Eccoci nel 1978, circa sedici anni dopo le prime manifestazioni formali di Fluxus e quasi vent’anni dopo i primi gruppi di artisti internazionali che più tardi confluirono in Fluxus. Alcuni sono morti: Richard Maxfield e Arthur Kopcke. Alcuni sono spariti. Altri si sono ritirati nell’accademia e nell’arte conservatrice: Emmett Williams. Eppure le rotture che disciolsero (prematuramente?) i primi movimenti artistici sincretici e iconoclastici di questo secolo — futurismo, dadaismo, surrealismo, forse altri — semplicemente non ebbero luogo. Occasionalmente lavoriamo ancora insieme — nel nostro lavorare-fluxus non c’è denaro, così facciamo anche altri lavori, all’interno e all’esterno dell’arte. Ma come è possibile che questo gruppo stranamente composto da artisti diversi di disparate origini ed età, che non sembrano legati da un’ideologia coerente, stia insieme? La prima ragione sta, credo, nella natura del lignaggio di cui Fluxus fa parte. Qui posso soltanto parlare della cultura occidentale, poiché il nostro ramo orientale, quello giapponese, ha ovviamente radici diverse, anche se mi stupirei se non ci fossero paralleli culturali. Uno degli assunti chiave del lavoro fluxus è che tra le cose esistono strette analogie — che le linguistiche delle scarpe e dei cavalli possono avere certi punti in comune, abbastanza per stabilire un modello concettuale, e che per questa ragione una realizzazione esteticamente soddisfacente può essere compiuta di un concetto estetico usando come insieme di strumenti sia le scarpe sia i cavalli. Proiettato nell’estetica dell’arte (e naturalmente non tutte le estetiche sono estetiche dell’arte) e visto in questa prospettiva, il comportamento delle varie arti (l’arte del pensiero inclusa, la filosofia) è sufficientemente attento a che quelle siano viste propriamente in quanto media, con lo spazio fra tali media, dunque, gli inter-media (per usare il termine di Samuel Taylor Coleridge che ripresi nel 1963) — mentre ogni intermedium può diventare, per diritto proprio, un nuovo medium man mano che si definisce come punto di riferimento. Così la poesia concreta e la calligrafia sono entrambe delle intermedia tra la letteratura e le arti visive, ma potrebbe pure esserci un intermedium tra la poesia concreta e la calligrafia, un altro tra la poesia concreta e le arti visive (che corrisponderebbero all’idea italiana di poesia visiva), un altro tra la poesia concreta e la musica popolare (per esempio le parole del cantautore brasiliano Caetano Veloso), e così via. Certo, non tutte queste opere intermediali sono opere fluxus: il fenomeno fluxus compare quando queste opere sono trattate come modelli concettuali, senza eccesso di matière impiegato nella loro realizzazione. Tale eccesso potrebbe essere sia materiale sia psicologico, sia auto-conoscitivo, ma ritornerò su questo punto tra poco. È comunque chiaro che un tale approccio, che procede senza assunti circa i media, secondo il quale l’opera assume soltanto la creazione del proprio medium inerente e naturale, implica fin dall’esordio una certa misura di sincretismo che fu inusitato nell’arte occidentale per un lungo periodo immediatamente precedente a questo secolo — ma che in effetti ha un lungo e rispettabile lignaggio, tanto che la tradizione aristotelica di generi e media piuttosto astratti e inflessibili potrebbe essere considerata una deviazione (forse sfortunata) dalle correnti prevalenti. Per esempio, dal folto dell’isterismo aristotelico, quali sono le implicazioni di questo passaggio dello scozzese Thomas Carlyle scritto nel 1840, da On Heroes, Hero-Worship and the Heroic in History?1 “Un pensiero musicale è uno parlato da una mente che è penetrata nel cuore più intimo della cosa; che ne ha scoperto l’intimo mistero, cioè la melodia che in esso giace nascosta; l’interiore armonia di coerenza che ne è l’anima, grazie alla quale esiste, e ha diritto a essere, qui in questo mondo. Tutte le cose più segrete, possiamo dire, sono melodiose; in modo naturale esse si esprimono in Canto. Il significato di Canto va profondamente…”.
