“‘Il détournement è il contrario della citazione’ (Guy Debord). È un gioco capace di rimettere in circolo frammenti decontestualizzati, oggetti ritrovati per caso e strappati alla loro storia preesistente che smarriscono il loro senso originario”. Così l’inizio del comunicato stampa viatico a una delle prime sfilate di Alessandro Michele (Roma, 1972), direttore creativo di Gucci, a connettersi idealmente con le parole di Giorgio Agamben – “È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò in questo senso inattuale” – che erano esplose sul pubblico della sfilata precedente affermando un personalissimo modo di esercitare la pratica creativa, ma anche l’intenzione di portarla fuori da imperativi della moda ormai fuori sincrono, come nuovo o moderno. Michele fornisce indizi, evoca una molteplicità complessa, ipnotica e affascinante. Traccia una mappa ambigua tra emozioni, persone, luoghi, oggetti. In una rappresentazione che sfiora l’autobiografia e deraglia da ogni serialità rassicurante per superare il concetto di genere nella dimensione di una sessualità in transito – per introdurre una diversa idea di bellezza plasmata dal gesto poetico.
Maria Luisa Frisa: Penso al momento (gennaio 2015) in cui, a sorpresa, sei diventato direttore creativo di Gucci: fortunatamente la moda è un flusso ritmato da attimi dissonanti, da inversioni, da rotture.
Alessandro Michele: Il mio percorso professionale è tutto un inciampo: non sono interessato al giusto, o alle linee nette, e non ho paura di sbagliare. Anzi perdermi è fondamentale. Per me, che non ero mai stato direttore creativo, diventarlo ha voluto dire essere sincero e autentico. Cantare con la mia voce, perché non posso e non voglio intonare la voce secondo le regole di qualcun altro. Fare moda non è solo produrre oggetti, perché negli oggetti ci sono sempre altre cose, che servono a dire altro. Ho deciso, utilizzando il linguaggio che mi appartiene di più, di fare un certo tipo di confusione che per me è semplicemente una tavolozza allargata. Le collezioni, gli oggetti che ne sono usciti sono dettagli di una sorta di affresco di quello che mi passa per la testa.
MLF: Ogni tua collezione è un racconto, come le tue campagne fotografiche.
AM: Io racconto sempre. L’atto del raccontare è un atto creativo che ti permette di dare un nuovo ordine al linguaggio. Qualcuno mi dice che racconto sempre il prima e mai il dopo – e c’è chi lo considera un problema. Il mio linguaggio estetico è frutto di un’esperienza personale. Penso che bisognerebbe trattenere in modo più personale il mondo. La moda che parla di un’ispirazione stagionale mi sembra qualcosa che non appartiene al contemporaneo. Quando mi si chiede di ragionare in questo modo – sulla stagione, sul genere, sulle ispirazioni – mi viene chiesto di mettere banalmente a posto questo mio cassetto disordinato. Ma io non voglio mettere a posto nulla.
MLF: Le parole sono anche ingranaggio narrativo del tuo processo creativo.
AM: Ai miei collaboratori faccio un racconto che non corrisponde a niente di reale. Situazioni assurde che però servono a dare spazio all’immaginazione. Io riprogrammo gli altri linguaggi, le parole degli altri. Se io racconto una storia, i miei collaboratori immaginano una serie di altre cose, diverse, che poi rimetto insieme, riordino nella mia maniera e ricompongo il mio mosaico.
MLF: Non ti spaventa la contaminazione?
AM: No, assolutamente no. Ricerco la contaminazione, apprezzo quando arriva qualcuno e aggiunge qualcosa al mio linguaggio. Mi viene in mente la scuola di Raffaello: pensiamo al grande artista e ci scordiamo di tutti i suoi collaboratori eccezionali, e in generale di quel mondo creativo molto poroso e leale – persone che lavorano insieme, che condividono. Io faccio molta ricerca, approfitto di tutti i mezzi. E uno dei mezzi è sicuramente quello di farmi aiutare, o meglio, di farmi amplificare. Quando sento una bella canzone, alzo il volume.
