Delle assi in legno di medie dimensioni posizionate una dopo l’altra fungono da passerella che attraversa le stanze di Ordet, marcando un preciso tragitto entro il quale muoversi. Mi fermo più volte mentre la percorro, andando di poco avanti e indietro, forse perché a mano a mano che mi addentro nel percorso, mi rendo conto di afferrare un sentimento di vuoto che si manifesta sempre più muscolarmente, e allora cerco qualcosa, qualche “appiglio”, un “indizio” oggettuale che non arriva mai. L’unico altro elemento da subito presente è il suono, un’eco innescata dai passi dei visitatori, conseguenza di un impulso che qui si fa misura dell’intervento umano. Registrato all’interno di una cava di marmo nelle Alpi Apuane e rilocalizzato nello spazio espositivo tramite un sistema di microfoni a contatto installati sotto la passerella e trasduttori acustici nascosti dentro le pareti, il suono è stato originariamente provocato da un colpo di pistola a salve utilizzata per addestrare i cani a superare la paura dello sparo. “L’ascolto è il modo in cui mi avvicino ai materiali e alle narrazioni con cui lavoro. Il suono è uno strumento ricorrente, è il tentativo di far crollare la distanza, è la componente immateriale e invisibile che spesso si offre come strumento di conoscenza esperienziale.”1
Con la sua mostra personale dal titolo “Polvere”, Lydia Ourahmane agisce negli ambienti di Ordet come all’interno di un sito di produzione materiale. L’artista ne indaga le potenzialità fisiche, spaziali e sonore, scavando anche in alcuni dei progetti che lo spazio milanese ha presentato negli anni per estrarne e portarne alla luce il residuo di qualche forma materica e affettiva. Se la passerella è infatti testimonianza diretta della storia passata (è costruita con materiale di recupero usato da Ordet per la realizzazione di alcune delle mostre precedenti), l’artista algerina svela qui per la prima volta anche il magazzino, tagliando una porzione della parete in cartongesso che lo separa dalla confinante area espositiva. La sezione di muro giace riversa a terra e permette allo sguardo di affondare fin dentro il deposito, mettendo in discussione i concetti di confine e barriera e la loro legittimità. A conclusione della mostra, questo blocco di cartongesso verrà ridotto in polvere e compattato all’interno delle pedane, le cui sezioni lignee saranno riadattate in una serie di moduli scultorei. Nulla viene scartato. Il materiale non solo non è scomparso e non scomparirà nel tempo ma, muovendosi e mutando, permane: è come se fosse perseguitato da un grado di potenziale ancora insito al suo interno, da ciò che potrebbe ancora accadere. “La narrazione generale dell’opera riguarda la condizione umana della sopravvivenza.”2
Mostrandosi ritratto di un luogo e di ciò che esso è stato – e prefigurando un gesto a venire –, “Polvere” è portatrice di un sentire effimero e al contempo duraturo che ridefinisce l’esperienza espositiva come una risposta diretta a un’ambiente che, producendo e ospitando mostre, attinge a (e restituisce) narrazioni ed esperienze personali e collettive. Attraverso un intervento che in certa misura travalica le pareti ospitanti e invita a essere protagonista, ascoltatore e medium, la mostra si manifesta solo quando qualcuno procede al suo interno: lo spazio reagisce se agito, risponde se sollecitato. Si attiva insieme a chi lo attraversa, diventa complice di un passaggio, di un movimento del corpo o del suo arrestarsi. Con i suoi progetti Ourahmane mette spesso in circolo sia concettualmente che oggettualmente questioni identitarie, di differenza culturale, di nazionalità, migrazione, confine, territorio, Stato-nazione e dislocamento, restituendo lo spostamento come esperienza “intrinsecamente politica, sia che si tratti di un corpo, di un materiale o di un luogo”.3 Penso a “Barzakh”, mostra presentata alla Kunsthalle Basel nel 2022 e prodotta in collaborazione con Triangle – Astérides Centre d’art contemporain di Marsiglia, per la quale è stato trasportato in Europa l’intero contenuto dell’appartamento di Algeri che l’artista occupava dal 2018. Con “Polvere”, invece, Ourahmane sembra insistere su qualcosa di ancora più fugace: la scia, la polvere lasciata da uno sparo che rende più palpabile la dimensione metafisica dell’aria, un segnale acustico e materico che definisce “i limiti di ciò che può essere attestato e percepito”4 nei confini di un’area vuota come quella di una cava. Insiste su una mancanza che si manifesta ora come unica traccia residua per poi rivelarsi come variazione materica pronta a rimodellarsi ancora sotto altre e nuove sembianze.