L’osservazione di Carlyle avrebbe potuto farla un dadaista in qualche momento di razionalità. Ma seguendo le tracce di un tale pensiero indietro nel tempo, troviamo che Coleridge dice qualcosa di simile sulla poesia (poiché la sua arte era incentrata sulla poesia) nel 18122: “Tutte le belle arti sono diverse specie di poesia. Lo stesso spirito parla alla mente attraverso sensi differenti con manifestazioni di se stesso, per ognuno appropriate. Riconosco dunque una divisione naturale nella poesia del linguaggio (poesia in senso enfatico, perché meno soggetta agli incidenti e ai limiti di tempo e spazio…”.
Prima di lui, lo Schlegel e il Novalis avevano già formulato quest’idea negli aforismi in Athenaeum; ma possono essere stati spinti a farlo dal rinnovato interesse per le idee di Giordano Bruno (1548?-1600), a proposito delle quali il loro amico Schelling scrisse uno dei suoi più importanti testi filosofici. Bruno è uno dei più sincretici tra tutti i grandi pensatori, che cercava di trovare modelli concettuali e linguistici in ogni campo dell’interesse intellettuale del suo tempo — magia, astrologia, teologia, etica, epistemologia, logica, matematica, mitologia, cosmologia e, naturalmente, le arti. L’ultimo lavoro pubblicato mentre era in vita costituisce un vero e proprio trattato di semiotica circa alcuni di tali campi. Ecco una citazione dal suo De imaginum, signorum et idearum compositione (1591)3: “Perciò, e in una certa misura, i filosofi sono pittori; i poeti sono pittori e filosofi; i pittori sono filosofi e poeti. Colui che non è poeta né pittore non è filosofo. Noi diciamo giustamente che comprendere equivale a vedere forme e figure immaginarie; e comprendere è fantasia, perlomeno non è privo di fantasia…”.
Naturalmente l’ultima parte della citazione tratta del potenziale e dell’abilità di concepire un modello accurato, non di ozioso sognare a occhi aperti. Ma comunque sia, il sentiero non si ferma qui. Risale fino a Bernard Silvestris di Chartres (ca. 1150) e un impulso sincretico può persino essere trovato in De institutione musica... di Boezio alle fine del V secolo4: “Sed illud quidem, quod in instrumentis positum est ibique totam operam consumit, ut sunt citharoedi quique organo ceterisque musicae intrumentis artificium probant, a musicae scientiae intellectu seiunti sunt, quoniam famulantur, ut dictum est: nec quiquam afferunt rations, sed sunt totius speculationis expertes. Secundum vero musicam agentium genus poetarum est, quod non potius speculatione ac ratione, quam naturali quodam instinctu fertur ad carmen…”. Qui raccogliamo un tema pitagorico, che la musica può essere una forma di speculazione sui principi delle cose – musica speculativa potrebbe essere non già per l’esecuzione ma per la considerazione metafisica. Quest’idea durò fin a tutto il Rinascimento e scomparve soltanto ai tempi di Johannes Kepler e Robert Fludd. Ma s’intrecciò in Boezio, negli scritti di Sant’Agostino sulla musica agli inizi del V secolo, e attraverso i teorici greci di musica e estetica, Aristosseno e Nicomaco, fino a Platone (il Timeo) e oltre.
In altre parole, è una peculiarità del recente passato che si pensasse che il concetto arte (concetto musica?), per usare un termine del 1961 del fluxartista Henry Flynt, non fosse tra le possibilità ovvie, o si immaginasse che i media delle arti fossero astratti. In realtà uno degli aspetti che fluxus mette a fuoco è la concrezione di ogni tipo, – l’interpenetrazione di arte e vita e l’interpenetrazione dei media.
