Il fascino di un cuneo o di un listello. L’attenzione, dopo una divisione, per ciò che resta. L’inquietudine e la paura di aver sbagliato i calcoli se, alla fine, rimane ancora qualcosa. Il mito dell’infinitamente piccolo, del non disgregabile. La grande diatriba su un quasi nulla.
Filosofi e matematici si guardano accigliati e torvi. Osservano. Vogliono riuscire a registrare la pendenza di una curva in un punto preciso, in modo da capire come perfezionare il volo di una granata o definire quale sia il percorso fatto da un pianeta. Cercano di imbrigliare la curva in un sistema di assi cartesiani, ma non basta. Tracciano la tangente in un punto P. Ma questo ancora non è sufficiente. Bisogna segnare altre linee, ragionare per triangoli simili, creare ulteriori costruzioni. Tutto sembra risolto da una semplice operazione di riduzione dell’altezza di uno dei triangoli disegnati. Basta farla diventare sempre più piccola, lavorare per portarla vicina allo zero, in modo che il triangolo prenda le sembianze di una forma geometrica con un lato curvo. Mano a mano che quell’altezza h infatti si rimpicciolisce, la curva e la retta che la va a tangere si assomigliano sempre di più. Si strusciano quasi. Sembra che da un attimo all’altro vadano a combaciare. Tra di loro resta però un qualcosa di indefinitamente e infinitamente piccolo. Non è possibile assegnargli un numero corrispondente. Si può tentare di ignorarlo o incaponirsi per trovare il suo valore. Si può decidere a tavolino che quella minima differenza si allinei a dei valori maggiori o, ancor meglio, la si può trascurare e cancellare.
Un quasi nulla che corrisponde al nulla assoluto. Nella speranza che quegli infinitamente piccoli che avevano dimostrato di differire dallo zero non vadano mai a costituire una quantità definita e calcolabile. Una sensazione di imbarazzo.
“Sei anni fa cominciarono a diventare invisibili, con o senza lenti d’ingrandimento. Nessuno ha mai visto le ultime cinque che ho fatto, dato che nessuna lente ha una potenza sufficiente a ingrandirle quanto basta perché le si possa considerare davvero come le più piccole cose mai fatte. Nessuno può vedere me che le faccio, dato che i miei minuscoli strumenti sono invisibili alla stessa stregua. Quella che sto realizzando ora è piccola quasi come il nulla. La Numero Uno ne potrebbe contenere un milione in una volta sola, e rimarrebbe spazio sufficiente per un paio di calzoni da cavallerizza se li si arrotolasse. Dio solo sa dove la cosa si fermerà e avrà termine. Dev’essere un lavoro molto duro per gli occhi, commentai.”1
A questo punto smettete di leggere. Ascoltate.
È un muggito.
Un urlo prolungato. Arriva dopo un borbottio. Lo segue un istante di silenzio.
Eccolo. Il suo effetto è dilagante.
È un grido che bagna di suono.
È una curva che si dimentica della logica della propria evoluzione, spingendo con una forza violenta e disadorna.
È un suono che si sviscera fino in fondo.
Un attimo di sperpero, di febbre.
Viene spontaneo avvicinarsi alle bocche che lo producono, in attesa del silenzio, di un sollievo. Nonostante lo spaesamento, si cerca di prendere il suo ritmo, di adeguarvi il respiro. Ma quel suono e il respiro non sono la stessa cosa: lui ha l’aria di chi non ha bisogno di smettere.
A un certo punto però pare cedere, flettersi. Lo fa con orgoglio e senza accennare vertigini. Comincia a perdere quota in modo regolare e costante. Qualcosa della sua sicurezza si erode, si ossida, accostandosi a un buco, a un vuoto di non esistenza. Forse siamo arrivati alla fine. Ma cosa significa esattamente “alla fine”? Attorno non si sente ciò che ci si aspetta. Non c’è silenzio.
Quel suono cerca di scemare, si restringe, punta verso uno zero, una stasi, verso un niente rigoroso e deciso, ma il suo è solo un approssimarsi, un avvicinarsi che resta inesaudito.
Indugia presente e muto nell’aria carica ancora della sua traiettoria, preme sulle porte delle altre stanze, insiste nelle orecchie. Si strofina proprio contro la retta tangente che cerca di assomigliargli.
Indietreggiando da LK100A2 non ho potuto voltargli le spalle. Ho continuato a camminare all’indietro. Ho scorso la sua massa, la sua plasticità, la sua corporalità esposta.
Ho pensato a Rembrandt, al ritratto del Ganimede rapito3. Per sgravare la figura dal peso di allegorie e interpretazioni stanche, Rembrandt la mostra in una fisicità cruda, quasi scomoda.
