Luciano Marucci: Rivisitando il tuo percorso artistico si deduce che la produzione di oggi, pur restando fortemente soggettiva, è divenuta più aperta e complessa.
Alfredo Pirri: Soggettività e apertura non sono del tutto in contrasto; il loro accordo permette di parlare agli altri da una posizione individuale e individuabile attraverso l’opera. Questo è un gesto aperto, generoso; un’offerta senza rete. L’opera si proietta verso gli occhi di chi la osserva, gli va incontro creando un rapporto complesso. Con il mio lavoro ho sempre tenuto conto di quanto tale equilibrio sia necessario e allo stesso tempo difficile. Penso che l’artista — almeno per me è così — rincorra la sua opera, la segua mentre si sposta da un estremo all’altro; dal piccolo al grande, dal privato al pubblico; il suo percorso è reale, non metaforico. Spostandosi, l’artista trasporta con sé la porzione di un polo per riversarlo nell’altro, per cercare di rendere omogeneo qualcosa che, per sua natura, è differente. Questo andare e tornare crea una tensione dinamica e armonica che dà vita all’opera. Il mio lavoro sta dentro questo spostamento.
LM: L’espansione spazio-temporale e ideale evidenzia anche una volontà di “esporre” il pensiero con la parola e la scrittura fino a farlo divenire parte dell’opera.
AP: La scrittura e la parola non sono costitutive dell’opera, non ne fanno parte. Semmai si può dire che l’opera produce in noi parole. Attraverso esse cerchiamo di dare forma a una ritualità e a una comunità che siano insieme comprensive e accudenti. Per il tramite dell’opera scriviamo quotidianamente il nostro vocabolario; senza questo operato non vi sarebbe parlato; l’uno genera l’altro, ma il parlato non avvicina l’operato, anzi nei migliori risultati tende ad allontanarlo in un luogo dove le parole non bastano a raccontarlo. Io stesso mi sento autorizzato a parlare del mio lavoro in virtù e a garanzia della distanza che ho da esso, dalle opere che ne risultano. Se fossi un soggetto integralmente proprietario del mio lavoro e lo esponessi al mondo in simbiosi perfetta con le parole, verrebbe meno il loro motivo di esistere. Il vero fine della parola è dare forma musicale alla distanza che ci separa dall’opera facendone cogliere la melodia.
LM: Nella costante sperimentazione segui un metodo parascientifico che combina le tecniche tradizionali con quelle più evolute. Pensi che così si abbiano possibilità creative inedite?
AP: Tutte le tecniche si basano sulla necessità di raggiungere un certo fine grazie al quale hanno avuto origine, ed è normale che per ottenere un certo risultato si combinino tecniche differenti. È il principio di ogni composizione. Prima parlavo della complessità necessaria al compimento di un lavoro. Essa non è solo un modo di lavorare ma un processo conoscitivo finalizzato a restituirci un’opera sintetica. Questo è il mio metodo; a ciò sono interessato, non tanto alla ricerca dell’inedito. Vorrei che il mio lavoro fosse privo di originalità, qualcosa a cui guardare con semplicità e immediatezza.
LM: L’attività circolare che passa attraverso il comportamento, la costruzione e la comunicazione è senz’altro apprezzabile. Ma l’organicità non rischia di limitare l’innovazione o l’esplorazione di altre tematiche?
AP: L’organicità (e l’organismo) di un’opera è il risultato che supera di molto la somma di comportamento, costruzione e comunicazione. La sua qualità non è stabilita né dalla vita del suo autore, né da come è fatta, né da come se ne parla. Il suo corpo è instabile, mutevole; si modella a seconda di come viene costretto in una forma in un preciso momento. È come stringere fra le mani un palloncino: l’aria che comprimiamo da una parte sfugge sempre dall’altra… È la parte eccedente, che non avevamo previsto si formasse, quella che si avventura alla ricerca di nuove forme e significati diversi.
LM: L’“instabilità” non è in contrasto con la ricerca di equilibrio?
AP: L’equilibrio è il risultato di un movimento continuo, del succedersi di passi instabili; non è da immaginarsi immobile. Infatti, l’equilibrista che rimane fermo sulla corda più del dovuto, cade.
LM: La ricorrente progettualità e l’utilizzo di alcuni materiali extrapittorici, l’accuratezza compositiva e l’essenzialità fanno pensare a una tangenza con il design…
AP: Il design si fonda su un equilibrio così pericoloso che ci offre di scegliere fra un oggetto utile e uno inutilmente ludico. Nel mio lavoro, il progetto e i materiali scompaiono, non dicono nulla di più rispetto alla loro presenza e non vogliono attrarre né sedurre, né risultare utili o inutili.
LM: In questi ultimi tempi i progetti sono più rivolti agli spazi istituzionali? Sei particolarmente interessato agli ambienti sacri? L’artefatto, oltre a interagire con i luoghi fisici e culturali, storici o moderni, mira alla trascendenza?
