A12: Perché l’Africa?
Alessandro Ceresoli: Ho iniziato a guardare l’Africa e l’estetica “afro” perché mi incuriosiva una vaga forma di origine e analogia con il modernismo, particolarmente riscontrabile in certe decorazioni tribali dipinte su alcuni scudi di tribù che si trovano tra Kenya e Congo; in essi rivedevo le decorazioni sui tessuti del Bauhaus di Paul Klee, ero incuriosito da questo possibile parallelismo.
A12: Come sei giunto ad Asmara? Sappiamo che il tuo ultimo progetto ruota attorno a questa città.
AC: Le ricerche che facevo in quel periodo mi hanno portato a riscoprire Asmara, in Eritrea. Mi resi conto che la mia curiosità prendeva forma e senso se associata a un contesto storico che in qualche modo aveva origine o coincideva con la storia dell’Italia, e dunque con la mia storia. Quando ho visto l’immagine della stazione di benzina Fiat Tagliero di Giuseppe Pettazzi del 1938, ho deciso che volevo vedere dal vero questo luogo e riscoprirne la storia e i personaggi. A maggio del 2009 sono partito per Asmara, dove ho vissuto per sei mesi. Durante il mio soggiorno ho collaborato con una ditta locale realizzando sei oggetti ispirati all’architettura futurista italiana costruita ad Asmara durante il periodo coloniale, una nuova serie di disegni e un video.
A12: Hai accennato alla passione primitivista tipica dell’arte moderna e al futurismo. Hai rilevato qualche particolarità nel travaso culturale tra Eritrea e Italia?
AC: Il flusso e riflusso tra primitivismo e modernismo è interessante rivederlo di ritorno in questo continente e guardarlo considerandolo come una materia che a ogni passaggio muta come potrebbe mutare un organismo autonomo. Nel quotidiano ci sono dei luoghi come certe caffetterie, dove le sale ricordano la genuinità dei vecchi bar della provincia italiana; qui come in Italia, gli anziani eritrei si ritrovano attorno a un bigliardo o per giocare a carte: l’atmosfera che si respira è la stessa, cambia il contesto.
A12: L’architettura è protagonista della prima parte del video che hai realizzato ad Asmara; mi intriga la frizione che nasce tra le “astronavi” coloniali, i segni del tempo su questi edifici e il corpo della città africana.
AC: Nel video She’s the One (2010) ho voluto dare spazio alla bellezza come vettore di un messaggio, mettere in parallelo due canoni propagandistici: nella prima parte quello di un regime decaduto attraverso l’architettura e nella seconda parte quello dell’attuale regime, del governo del presidente Isaias Afewerki e dell’elezione di Miss Eritrea. Scoprire Asmara giorno dopo giorno è stato per me un po’ come riscoprire una parte dell’Italia ormai scomparsa. Riscoprirla in Africa è qualcosa che oltre al metafisico si avvicina al surreale e al malinconico.
A12: Mi pare che il video abbia a che fare con la creazione di un immaginario e con il modo in cui le forme trasformano il proprio significato nel tempo. C’è una foto piuttosto famosa della fine degli anni Venti che ritrae un edificio di Le Corbusier alla Weissenhofsiedlung di Stoccarda, in primo piano c’è una giovane signora appoggiata a un’automobile scoperta: architettura, moda e tecnologia ci appaiono tutte datate, ma la reazione che suscitano in noi non è la stessa. L’architettura, per il semplice fatto di tendere, come manufatto, alla permanenza, parrebbe avere una maggiore forza di attrito nel tempo.
AC: A proposito delle forme, che mantengono o meno il proprio significato nel tempo, mi viene in mente un documentario a cui sono affezionato dove Pier Paolo Pasolini analizza in poche ma precise parole Sabaudia, come esempio di architettura del regime. Riscopre come quello che era in un certo senso il ridicolo di questo tipo di architettura si è in qualche modo trasformato con il tempo in qualcosa di metafisico e realistico, perdendo le radici del regime fascista che l’ha ordinata e ritrovandole nell’Italia provinciale e rustica che l’ha costruita e l’abita. Pasolini chiude questo breve documentario ragionando su come il regime fascista in realtà non sia riuscito a ottenere quella “a-culturizzazione” e omologazione a cui aspirava, surclassato da quello che lui definiva nel 1974 il potere della società dei consumi, ma che oggi potremmo identificare nel potere mediatico, che oggi ha distrutto le varie realtà particolari che l’Italia aveva prodotto. L’architettura di regime in Eritrea non fa altro che evocare un’italianità che ambiva all’avanguardia ma si esprimeva con arretratezza.
A12: Hai poi realizzato una serie di oggetti che stanno in bilico tra un design molto architettonico e la scultura, ma in cui anche la plasticità delle forme è negata almeno in parte dalla scelta di materiali trasparenti e riflettenti e dall’uso delle luci. Da dove nasce e come sei arrivato alla decisione di realizzare questo tipo di oggetti?
