Mentre la natura si esprime in infinite sfumature, la mente umana preferisce semplificare il mondo in categorie ben definite. Persino noi stessi.
La prima rivolta di Stonewall a New York, nella notte del 27 giugno 1969, segna l’inizio simbolico della lotta per i diritti degli omosessuali e la costruzione di un’identità gay. L’invertito ha lasciato gradualmente il posto all’omosessuale. È stato fondamentale costruire un linguaggio in cui ci si potesse rispecchiare, ha permesso che personaggi dichiaratamente queer comparissero sempre di più nei media. Purtroppo ha spesso sostituito stereotipi inaccettabili con altri forse meglio intenzionati, ma altrettanto riduttivi. E la loro frequenza non ha fatto che rafforzarne la presa nell’immaginario collettivo. Lo stesso termine queer, che è stato adottato proprio con l’intenzione di includere persone che non si riconoscevano nel binomio etero/omo, presuppone comunque che a una determinata normalità si contrappongano nature altre, in qualche modo strane. Così come lo spettro umano rappresentato dal ventaglio GLBT (gay, lesbico, bisessuale, transessuale, ndr) accoglie sì nuove categorie nella sfera della pubblica accettazione, ma in fondo non fa altro che perpetuare lo stesso sistema.
Nella produzione artistica internazionale si possono individuare sempre più tentativi di rompere queste barriere, mostrando l’unicità degli individui e dei loro percorsi, e quindi, paradossalmente, la loro universalità.
La giovane fotografa di Seattle Molly Landreth, di fronte alla scoraggiante immagine dell’universo femminile offerto dai media, si è proposta di creare da sola le iconografie che non riusciva a trovare. Ha trascorso cinque anni viaggiando per gli Stati Uniti con l’intento di ritrarre vite, amori e corpi alternativi, come lei stessa li definisce. Il risultato è la serie “A Portrait of Queer America”, in cui single, coppie e famiglie sono immortalati in posti per loro significativi, mostrando le mille facce che l’amore può assumere. Invece di concentrarsi sulla loro sessualità, ha messo in risalto la loro unicità, la loro forza. Senza vergogna, senza giudizio, a loro agio nella propria diversità, i soggetti della Landreth offrono la possibilità di rispecchiarsi in modelli difficilmente riscontrabili nei media.
Invece nella serie fotografica “Un matrimonio felice”, l’italiana trapiantata a Berlino Daniela Comani rivendica il diritto di appropriarsi del ruolo che desidera ricorrendo a travestimenti per permettere a se stessa di essere sia il marito che la moglie. Si tratta di un work in progress iniziato nel 2003, che si arricchisce via via di nuovi scatti in cui questa coppia ideale è ritratta in momenti topici. Un album di famiglia in cui due individui invecchiano insieme rispettando il quotidiano rituale del maschile/femminile. Ma le differenze tra moglie e marito sono minime, sembrano una di quelle coppie che finiscono per assomigliarsi a vicenda dopo tanti anni di convivenza. Entrambi indossano vestiti del guardaroba dell’artista, e un po’ di barba posticcia è spesso l’unico elemento tangibile che distingue l’uno dall’altra. E l’identità di genere svanisce per un nonnulla.
Anche l’identità gay è destinata a soccombere, perché fenomeno effimero e culturalmente specifico, prodotto di una società omofobica. Quando l’omosessualità non sarà più condannata, allora non ci sarà neanche il bisogno di difenderla, definirla, confinarla. In una società che non giudica l’omosessualità, non punta il dito e non divide in categorie, cadrebbero tutti gli stereotipi, anche quelli che vorrebbero essere costruttivi, dietro i quali ci si nasconde mascherandosi, adagiandosi nelle aspettative. Gay ben curati, attenti alla moda, amanti dei film di Barbra Streisand e degli strass di Lady Gaga. Lesbiche villose, arrabbiate con gli uomini, che guidano una quattro per quattro e non rinunciano alle Birkenstock. L’auto-ghettizzazione è uno dei fenomeni più fastidiosi della società delle categorie.
I ritratti dell’americana Katie Koti che formano la serie “Deconstructing the Boxes” rimandano alla serialità impersonale delle foto segnaletiche, ma presentano un’umanità ibrida, post-gender, che sfugge alle definizioni. Donne in procinto di diventare uomini, uomini diventati donne e persone che trovano una loro ragion d’essere in una sintesi dei sessi. Come dice la stessa artista: “La nostra società tenta di definire rigidamente il genere e la sessualità in una divisione binaria. È facile sentire un senso di disconnessione nel caso qualcuno non rientri in una di queste categorie. Io spero di sfidare queste dicotomie mostrando la lotta cui può andare incontro un individuo dentro la sua stessa pelle”.
Il fotografo russo Slava Mogutin, ormai cittadino americano, mostra da anni un universo di giovani gay che complica l’intento storico di forgiare un’identità collettiva dell’omosessualità. Il suo è un mondo iper-eroticizzato dove un americanissimo immaginario hip hop, che è più conosciuto per i suoi aspetti omofobici che omoerotici, si ibrida con quello militare, di sapore più sovietico. Se i suoi soggetti hanno poco a che fare con una visione effemminata dell’omosessualità maschile, non cadono neanche nel cliché gay della caricatura di mascolinità. Mogutin ritrae anche altre sottoculture giovanili come skinhead, hustler e skateboarder: sono giovani spesso disagiati, in un qualche modo persi, per riprendere il titolo del primo libro di fotografie dell’artista, Lost Boys, che oscillano tra momenti d’incontro e d’isolamento, di condivisione e alienazione. Ma la ricerca della propria realizzazione sembra passare proprio attraverso questi incontri fuori dagli schemi. Come dice Mogutin stesso: “Non puoi essere una persona completa se non esplori diversi lati della tua natura e sessualità. Idealmente bisognerebbe provare uomini, donne, transessuali e gender bender”.
