, vedi un asino, o un piccione, e pensi a Cattelan, oppure vedi una foto della nazionale di calcio e pensi ai soggetti di Caravaggio. Questa “sindrome” (la vogliamo chiamare Sindrome di Altamira?) è qui distribuita con sapienza indescrivibile. Altamira non solo è un Seth Price avant la lettre, ma lo fa con più raffinatezza, rimanendo libero dalla mercificazione e mantenendo un’indipendenza più unica che rara.