Entrambi i corpi non sono gesto o movimento. Non c’è azione. Forse non c’è nemmeno una storia da raccontare.
La composizione si rinsecchisce fino a diventare minima. C’è solo una contrazione di spazio, un accentrarsi, un raggrumarsi. Non si vedono linee pronte a scappare, ad affluire verso dei vertici periferici, a sfondare l’estremo dello spazio: tutto succede lì, in quel centro, senza dare la sensazione di stendersi, di prolungarsi. Non c’è propagazione.
Ho anche fatto degli scarabocchi su un foglio, solo per capire meglio questo radunarsi comune di spazialità. Mentre muovevo la penna, cercando di ricalcare le linee, le nervature, le contorsioni, ho visto qualcosa di molto diverso. Ganimede e LK100A sono colti in un momento di torsione. I loro muscoli, i tendini, i nervi, sono tutti concentrati per resistere a una sollecitazione. Da un’estremità all’altra enunciano, senza ostentarla, la loro intenzione di non cedere. Guardate Ganimede. Un’aquila lo tiene per un braccio, lo solleva, lo trascina via. Lui si gira contrastandone l’imposizione. Si torce. Deve fare uno sforzo notevole per non accettare di tenere il volto in avanti, diritto verso qualcosa che non conosce e che forse lo spaventa. Lo fa con una determinazione tale da risultare immobile. Resiste.
Anche LK100A è fermo. Possente. Credo sappia bene fino a che punto può sostenere quella sollecitazione. Se il suo corpo fosse troppo rigido non potrebbe far nulla per opporsi, per ammortizzarla, ma non sembra preoccuparsene.
Si volta un po’ verso di noi. Mette in discussione il vincolo. Ci guarda. Il suo è uno sguardo che intimidisce.
Forse si è già detto troppo. L’impressione che si prova lì, di fronte, è fisica, elementare. Si ha la sensazione che ci sia una mano che preme sulla schiena, appena sotto le scapole. Spinge. Giusto il tempo di sentire il palmo che si apre e aderisce alle vertebre e subito si controbilancia lo spostamento buttando una gamba avanti e ancorandola saldamente al terreno4. Ci si guarda attorno con cautela e circospezione, per capire cosa sia successo.
Alzo istintivamente lo sguardo. Lui è lì. Trattengo il respiro. Sa della mia presenza.
È una bestia. Nient’altro che una bestia.
Ha una struttura forte e compatta, un corpo membruto, il petto largo. Il capo quasi quadrato si prolunga nel muso. Un collo poderoso.
C’è qualcosa in lui di compresso, oserei dire persino di rassegnato, come se si stesse preparando a un colpo imminente. Ne compare un accenno già nelle spalle. Scorre sulla pelle della schiena.
Ha un contegno imponente, pieno di dignità e di misura. Una struttura forte. Nessuno è troppo al sicuro da lui. Se lo si fiuta da lontano, meglio girare al largo o cambiare strada. Le mascelle sono tremende. La lingua ruvida e dura, cosparsa di aculei rivolti all’indietro e in grado di lacerare la pelle.
Nonostante se ne stia in apparente stato di quiete, è chiaro che tutto quel contenimento potrebbe precedere di pochi secondi uno scatto feroce. Sembra ribadirlo proprio con la sua solitaria compostezza.
Si è “azzampato” in quel luogo, disegnandosi attorno un perimetro impensabile da oltrepassare. Se lo volesse, percorrerebbe uno spazio smisurato e si avventerebbe sulla preda senza darle nemmeno la possibilità di intuire cosa stia accadendo. Le sue zampe sono grosse, ostinate, ottuse. I muscoli predisposti per sferrare un attacco. I piedi si distinguono per la loro ultima falange, rivolta un po’ all’insù. Questa gli permette di non toccare il suolo e di preservare le unghie. Sono delle vere e proprie armi, come la lama di un coltello o di qualsiasi altro strumento affilato. Fendono, dividono, tagliano, incidono, sminuzzano. Sono impietose. Tutto il piede, nel momento dell’aggressione, diventa il più formidabile artiglio che si possa immaginare.
Nonostante la paura, mi scuote l’ebbrezza di tenergli testa, di non lasciare il campo.
Le labbra si sfregano un po’ convulse, su e giù, attratte. Scordo la prudenza, calpesto il buon senso.
Lui rimane lì. Attende.
Intravedo il suo addome muoversi.
Respira lento.
Conto i passi che ci separano.
Gli lancio un’occhiata.
Accetterà la sfida.