Se nell’universo queer è comune sospettare un eterosessuale di nascondere desideri omoerotici più o meno assunti, non è altrettanto comune riconoscere in se stessi la medesima ambiguità, ammettere la possibilità di essere attratti da persone del sesso opposto. Ci si adagia nella nicchia che ci è stata preparata. Si finisce per difendere la propria identità a discapito della propria verità.
Le fotografie di artisti come Richard Kern, Ryan McGinley, Diane Russo e Aiden Simon sono accomunate da una gioventù spensieratamente polisessuale, spesso ritratta in mezzo alla natura, lontana dai confini sociali della convivenza urbana. Le possibilità di accoppiamento sembrano infinite e non problematiche, libere dal peso delle etichette che intrappolano l’individuo ignorando la sua unicità.
Essere attratti da una donna, un transgender o un uomo non dovrebbe rendere qualcuno etero, confuso o bisognoso di uscire dall’armadio, in quanto alle nostre azioni non va associato un marchio di fabbrica. Il sesso è qualcosa che si fa, non qualcosa che si è.
Anche il pittore argentino Juan Tessi dipinge momenti d’intimità tra adolescenti in cui l’esplorazione della propria sessualità non sembra essere limitata dai tradizionali ruoli di genere. I giovani post google ritratti da Tessi interagiscono sensualmente tra loro come se l’amore fosse un atto aperto, inclusivo invece che esclusivo. Altri lavori più recenti di Tessi raffigurano scorci erotici in cui è virtualmente impossibile determinare il sesso delle persone interessate. In questo modo sospende la possibilità di una lettura conclusiva e ci obbliga a considerare l’atto come un semplice contatto tra due esseri umani, chiunque essi siano.
L’installazione Friendster is Dead del giovane artista americano J-Morrison è una perfetta illustrazione di questi rapporti fluidi nell’era dei social network. È composta di centinaia di disegni raffiguranti i profili di uomini e donne della sua cerchia, utilizzando un codice di colori per distinguere la relazione dell’artista con loro, tra amici, amanti, conoscenti ed ex amici. Mima l’illusione di poter mettere ordine nelle relazioni umane e, come le relazioni umane, l’installazione è in costante mutamento. Ma l’intricata ragnatela di rapporti che forma suggerisce una complessità impossibile da semplificare, il cui fascino risiede proprio nel suo carattere sfuggente, sovrapposto e contradditorio.
Oggi è arrivato il tempo di disfarci delle etichette sessuali, come di un luna park una volta amato, ma ormai arrugginito e pericoloso. Ce ne basta una che comprenda tutti quanti. Il futuro è pansessuale.
Nei disegni del giovane artista americano Brian Kenny moltitudini di persone, maschi e femmine si abbracciano, baciano e penetrano in combinazioni infinite. È impossibile distinguere dove un’interazione, e quindi una definizione finisce e l’altra inizia, l’atto amoroso è un continuo di sfumature che si accavallano l’una con l’altra come i colori dell’arcobaleno, senza mai formare un singolo confine. I corpi si intrecciano giocosamente fino a invadere il foglio con una forza che sembra inarrestabile, come se l’artista non trovasse mai la fine delle combinazioni possibili.
Le fotografie della coppia Lovett/Codagnone mandano in tilt il ghettizzato stereotipo sadomaso includendolo in contesti domestici, familiari e persino pubblici. Scatti dall’aspetto quasi amatoriale, una tovaglia a quadretti rossi e bianchi che rimanda a domeniche in pizzeria con la famiglia, mamma e papà sorridenti seduti a tavola accanto al loro figliolo e il suo compagno, in piena tenuta sadomaso, con tanto di maschera di cuoio e pallina in bocca. Nella fotografia A kiss is not enough la coppia sembra in procinto di compiere una sorta di rituale d’impiccagione, ma non sono in un sotterraneo, come richiederebbe l’iconografia tradizionale, bensì in un parco pubblico, circondati da alberi in piena fioritura, che danno all’immagine un sapore di favola per bambini.
Le nuove generazioni sentono il bisogno di demolire questi stereotipi, basta andare un po’ su YouTube per rendersene conto. Migliaia di giovani dialogano l’uno con l’altro via world wide web su temi che una volta si discutevano solo all’interno di un corso universitario di Queer Studies. E condividendo le proprie esperienze non fanno che rafforzarsi l’un l’altro, rendere realtà e pratica quotidiana quello che finora era solo un desiderio per un futuro possibile. Si sono riappropriati del diritto di disegnare le proprie mappe sessuali, superando i confini angusti dettati dalla proposta costante di pochi, ben definiti canoni di appartenenza.
Utilizzando messaggi e video clip che loro stessi caricano su YouTube, ho montato il video Love has no gender che correda questo articolo (Per vedere il video di Sebastiano Mauri vai su www.flashartonline.it sezione video). Perché siano loro, i giovani d’oggi, gli adulti di domani, a dirci con le loro voci che il traguardo è una società contraddistinta dall’inclusione invece che l’esclusione, che superi non solo il divario tra omosessualità ed eterosessualità, ma anche tra maschio e femmina. Una società delle sfumature, della pluralità e dei paradossi, in cui ognuno sia libero di essere veramente se stesso, senza difendere il proprio orticello, senza ricorrere a definizioni. Una società in cui l’amore non abbia finalmente genere.