AC: Durante i primi due mesi di permanenza in Eritrea ho dedicato molto tempo a conoscere il paese, muovendomi il più possibile, incontrando persone e dimostrandomi propositivo e interessato; questo periodo di adattamento e ricerca mi ha portato a realizzare nuovi disegni e a scrivere lettere illustrate che regolarmente spedivo in Italia. Cercavo un contatto reale con le persone che abitano la città, volevo costruirmi una dimensione che mi illudesse di essere uno che vive ad Asmara, con questa idea un susseguirsi di coincidenze più o meno cercate mi hanno portato a frequentare i proprietari di una vetreria gestita da una famiglia di eritrei, di cui il padre, soprannominato Jumbo, aveva a suo tempo imparato il mestiere da alcuni italiani durante il periodo coloniale. Lavorare con il vetro non è stata una scelta a priori, ma una conseguenza delle mie ricerche e del caso; ho intuito che avrei potuto sperimentare il materiale usando i loro macchinari e le loro capacità artigianali, lavorandoci quotidianamente, cercando di realizzare, secondo le loro possibilità, dei progetti su carta che progressivamente andavo adattando. Ho scelto di iniziare con il proporgli la realizzazione di un tavolo, cioè un oggetto riconoscibile, chiaro e di uso comune in modo da coinvolgerli immediatamente in qualcosa di identificabile.
A12: Gli oggetti che hai realizzato reagiscono in un certo modo allo spazio in cui sono fotografati. Ad Asmara, accostati ad alcuni dettagli come il pavimento in graniglia, il perlinato alle pareti e le tende di velluto, rispecchiano perfettamente quel sapore di modernismo un po’ provinciale delle architetture che li hanno ispirati. Vi ritrovo anche molto chiaro quel senso di malinconia di cui parli. Mi chiedo se e quanto questo senso verrà modificato quando li vedremo inseriti in uno spazio diversamente connotato come quello di una galleria milanese o in casa di un collezionista.
AC: Credo che l’autenticità del valore espressa attraverso gli oggetti andrà oltre il contesto; anche se sarà comunque più piacevole vederli in una dimensione domestica, vorrei vederli usati.
A12: Siamo talmente sopraffatti dai preconcetti che mi sono sorpreso, guardando le foto della vetreria dove hai lavorato, a notare come il suo aspetto non fosse dissimile da un analogo laboratorio collocato in un qualunque luogo in Italia. Che tipo di esperienza è stata lavorare con gli artigiani africani dal punto di vista della qualità del lavoro, ma anche delle relazioni?
AC: Tutti i macchinari del laboratorio sono importati dall’Italia, l’aspetto quindi è quello di una ditta italiana, poi la logistica è tutto un altro stile. In Eritrea quando ti invitano a bere un caffè in maniera tradizionale può durare anche tre ore. Ugualmente per il lavoro, i tempi dove si concretizza sono sempre preceduti da lunghe attese. Non sono precisissimi, tutto è un po’ approssimativo, per me va bene perché riporta i miei pezzi a una dimensione artigianale, i “difetti” presenti rendono gli oggetti unici e lontani da un prodotto industriale. Diverse soluzioni per realizzare i miei pezzi sono invenzioni che loro non avevano mai sperimentato. Per esempio, prima, non avendo un forno, non avevano mai realizzato delle forme curve, allora ho spiegato loro che ciò è possibile anche senza piegare il vetro a caldo, ma accostando perpendicolarmente dei segmenti retti e ruotandone l’inclinazione progressivamente. Semplice sì, ma per loro è ancora più semplice realizzare solo forme e tagli retti; forse in questa logica è nascosta un’idea di modernismo.
A12: I tuoi lavori mi sembrano accomunati, più che da uno “stile” personale visivamente immediato, da una ricerca a volte quasi ossessiva. Dietro la concezione e/o produzione di ogni oggetto si cela un “processo” che può comportare a volte anche una grande fatica. Se sei d’accordo con questa interpretazione, puoi dirci qualcosa di più su questa relazione tra idea iniziale e realizzazione?
AC: Un’attitudine ricorrente nei miei lavori è l’interesse per “l’atto creativo”, per il momento dell’esplorazione e verso il modo in cui quest’indagine coinvolge il soggetto e l’individualità. Ci sono dei tempi che non sono altro che i tempi necessari, la lentezza nella realizzazione di un progetto diviene allora determinazione, volontà. Il percorso della volontà e il segno che questo percorso lascia sono tra i miei vettori, dentro questi margini includo il mio immaginario; svelare o rendere leggibile tutto il lavoro che gli dedico sarebbe per me un po’ come scaricare una dinamo del suo campo magnetico. Considero questa negazione, questo limitarne la comunicazione, come un gesto estetico, un beau geste che contribuisce a mantenere l’oggetto in un’aura.
A12: La cosa interessante è che, proprio per il modo in cui a volte il processo viene presentato, non sempre o non tutto il grande lavoro che c’è dietro è immediatamente leggibile. Alla fine, a fronte di una coerenza concettuale piuttosto precisa, assistiamo anche a una certa “freschezza” che deriva forse dal fatto di utilizzare di volta in volta media e tecniche differenti. Da che cosa nasce questa tua sorta di eclettismo?
