Andrea Viliani: La vostra personale a Milano è ospitata in un luogo abbastanza recluso, l’ancora operativo Circolo degli Ufficiali all’interno del barocco Palazzo Cusani in Brera. Non solo questo luogo è stato gestito dall’Esercito italiano per decenni, ma attualmente ospita il quartier generale della N.A.T.O. Come avete affrontato questa location nel concepire la mostra?
Allora & Calzadilla: La mostra trarrà ispirazione da questo luogo unico, sia come luogo storico sia per la sua attuale funzione. Stiamo pensando al concetto di “teatro” in termini artistici e militari e in mostra vogliamo sperimentare differenti forme teatrali. Partendo originariamente dal significato della parola greca theatron ovvero “luogo per la visione”, il termine ha, fin dal Medioevo, connotato “uno spazio aperto per la visione di spettacoli” e dalla fine del XVI secolo un “luogo di azione”. La nostra mostra, ad ogni modo, è caratterizzata da una moderna interpretazione del concetto di teatro, in particolare, affronta il linguaggio brechtiano e il teatro epico. Il lavoro performativo funzionerà come una serie di interruzioni nello spazio-tempo della mostra. Frasi e gesti, due termini brechtiani molto essenziali, giocheranno inoltre un ruolo molto importante. Per esempio all’interno del Salone Radetsky — una sala da ballo che prende nome dal generale austriaco (immortalato da Joseph Strauss nella sua Marcia di Radetsky, 1848) — presenteremo Stop, Repair, Prepare: Variations on ‘Ode to Joy’ for a Prepared Piano. Il lavoro consiste di un pianoforte Bechstein dei primi del Novecento con un buco intagliato al centro che crea un vuoto attraverso il quale il performer suona il Quarto Movimento della Nona Sinfonia di Beethoven (1822-1824). Comunemente conosciuta come Ode alla Gioia, questo famoso coro finale è stato a lungo invocato come rappresentazione musicale della fraternità umana in contesti ideologicamente disparati come la Rivoluzione Culturale Cinese, il suprematismo bianco della Rhodesia di Ian Smith e il Terzo Reich, tra gli altri. Oggi è l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Beethoven consapevolmente ha incorporato la tradizione della musica politica europea per questa opera. Espandendo i concetti di un pianoforte e di un suonatore di piano, il performer deve tendere le braccia verso la tastiera e ricollocare il suo muovere le dita sulla tastiera su giù e indietro mentre fisicamente immobilizza lo strumento per tracciare un percorso attraverso lo spazio espositivo. Questa versione strutturalmente incompleta dell’ode crea variazioni sulla dimensione corporea così come su quella sonora della dinamica del musicista / strumento.
AV: In occasione di dOCUMENTA(13) avete presentato il film Raptor’s Rapture, che mostrava un’aquila e un musicista che suonava il flauto, in un bunker di Kassel legato alla storia militare locale e alle infrastrutture della città. A Milano avete presentato a Palazzo Cusani la trilogia integrale cominciata con Raptor’s Rapture, che contiene altri riferimenti alla musica. Come hai visto il rapporto tra le strutture di potere e la musica, un elemento ricorrente in molti dei vostri lavori?
A&C: Nell’ultimo decennio abbiamo esplorato i confini della “musica di potere” ma anche provato ad afferrare quello che effettivamente e forse più essenzialmente è la potenza della musica. È un territorio molto interessante da esplorare per noi a causa della sua natura toccante. Il suono ti tocca letteralmente. Le vibrazioni prodotte dal suono muovono piccoli ossicini all’interno delle tue orecchie. Questa stimolazione è registrata prima come un’intensità (tocco) con cui il corpo risponde con sensazioni, emozioni e cognizioni. Come i nostri sensi, le nostre emozioni, credenze, e i nostri giudizi sono mediati e le risonanze costituiscono un tracciato molto ricco di indagini all’interno del più ampio ambito delle bio-politiche di personificazione, specialmente in quanto mette in primo piano il corpo come luogo materiale a partire dal quale le persone sono connesse le une alle altre e al mondo in generale. Siamo interessati alle pratiche che mettono in primo piano la natura materiale delle sensazioni e che colloca il corpo al centro delle forme pubbliche di soggettività collegate all’organizzazione del potere. La “musica del potere” ci ha ovviamente portati nel vasto terreno del militarismo e della musica con i suoi infiniti esempi di influenze interculturali portate avanti dai conflitti militari. Ci sono infiniti modi in cui la storia della guerra ha coinvolto la storia della musica e la storia della musica la guerra. La musica è sempre stata uno strumento psicologico e un modo per comunicare in battaglia nel corso della storia. Oggi non è diverso. Prendi l’altoparlante utilizzato durante le missioni della guerra in Iraq che facevano uso di pop, heavy metal, rap, e musica rock come arma sonora. Che sia stata utilizzata per ispirare i soldati, per annunciare un attacco o costringere alla resa, la musica è stata parte degli arsenali bellici fin da quando sono state combattute le guerre. Forse il nostro primo lavoro che affronta direttamente la questione dell’estetica del suono e la musica associata al militarismo e la guerra è Returning a Sound, realizzato nel 2004 e anch’esso incluso nella mostra. È un cortometraggio realizzato a Vieques, Puerto Rico, un’isola utilizzata negli ultimi sessant’anni dall’Esercito Americano e