“The morning tide of moods” è come il risultato di un potlatch, di una distribuzione di doni avvenuta durante una grande danza vitale, con cui Alice Visentin riesce a rovistare nella personale percezione che ha di sé stessa, degli altri e del cosmo, per poi trarne la trama di una o più storie. È una pratica che l’artista – com’è piuttosto evidente nel suo lavoro – allena ogni giorno e che, di giorno in giorno, si fissa come un’impronta nel processo introspettivo che ne guida la ricerca.
Con il gruppo di opere presentate nello spazio espositivo di Lateral, la narrazione messa in scena nasce da un periodo che Alice Visentin trascorre in residenza presso l’American Academy a Roma, in cima al Gianicolo. A raccontare questa storia sembrano essere due entità che, poste una in primo piano e l’altra a parete sullo sfondo, si scambiano a vicenda aneddoti capitolini, ricordi di peripezie tanto varie e variopinte da stratificarsi in fasci di lingue arrotolati e poi dispiegati sul pavimento. Appena varcata la soglia di ingresso, il loro scambio prende avvio dalla prima entità che si presenta come una Bocca della Verità a cui non interessa mordere la mano di chi a!erma il falso, ma esattamente al contrario sembra voler incitare all’invenzione.
Servendosi di supporti espositivi e comunicativi eterogenei, l’opera configura un flusso disordinato di parole, segni, volti, forme e piccoli elementi scultorei, messi insieme per rimandare sia a cocci di cose passate sia a percezioni del nostro presente. Si struttura in insiemi spaziali distinti ma compenetranti, capaci di esprimersi uno a uno con una propria categoria di segni tanto da generare più piani semantici.
E infatti, pur rincorrendosi sulla stessa superficie, le lingue bisbigliano storie diverse in estrema libertà e queste cambiano per forma e sostanza in base a chi le ascolta, così come gli stati d’animo di ognuno che mutano autonomamente in rapporto a noi stessi, agli altri e al cosmo, nell’avvicendarsi di una misteriosa coesistenza di cui forse siamo poco coscienti di fare parte.
L’elemento percettivo è sempre capace di svilupparsi tra tutti i sensi, e, una volta introiettato, diventa di fatto il fulcro della ricerca dell’artista. In una seconda fase, l’abitudine di fantasticare sugli avvenimenti ordinari si combina al recupero della tradizione dell’oralità, di racconti o canti popolari, e le due pratiche sono utilizzate di volta in volta per inventare una diversa raccolta di storie. Questa quotidiana auto-stimolazione si manifesta nel tentativo di utilizzare il proprio processo creativo per la presa di consapevolezza di tutte quelle energie che sono vitali anche se impercettibili, cosiddette “sottili” poiché pervadono l’universo e sono determinanti per il ritmo appassionato e lento della vita – ossia le energie telluriche, celesti, orgoniche e così via.
Le storie del tempo vissuto a Roma si materializzano in questo modo tra pieghe e curve in una sorta di flusso di coscienza, lasciando in disparte un diverso gruppo di lavori installati quasi per congedarsi dal centro della scena. E, anch’essi senza un titolo, sembrano giocare con un ulteriore layer percettivo del percorso di sperimentazione dell’artista, in grado di descrivere anche la relazione di dipendenza, o indifferenza, che nel suo lavoro può esserci tra supporto e tecnica. Così, mentre i tratti di una linea sdoppiata si uniscono su un cartoncino giallo e tracciano un profilo irrazionale, un volto stupito si lascia scorgere su una serie di lunghi spezzoni di materiali e colorazioni tenuti sospesi da un supporto in acciaio, mentre il soffio leggero di un viso è proiettato su una parete come fosse una pittura
rupestre.