AC: L’eclettismo a cui ti riferisci non nasce dall’esigenza di una sperimentazione tecnica ma più da un’instabilità, da una forma di dimenticanza per quello fatto prima per riadattarsi. Attraverso i miei disegni riesco a trovare un equilibrio, una zona di appartenenza, dove esiste un aspetto allegorico che posso variare e la coscienza di un processo. Disegnare è diventata la parte centrale del mio metodo operativo, il nucleo attorno al quale sviluppo il lavoro sotto diverse forme; quando mi dedico ai miei lavori su carta elaboro delle idee, che poi posso elaborare anche in modo diverso, più appropriato, considerando ogni volta dentro quale contesto si sviluppa. Così si è sviluppato anche il progetto ad Asmara.
A12: Ritornando allo specifico del progetto ad Asmara, mi sembrerebbe interessante approfondire le motivazioni che stanno alla base del tuo interesse per l’architettura coloniale italiana. Al pari di tante altre espressioni della cultura italiana legate al fascismo, per ragioni storiche abbastanza evidenti, queste esperienze progettuali sono state per molti anni oggetto di un fenomeno di “rimozione” pur non essendo prive di qualche interesse, mentre ultimamente vengono pian piano riscoperte. È risaputo che, a parte un interesse iniziale per il movimento moderno come manifestazione di avanguardia e rinnovamento, il regime fascista che pure si poneva come movimento “rivoluzionario” si appiattì ben presto, nelle sue scelte estetiche, su posizioni più accademiche, rassicuranti e meglio rispondenti alla celebrazione del mito dell’impero (il famigerato stile littorio di Marcello Piacentini & Co.). L’architettura “moderna” fu relegata soprattutto a temi più prettamente funzionali, di cui la stazione di servizio Fiat Tagliero è un perfetto esempio. Hai accennato a ricostruzioni o indagini storiche compiute in loco, di cosa si tratta? Quali sono state, vivendo là, le tue impressioni rispetto all’eredità culturale della dominazione italiana, ammesso che esista?
AC: Le mie ricerche sulla genesi della zona sono iniziate prima di arrivare ad Asmara. Erano indagini di tipo storico, documentandomi in modo abbastanza preciso sull’evoluzione dell’area, partendo dal regno Axumita, passando per il periodo coloniale fino alla guerra di indipendenza dall’Etiopia. Questo background, costruito prima della mia partenza, mi ha permesso poi in loco di essere in qualche modo più credibile, dimostrando così un reale interesse, quando colloquiando cercavo di instaurare dei rapporti d’amicizia e di fiducia con gli eritrei: ciò mi ha dato la possibilità di conoscere meglio le persone, e le loro storie, che sono in qualche modo tutte relazionate direttamente alla dura guerra contro l’Etiopia. I più anziani, invece, che parlano italiano, raccontano con un po’ di nostalgia i ricordi dei nonni che vivevano durante il periodo coloniale, i ricordi positivi sono rivolti verso le strutture costruite attorno alle quali è nato un nuovo stato indipendente. Ma gli eritrei considerano l’Italia un po’ come una madre che ha poi abbandonato i figli, specialmente riguardo al mancato supporto in un rischioso contenzioso tuttora aperto con l’Etiopia a proposito dei confini dopo la guerra d’indipendenza. Confini che erano stati definiti con il trattato di pace di Addis Abeba, dove si riconosceva l’indipendenza dell’impero d’Abissina e questo riconobbe la colonia italiana d’Eritrea. Qualcosa di questo è raccontato nelle mie lettere illustrate.
A12: La cosa interessante delle architetture che hanno ispirato il tuo lavoro sembra essere il loro manifestarsi come espressione di una posizione di avanguardia del tutto minoritaria rispetto all’architettura di regime, ma che tuttavia, pur da questa posizione, esprimono il tentativo di imporre un’egemonia culturale da parte di un paese invasore su una nazione indigena. Ritieni sia possibile dare un significato “politico” all’operazione artistica che hai compiuto?
AC: Come sosteneva Indro Montanelli, la storia del fascismo è la storia di Mussolini, l’Italia era una paese nel caos, dalla fine della prima guerra mondiale non c’erano più stati dei governi capaci di governare, per lo stesso motivo per cui non lo erano ancora i governi prima di Berlusconi, cioè erano dei governi di coalizioni che non andavano d’accordo, e Mussolini, per usare una terminologia coerente al contesto, “rimise ordine” raccogliendo il consenso di quasi tutta l’Italia. L’attuale situazione e la politica di Berlusconi certo evoca dei ricordi poco simpatici e le congruenze non sono poche. Forse semplicemente per il fatto di vivere in questo periodo, le mie suggestioni e il mio lavoro ne sono influenzati, ma nella mia esperienza ad Asmara se esiste un’attitudine politica è solo nel comportamento che ho tenuto per raggiungere un determinato fine.