MLF: Quello che dici va contro la mitologia dell’autore, che tu hai avuto il coraggio di superare nel progetto #GucciGhost, l’hashtag dietro cui si cela lo snowboarder e artista newyorkese Trevor Andrew, noto come Trouble Andrew, che è diventato un potentissimo concept virale.
AM: È incredibile come Trevor abbia amplificato in modo potentissimo il mio linguaggio. Se io avevo una cassa, lui ha aggiunto amplificatori ovunque. Quello con Trevor è stato un incontro degli opposti: io a cercare di stare in equilibrio tra le mie follie, tra carteggi e erbari, e lui così antitutto, antimoda, antipassato. Lui parlava di ufo e io pensavo alla filosofia. È stato lui a creare il ponte di contatto tra i nostri due universi. Mi ha detto: “guarda che ci sono dei dipinti del Quattrocento dove ci sono gli UFO”. Mi ha tratto in inganno e mi ha conquistato. Sono interessato alle cose che mi appartengono, ma sono anche estremamente curioso. Nel lavorare insieme, nel mescolare la sua ossessione con la mia, ci siamo certificati a vicenda, quello che facevamo era autentico perché entrambi lo riconoscevamo come tale, anche se nasceva da una situazione fittizia, da una conversazione impossibile altrove.
MLF: Una sorta di equilibrio precario tra l’autentico e il falso, che si avvalorano a vicenda. Quanto è contato questo incontro nel tuo approccio, alla doppia G, il simbolo dell’heritage Gucci?
AM: Trevor è arrivato nel momento in cui io ero perso tra le G. G che sono come un geroglifico: usarle è come spostare un totem, è come spostare Anubi da Luxor. Trevor è stato la giusta deriva, ha portato la leggerezza che serviva a liberarmi, a liberarci da un certo tipo di passato e da un modo di fare con il passato. Lui si è appropriato di Gucci, ma è andato oltre un certo linguaggio della strada, che aveva inglobato Gucci nel ritmo del suo rap, per rendere il generale personale – perché Trevor utilizza il lato pop di Gucci per fare una cosa che non c’entra niente con Gucci, che è rappresentativa di lui e basta.
MLF: L’appropriazione è una pratica artistica che anche tu usi all’interno della tua grammatica. Penso a Sherrie Levine, e mi viene in mente il suo progetto “After Walker Evans” che trasforma e ricontestualizza immagini e oggetti.
AM: Sì, è una soluzione che metto in moto quando serve. La mostra “No Longer / Not Yet”, al Minsheng Art Museum di Shanghai, per esempio, è un atto di riappropriazione. L’ho ereditata e invece di cancellarla ho deciso di appropriarmene. Ragionando su un certo tipo di linguaggio visivo della moda, ho pensato che fosse più interessante frantumarlo, farlo a pezzetti. Abbiamo usato degli scatti fotografici mai visti e li abbiamo ingigantiti, volevo che si mangiassero la stanza. L’obiettivo era ancora una volta raccontare attraverso delle suggestioni quello che ho fatto, senza pensarci troppo, utilizzando quello che volevo e basta.
MLF: Sembra che tu sia interessato a fare spazio. Anzi, a crearti uno spazio d’azione libero da vincoli.
AM: Il territorio in cui mi muovo, forse in maniera impavida, è frutto di un’esperienza personale aperta. Dico sempre che a volte ci sono delle energie che si muovono e si radunano improvvisamente in un posto, in quella persona, anzi, in quelle persone. Perché poi io non sono solo: condividere è necessario per costruire quel campo energetico che permette di agire. Devo dire che in questo senso il dialogo con Marco Bizzarri (CEO di Gucci) ha innescato una reazione quasi chimica: lui era convinto che i ruoli si dovessero ridefinire, che marketing e creatività dovessero tornare al proprio posto. Il modo in cui le nostre conversazioni si articolano sostiene questa divisione. Marco poi ha una sensibilità tattile, anche verso il racconto: quando gli racconto le mie idee, pare che lui le tocchi proprio. E comunque, nemmeno lui ha paura di rischiare, di perdere.
