Di Alex Israel si dovrebbe scrivere solo in lingua inglese. Prima di digitare questo incipit ci ho messo parecchio, perché consapevole delle sfumature espressive ineguagliabili di ogni lingua raffrontate all’omologazione terminologica del meravigliosamente storpiato e accettato “International English” dell’arte. Eppure, più guardavo il lavoro di Israel, più realmente non riuscivo a formulare una frase in italiano — la sensazione è quella di quando vediamo un film doppiato.
Nato e cresciuto a Los Angeles, Alex Israel ne ha assorbito la lingua autentica e il corrispondente immaginario attingendo, senza esitazione, alla storia creativa della California meridionale per restituirla al pubblico in ogni suo lavoro. Se oggi è chiaro il legame costruito nel corso di più di un secolo tra Hollywood, il luogo, e Hollywood, l’industria – sviluppata non solo nelle produzioni cinematografiche, ma anche, in maniera più sottile e critica, dall’arte visiva (Ed Ruscha docet) – Israel è l’artista contemporaneo vivente che ne rappresenta la quintessenza. Ogni lavoro dimostra come il luogo del concepimento rappresenti una componente unica dell’opera, una convalidazione di qualità soggettive e simboliche in grado di amplificarne il valore e l’impatto universale. L’hollywoodizzazione di Los Angeles, e la sua enfasi sull’artificiale hanno portato Israel a percepire la città e le sue convenzioni come una traccia da esplorare, riprodurre, dilatare, trasferire e far viaggiare.
“Fins”, recente capitolo nel percorso impeccabilmente coerente dell’artista, porta in campo non solo un aspetto iconico della cultura losangelina, ma l’evoluzione della sua artificialità in immagine e parola, elaborando un eloquente e complesso discorso. Nella sede romana di Gagosian, una serie di grandi pinne di tavole da surf in plastica acrilica colorata (prodotte magistralmente a Pomezia) occupa la sala ovale. Presenze imponenti e trasparenti, così belle da creare una sorta di incantesimo visivo che richiama lo sguardo sulla propria superficie. Le Fins di Israel si trasformano in un oggetto simbolico che improvvisamente desideriamo anche se non abbiamo mai cavalcato un’onda. Non siamo certi di ambire alla scultura o all’icona pop che l’opera impersonifica. Per descrivere Los Angeles — città responsabile anche della produzione di gran parte degli aspetti verbali e visivi della cultura del surf — William Faulkner scriveva di giovani corpi abbronzati sdraiati sulla spiaggia e nell’acqua, sopra le tavole. Una cultura, quella del surf che comprende dei codici specifici di linguaggio, moda e stile di vita che caratterizzano uno sport nato nel Sud Pacifico con aspetti spirituali che si è poi evoluto, in occidente, in un’altra sacralità, di standardizzazione culturale ambita e glorificata. Al contempo però l’apparente astrazione allegorica delle grandi pinne sembra smentirsi dal fatto che l’artista non tenti di dissimularne la forma. È qui che si palesa l’interesse evidente e colto di Israel per Duchamp e il suo infrasottile [inframince]. Le Fins sono infatti presenze effettive e contemporaneamente sfuggenti che mostrano il passaggio di uno stato a un altro stato, che sta solo a noi sapere percepire.
Proprio in questa chiave si legge anche l’azione radicale di Israel, che ha deciso, in un momento in cui l’accrescimento dell’intelligenza artificiale domina il dibattito sociologico e preoccupa gli ambienti accademici, di affidare a ChatGPT la redazione del comunicato stampa della sua mostra. Se la trasposizione della cultura dell’artificialità sembra assolutamente naturale nella sua poetica, nuovamente, Israel ci esorta a ragionare sul ciclo della costruzione dell’immaginario che plasma non solo la realtà nella quale desideriamo rifletterci, ma che oggi riesce a dare forma anche al modo in cui produciamo informazione. L’artista porta così il discorso sul piano della convivenza, sempre più adiacente, tra il reale e il possibile (artificiale) dove, come nell’ infrasottile, tutto è da intuire e cogliere con consapevolezza. In fondo la domanda che ci poniamo oggi su ChatGPT è simile a quella che ci si poneva un secolo fa sull’emanazione hollywoodiana. ChatGPT è una meraviglia o una farsa? In inglese direi marvel or farce? E con questo inglesismo che racchiude lingua, pensiero e cultura e critica, e nel quale risiede l’essenza stessa della poetica di Alex Israel, mi concedo uno strappo alla regola.