AP: Sono interessato alla forma e alla carica narrativa di questi luoghi, alla loro capacità di attrarci fino ad abbracciarci… per poi lasciarci soli. Non parlo unicamente degli ambienti sacri ma di ogni luogo corale, quindi anche la piazza, il museo, il sito storico… dove l’aspetto collettivo e pubblico convive con l’individualità. Luoghi dell’alleanza e insieme della diaspora. I lavori che ho realizzato al loro interno mettono d’accordo questi caratteri contrapposti restituendoci un racconto spezzettato ma evocativo di storie. Mi piace immaginare che lo stesso succeda anche in spazi più ristretti o comunque più privati, intimi. Forse è l’opera che trasforma sempre lo spazio in un luogo indefinito che appartiene alla storia e alla memoria di tutti.
LM: Le tue realizzazioni possono essere viste come estensione della pittura e della scultura nello spazio per ottenere una visione simultanea?
AP: Io penso che ogni opera riuscita ci offra una visione ampia e simultanea, capace di tenere insieme spazi e tempi fra loro lontani: il piccolo col grande, il passato col futuro.
LM: L’arte visuale ha bisogno di altri elementi costitutivi per definire e trasmettere la sua identità?
AP: Fra tutte le arti quella cosiddetta visiva arriva per prima a porre questioni che le altre tardano ad affrontare. È la sola vera arte d’avanguardia, forse perché non influenzata dalle leggi della temporalità. Questo il suo privilegio, la sua dannazione. Il suo primato prende forma dentro pieghe linguistiche e sociali microscopiche dove si prepara a diventare diapason di riferimento sul quale accordare le arti e il gusto in generale. A volte, però, la realtà con ferocia ne anticipa le visioni, allora l’avanguardia si trasforma in terrorismo. È quello che spesso succede: il reale prende il posto dell’artistico mettendo in mostra tutta la sua goffaggine distruttrice. Non voglio dire che l’arte si debba autogenerare, ma che possa caratterizzarsi come qualcosa di “atemporale”, non fuori dal tempo umano ma in opposizione costante al tempo storico. L’arte è un pozzo, una sorta di buco nero nel quale tutte le discipline precipitano per tornarne rigenerate. È naturale che essa nasca dal confronto con tutto il resto; anche nel mio lavoro è così, soltanto che per me l’arte migliore è quella che dimentica la sua origine e si mostra a noi senza il corollario di fatti, immagini, fenomeni, ecc., che le hanno suggerito questa o quella soluzione.
LM: Quali sono le contaminazioni più funzionali al tuo lavoro?
AP: Ho detto altre volte di un aspetto performativo del mio lavoro; con questo termine vorrei si chiamasse qualcosa che provenendo dall’opera si spande nello spazio invadendolo, non una cosa reale o legata al tempo ma un’apertura della percezione che è un insieme di teatro, architettura, narrazione… Una dimensione del tutto immaginaria che mantiene l’opera in una posizione dinamica ma immobile allo sguardo. Anche quando si tratta di ambienti reali e praticabili, vorrei che si percepissero come luoghi della rappresentazione piuttosto che fisici; luoghi anche mutati dallo spettatore che, con la sua sola presenza o movimento, ne altera l’immagine. Mi interessa creare la sensazione viva di stare dentro un’immagine, avendo presente che questa condizione non significa restare immobili al suo interno sentendosene parte, ma entrare in competizione con la sua solitudine essenziale e intrattenere una lotta con le contaminazioni che l’hanno generata. Il mio lavoro si forma dentro un attrito, una frizione fra un sapere bastardo e un senso d’appartenenza alla specificità dell’arte come filiazione legittima e diretta.
LM: A Roma frequenti diversi artisti?
AP: Gli incontri sono dettati dall’esistenza di luoghi adatti e questi non esistono più, o non esistono ancora. La frequentazione (fra artisti o chiunque altro) è mossa dalla condivisione di idee e fatti e ambedue non sono più terreno d’incontro, ma solo di scambio. Allora le frequentazioni sono diventate singolari e la condivisione di idee sostituita da quella di informazioni.
LM: Preferisci avere contatti con gli intellettuali e gli esperti di altre discipline per ampliare le conoscenze?
AP: Cerco di non frequentare esperti di nessuna categoria e disciplina; gli specialisti mi annoiano. Frequento invece volentieri persone aperte che non adoperano il proprio sapere come una clava per offendere, ma lo offrono agli altri come un fiore profumato che stordisce.
LM: Hai un rapporto ideologico con il quotidiano?
AP: Da studente ero un anarchico affascinato dai libri dei situazionisti. Ricordo volentieri Trattato sul saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem. Non ho mai smesso di pensare che l’ideologia si costruisca tutti i giorni piuttosto che una volta per tutte.
LM: Attribuisci all’opera d’arte (in genere destinata a una élite) il potere di modificare la percezione del mondo?
AP: Penso che il destino dell’opera d’arte sia di fare parte essenziale di un popolo, di offrirgli una forma, una via, una fantasia. O meglio, che quello dell’opera e del popolo siano strade parallele, destinate — come tali — a incontrarsi all’infinito, dove il sogno dell’arte e quello popolare potranno finalmente congiungersi.