dalle forze della Nato per esercitazioni di bombardamenti. Il locale movimento di disobbedienza civile insieme con un network internazionale di supporto ha imposto nel maggio 2003 lo stop ai bombardamenti, la rimozione delle forze militari americane dall’isola. Decidemmo di fare un lavoro che rendesse nota la realizzazione di una campagna di pace e giustizia, mentre al contempo puntava a nuovi interessi. Il video affronta non solo il paesaggio di Vieques, ma anche il suo paesaggio sonoro, che per i residenti dell’isola resta segnato dalla memoria della violenza sonora dei bombardamenti. Segue Homar, un ribelle e un attivista, quando attraversa l’isola demilitarizzata su un motorino che ha una tromba saldata sulla marmitta. Lo strumento per la riduzione del suono è dirottato dal suo scopo originario e produce invece un fragoroso richiamo all’attenzione. Diventa uno strumento di richiamo le cui emissioni non seguono una partitura predeterminata, ma i sobbalzi della strada e le discontinue accelerazioni del motore della bici quando Homar si riappropria acusticamente delle aree dell’isola precedentemente esposte alle detonazioni. La atonalità del richiamo della tromba, che evoca la sirena di un’ambulanza, l’Intonarumori del futurista Luigi Russolo e addirittura salsa o jazz sperimentali — contrasta con la convenzione musicale che ci aspetteremmo per sugellare una vittoria popolare, come un inno. Eravamo interessati all’idea di inno, come struttura commemorativa, ma non eravamo soddisfatti delle connotazioni tradizionali della parola. Preferivamo la serie di associazioni più aperte che offriva l’etimologia greca della parola, anti-phonos. Returning a Sound celebra una vittoria e ne registra la sua precarietà, per questo con Returning a Sound stavamo cominciando a lavorare attraverso alcune questioni come la musica opera nell’arena sociale.
AV: Un’altra inquietante ma interessante relazione che voi esplorate in questa trilogia, così come in altri lavori, è quella tra l’uomo e l’animale. Possiamo dire che questo è modo per commentare i legami strutturali e i motivi ricorrenti che sovrintendono e regolano i nostri comportamenti sociali, le nostre nozioni sui concetti come identità, nazionalità, democrazia, storia, anche globalizzazione, adottando il punto di vista liberatorio e la percezione spazio-temporale radicalmente diversa delle altre specie che abitano il vostro status vitale?
A&C: Ci interessa esplorare la questione di come e quando il soggetto “umano” entra nell’esistenza, come si è evoluto in qualità di costrutto filosofico, sociale e infine politico e cosa sono le implicazioni della posizione privilegiata che l’“uomo” ha occupato nella tradizione occidentale. Non siamo sicuri se sia possibile adottare il punto di vista di altre specie, ma abbiamo fatto diversi lavori in cui cerchiamo di inquadrare e problematizzare questa separazione uomo-animale utilizzando un significato artistico. Uno dei nostri recenti film, Apotom, che sarà presentato a Milano esplora questo terreno complesso. Il film assume come punto di partenza lo sforzo, sullo fondo della Rivoluzione Francese, di un uomo che cerca di comunicare e creare nuove relazioni con gli animali tenuti in cattività — in questo caso due elefanti, chiamati con affetto Hans e Parkie (o Marguerite), che giunsero al Museo di Storia Naturale di Parigi nel 1798 come bottino di guerra. Lo stesso anno venne realizzato un concerto per elefanti nello zoo del Jardin de Plantes, organizzato da musicisti (e non scienziati) per vedere se la musica umana possa carpire una reazione in una forma di vita non-umana. Apotom è incentrata su una zanna dei due elefanti, attualmente allo zoo. In una ricerca parallela, ci siamo imbattuti nel vocalist Tim Storms, l’uomo con la voce più profonda del mondo, tale che solo animali grandi come gli elefanti sono in grado di sentirla.
AV: Un ulteriore e abbastanza inspiegabile aspetto del vostro lavoro è il modo in cui animate, utilizzando vari strumenti performativi, le installazioni scultoree (spesso composte come surreali evocazioni dell’immaginario militare e come simboli sociali-economici-politici) come il solitamente statico e neutrale white cube del museo/galleria. È questa relazione tra l’oggetto e l’azione, come il modo in cui sovrapponete costantemente media diversi ed esperienze estetiche, un modo per esplorare le associazioni libere, o le “fault lines” (linee di confine, N.d.T.), per citare il titolo della vostra mostra di Milano, della nostra realtà predeterminata?
A&C: Come artisti, siamo attratti dalla poetica trasformista della metafora. La metafora, per noi, è una risorsa primaria per interrogarsi sui limiti e i confini di tutte le cosiddette “verità”. Le metafore possono produrre nuove intuizioni e significati. Poiché la metafora ha la capacità di trasformarsi, può essere un potente strumento se applicata all’ambito sociale lì dove il significato è consensualmente stabilito. Può divenire una forza tangibile nel riformare come il mondo appare a noi, aprendo così nuove possibilità per identificazioni soggettive, individuali e comuni. Noi vediamo questa funzione come sia estetica e formativa per creare nuove sensibilità che possano influenzare le scelte delle persone in come essi si relazionano a un dato argomento. Siamo inoltre interessati all’eccessivo potenziale della metafora — che è una cosa per rappresentare altro da quello che è.