MLF: Sviluppare una certa distanza critica permette di perdere il controllo, di fidarsi. È straordinario come sono organizzati gli spazi, reali e critici, in cui entrate e uscite a intermittenza, e da quegli spazi nascono le immagini. Un’atmosfera che ricorda gli anni Novanta.
AM: Il linguaggio degli anni Novanta è forte, intenso, perché si proponeva una immagine totale. Una intensità emotiva. Quando ti vesti vuoi essere parte di qualcosa, no? Far dire alle persone: voglio essere quella maglia rossa, voglio uscire con quelle scarpe, voglio appartenere a quel mondo. Negli anni Novanta c’era proprio la necessità di raggruppare la gente sotto un credo, e le immagini erano i testi sacri di queste religioni. La potenza di quelle immagini stava nel farti desiderare di essere dentro quella scena, e gli oggetti finivano col restarti in testa.
MLF: Tu hai intercettato il desiderio di guardare il mondo con altri occhi e abbandonarsi alla meraviglia. È stato come se, improvvisamente, tutte le cose intorno fossero state messe sotto una luce che ne ha svelato la polvere. Anche la scelta di usare un fotografo come Glen Luchford ha marcato la differenza.
AM: Tornare a Glen Luchford, uno dei fotografi che ha dato forma visiva a una dimensione di immaginario ipnotico e coinvolgente, è stato fondamentale in questo senso: cercavo qualcuno che facesse il reportage di quella vita che avevo nella testa. Avevo bisogno, come dici tu, di togliere quella polvere, e l’unico modo per farlo era creare immagini che fossero frutto di un atto, di un momento condiviso. Glen è l’unica persona che usa quel linguaggio, ed è stata una scelta innanzitutto fatta con grande passione: amo moltissimo alcune delle sue campagne per Prada. Glen è uno che il lavoro se l’è inventato: è un appassionato, ed è bravissimo perché lui, quando lavora con me, sta nei miei occhi.
MLF: Hai messo in discussione categorie stereotipiche come bello/brutto, maschile/femminile.
AM: Le categorie estetiche scaturiscono dalla tua educazione, dal tuo bagaglio. Io per esempio sono ossessionato dalla simmetria, con cui lotto quasi quotidianamente. Ogni cosa è seguita da un’altra, e da un’altra ancora: penso sia qualcosa di profondamente italiano. Per cui io produco altarini, che poi mi diverto a sfregiare, a storpiare. Sono convinto che noi italiani, se lasciati liberi, siamo capaci di cose incredibili, perché è come se fossimo forniti di una specie di vocabolario indotto, che non sappiamo neanche di avere. Abbiamo la morale borghese, che vuole la sequenza ordinata, e allo stesso tempo l’attitudine al gioco, che nega la serietà e ti fa sconfinare in altre categorie.
MLF: Tutte queste categorie si nutrono di ciò cui vanno contro, come il borghese e l’antiborghese. Non è un moto contrario, ma una complementarietà. Il tuo lavoro sul DNA di Gucci è esemplificativo del lavoro del direttore creativo che costruisce delle mappe dove elementi diversi trovano collocazioni e significati nuovi.
AM: Amo le mappe, soprattutto quelle sbagliate, perché svelano sempre delle cose. Poi nelle mappe ci puoi mettere quello che ti pare. Anche se io lavoro più con le liste, cioè la lista diventa il dispositivo che uso per elencare le cose che, come dice Vanni (Attili), il mio compagno, “mi popolano la testa”. Penso a Umberto Eco che parla di “vertigine della lista”, ed è esattamente quello che provo io, che continuo a riorganizzare l’ordine delle mie liste, e mi ci perdo ogni volta.
MLF: Nell’ultimo show hai dato materialità al perdersi, immergendo il pubblico in un’atmosfera sfocata.
AM: La nebbia tiene insieme quelle cose che non sono apparentemente sullo stesso piano, che generalmente non si osservano dalla stessa prospettiva. La nebbia mi ha aiutato a creare questo club che non esiste, e a costringere tutti a cambiare punto di vista. Il giardino è reale, ma è soprattutto mentale, popolato da piante e animali: come il serpente, che s’insinua dappertutto, e simboleggia in qualche modo un inizio perenne e un ritorno perenne.