Ma nei termini del particolare ambiente culturale in cui fluxus crebbe, fluxus non fu certamente il solo a tracciare modelli paralleli tra i media. Ciò avvenne, per esempio, verso la fine degli anni ‘50. Ma alla fine degli anni ‘50 si stava pure evolvendo Io strutturalismo, con la sua applicazione di idee linguistiche prese da Saussure e Jakobson ai campi dell’antropologia (Lévi-Strauss), psicologia (Lacan), letteratura (Barthes) eccetera. Qualunque siano le ostilità e le rotture tra coloro che appartengono alla vecchia ortodossia dello strutturalismo o coloro che appartengono a quella più recente del post-strutturalismo (Derrida, Deleuze, Eco, Lyotard – persino, molto a margine nel Computer Department, Bense) – sono tutti influenzati per i loro oggetti di studio da comuni interessi nei modelli e nelle strutture concettuali che sono stranamente analoghi alle considerazioni fluxus, benché senza la qualità del modello ridotto-al-minimo che fluxus sempre richiede alle sue opere se queste devono esistere come opere fluxus.
In fluxus, come in matematica, l’eleganza consiste nell’avere abbastanza e solo abbastanza per rendere assolutamente chiara l’essenza di un lavoro o di una presentazione.
E l’eleganza è una qualità molto desiderabile. Fluxus è dunque, tra le altre cose, una sorta di opera, una forma di forme, una meta-forma. Come tale, una cosa fluxus è qualcosa che tu fai in quanto artista – e quando la fai tu sei un fluxartista. Ma tu sei anche libero di fare altre cose che possono o no essere in rapporto col tuo lavoro fluxus. L’identità che l’artista acquista nel fare un lavoro fluxus è quindi elusiva, transitoria come i colori di un fiore. Se si guarda all’arte di qualcuno come a un mezzo per estendere la personalità, fluxus è un luogo terribile. Fatta eccezione per la parodia o per le considerazioni metapsicologiche, se ne sta sempre all’esterno dell’ego. Così i furboni che via via si sono buttati nella scia sperando in prestigio e dicono “Io sono stato fluxus nel 1954 (o nel 1957, o nel 1936, o altro)” non hanno virtualmente prodotto alcuna memorabile opera fluxus. Nessun lavoro che potrebbe proiettarsi oltre il loro stampo personale, oltre il loro carisma o il loro autografo.E quindi l’illusione di anonimità in fluxus: in realtà se si vede il lavoro di un fluxartista come George Brecht o Ben Vautier, non lo si trova veramente anonimo, se si è abbastanza esperti per distinguerlo. Brecht nota questo genere di cose, in modo tipico, e Vautier ne nota un altro. Ma ciò che è assente è l’autostereotipo di maniera e l’espressione personale (di nuovo, se si eccettua l’elemento di parodia e di humor, come accade in molte opere di Vautier. “Io, Ben Dieu (= Bon Dieu, Buon Dio) firmo TUTTO!”». La cognizione di sé non è il punto importante.
Ma questa è sempre più, nella nostra cultura mondiale, un’epoca in cui la cognizione di sé non è il punto importante. Il capitalismo e la società industriale hanno creato il culto dell’individuo forte contrapposto alle masse, e un individuo forte deve sviluppare il suo senso di unica identità. Ciò è riflesso dalle arti. In questa nuova nostra epoca, per sopravvivere dobbiamo cooperare in molti sforzi: cosi dobbiamo concentrarci sui compiti a portata di mano, e preoccuparci troppo di chi o di cosa siamo diminuirebbe la nostra comoda sopravvivenza. Quindi tendiamo a trovare le nostre identità in ciò che facciamo. Il presidente della repubblica, quando lava i piatti è un lavapiatti. E la nostra domanda non è più “È giusto che io faccia questa cosa?” (qualunque essa sia), ma “È questa una cosa che deve esser fatta? E quale dei miei sé deve farla?”. Siamo perciò, in un certo senso, postAUTOconoscitivi, o come io li chiamo, per brevità, “Postconoscitivi”. Questa è l’era postconoscitiva (che segue quella postmoderna?), e fluxus è l’arte realistica dell’era postconoscitiva nel senso che riflette gli interessi e l’essenza della sua era con maggior pienezza di un’arte più mimetica o espressiva.
