L’aura mediatica che inevitabilmente accompagna la figura di Ai Weiwei (l’impegno nella difesa dei diritti umani, il blog sovversivo, gli arresti domiciliari) rischia talvolta di offuscare le opere stesse dell’artista. Proprio da queste, invece, bisogna partire per capire a pieno l’effettiva portata della rivoluzione soffice che egli sta intraprendendo.
La personale alla Lisson Gallery, la sua prima in Italia, restituisce la complessità di un lavoro in cui si stratificano segni e messaggi eterogenei. Mentre in molte sculture precedenti Weiwei rilegge, stravolge e decontestualizza elementi della tradizione già dati, qui arriva a un recupero politico di quella che Richard Sennett chiama “mano intelligente” con opere create ex novo in un arco di tempo che va dal 2006 al 2010.
La ceramica è il materiale d’elezione. Nobile, preziosa, fragile, altamente rappresentativa della cultura cinese, è sottoposta a stranianti cambi di scala (in Pillar un vaso diventa un imponente pilastro), a ribaltamenti di prospettiva (in Ghost Gu le decorazioni di epoca Yuan, quasi sottratte alla vista, inducono a una riflessione sulle problematiche legate al falso e alla contraffazione), a metaforici passaggi di stato (il solido si fa liquido evocando lucidissime, e inquietanti, macchie di petrolio in Oil Spill). Ma Weiwei sperimenta anche con il marmo come dimostra la minuziosa e delicata decorazione di Marble Plate.
La perfetta resa mimetica del dettaglio sottende sempre una feroce critica alla società. Il paziente lavoro artigianale al limite dell’ossessivo e del maniacale, che soggiace alla realizzazione di ogni pezzo, parla di alienazione e possibilità di libera espressione del singolo individuo.
Una mostra, dunque, elaborata ed elegante che, con raffinata ironia, insiste sulla dicotomia locale-globale e attacca il potere attraverso i suoi stessi simboli. La provocazione tout court non ha spazio e cede il passo all’auspicio di utopici cambiamenti e rinnovamenti nel tessuto sociale, politico ed economico della Cina contemporanea.