Viste in questa luce, alcune delle domande che ho sollevate o implicate nella storia dell’arte, in qualche modo si alterano.
Per cominciare, fluxus non è un vero e proprio movimento: il suo aspetto di movimento è solo una metafora perché non ebbe luogo come risultato di un gruppo di persone messesi insieme coscientemente con scopi e obiettivi comuni, con un programma di introdurre questa o quella tendenza nella continuità in atto delle arti. Ma ebbe origine più o meno spontaneamente, fu coordinata in primo luogo da George Maciunas che gli diede il nome, e le sue varie manifestazioni (performances e festivals, pubblicazioni e mostre), sono state le punte emerse di una attività in evoluzione, piuttosto che l’oggetto di una strategia professionale e completamente impegnata, orientata nel senso di una carriera. Un fluxista professionista sarebbe un cattivo fluxista. Ciò contrasta diametralmente con il surrealismo, dove il papà André Breton poteva a volontà includere o escludere persone nel o dal movimento, e in cui gli artefatti prodotti dai surrealisti erano ciò di cui o per cui essi cercavano di vivere. Si potrebbe dire che essi parassitarono il loro stesso movimento. In questo senso, il surrealismo fu totalmente autoconoscitivo, fu un vero movimento e i vari litigi e denunce, che tanto somigliavano allo sbecchettare di piccioni a un festino di briciole, furono affatto inevitabili.
D’altra parte, futurismo e dada erano più simili a fluxus. Anche il futurismo fu un movimento, ma nonostante l’egocentrismo di Marinetti, egli non reclamò né le anime né il sangue dei suoi soci. Il futurismo fu uno spirito tanto quanto un corpo di conseguimento e la vitalità delle opere, settant’anni dopo che furono prodotte, parla all’osservatore in un modo che trascende di molto l’individualità dell’artista.
Il dadaismo non fu un movimento e il suo collasso fu in parte dovuto al tentativo di farne un movimento nel senso in cui più tardi lo divenne il surrealismo. Dada fu uno spirito, intuitivo e controrazionale, e gli oggetti dada non furono che le manifestazioni di quello spirito. Così il futurismo e il dadaismo possono essere considerati più vicini a fluxus del surrealismo indipendentemente da differenze o similarità stilistiche. Tutti e quattro sono sincretici ma in generale l’elemento di spirito è maggiore nel dadaismo e in fluxus, e la similarità tra questi due ultimi è più stretta. Tuttavia, fluxus è potenzialmente razionale, mentre il dadaismo non lo è: il dadaismo permette solo l’irrazionale e l’anarchico. Fluxus permette ogni modello concettuale, da quello quietamente intuitivo (il sorriso svanente di Mieko Shiomi) alla permutazione matematica (In Memoriam Adriano Olivetti di Maciunas), al completamento aleatorio (i miei testi-opera o quelli di Jackson Mac Low). E benché i lavori dada o futuristi possono essere minimal (come i pezzi per teatro sintetico di Marinetti e altri), soltanto fluxus insiste su questa particolare eleganza, o senza di essa sparisce. E, in questo caso come il surrealismo, la sensibilità ottenuta in questo modo è cosi chiara ed evidente che fluxus può reclamare a sé opere da altre epoche o luoghi. Permettetemi, allora, di chiudere con una poesia fluxus di Giordano Bruno, “Salomone e Pitagora”5:
Quid est quod est?
Ipsum quod fuit.
Quid est quod fuit?
Ipsum quod est.
Nihil sub sole novum.
Jordani Bruni
Nolani Wittenberg
8 Martij 1588
Il che si traduce:
Cosa è ciò che è?
Lo stesso che fu.
Cosa è ciò che fu?
Lo stesso che è.
Nulla di nuovo sotto il sole.
Giordano Bruno
Da Nola Wittenberg
8 marzo 1588
Dick Higgins, New York City, 8 gennaio 1978.